Settanta anni fa uccisero un filosofo. Ammazzarono un uomo mite. Spararono nove colpi di pistola nel torace di un grande pensatore. Erano le due del pomeriggio. Il sole del 15 Aprile 1944 già tiepido. A Firenze, sulla collina del Salviatino, un’autovettura era ferma. Gli alberi erano appena battuti dal vento tirrenico. All’auto si avvicinarono due finti studenti, che salutarono. E, con i libri tra le braccia, esclamarono, “Scusi, è lei il Professor Gentile?” La risposta del filosofo, “Che cosa vuoi figliolo?” ma i revolver spararono. Tanti colpi di purissimo odio. Tanti colpi sparati per colpire un uomo indifeso. Tanti colpi per ricordare che quella guerra civile era sudicia e i liberatori avevano spesso i volti degli assassini.
di Renato de Robertis da Barbadillo del 2 aprile 2014
I colpi squarciarono il petto di Gentile. Spararono in due: Bruno Fanciullacci e Giuseppe Martini. Non spararono solo per un uomo ma per tutto ciò che era diventata l’Italia, un paese di fucilazioni infami causate dal secolo spietato. Chi sparò, in quel giorno di primavera, celebrava la guerra civile italiana. E chi sparò sapeva che quel sangue poteva servire a ‘sovietizzare’ il paese. Colpivano chiunque: maestri elementari, impiegati operosi e leali, proprietari terrieri, decorosi soldati, sacerdoti, contadini ricchi, e filosofi anziani, come Gentile, che si batteva, da tempo, per la riconciliazione nazionale. Colpire chiunque e basta: questo ripetevano a se stessi quei gappisti; o meglio, colpire per reclamare la guida della resistenza al nazi-fascismo. Colpire chiunque, anche i dirigenti della Resistenza avversi al partito comunista. Il disegno era chiaro: incendiare l’Italia come fecero in Russia gli altri comunisti decenni prima, come fecero in Francia i giacobini secoli prima. La Storia è dolorosamente ripetitiva.
La notizia della morte non si diffuse presto. Qualcuno poi pensò… Sono stati i fascisti di Firenze. Quelli del Maggiore Carità. Gentile li aveva denunciati. Seppure in ritardo molti scrissero sull’assassinio. Benedetto Croce pianse per l’amico “sincero, affettuoso e leale.” Padre Agostino Gemelli versò le sue lacrime. La resistenza del Partito D’Azione ambiguamente non approvò. Indro Montanelli, molti anni dopo, scrisse che la parte dei resistenti al fascismo, che aveva colpito il filosofo, era divenuta “la parte sbagliata: quella dei sicari.” Ma, effettivamente, quale parte ordinò l’assassinio. Solo i Comunisti. Oppure fu un complotto? Gli inglesi erano interessati a togliere di mezzo quel filosofo che cercava un compromesso per far uscire gli italiani dalla tragedia.
Lo ammazzarono in una Firenze che era una polveriera. Giorni prima erano stati trucidati dei giovani che rifiutarono la chiamata alla leva repubblichina. La bruna polvere della Storia offuscava tutto. Pochi uomini – purtroppo pochi – sapevano che Gentile da anni si batteva per aiutare gli esponenti dell’antifascismo non comunista. Ma i partigiani comunisti non lo volevano sapere, perché il loro obiettivo era la mattanza: quella dell’estate del 1944. E non sapevano che il filosofo aveva tuonato contro il regime: contro le porcate delle leggi razziali. Egli ripeteva di averlo detto “ben forte a chi di ragione” ovvero Mussolini. Non gli bastò salvare ebrei ed intellettuali antifascisti per evitare di essere crivellato. Non gli bastò. Perché non bastò?
Mentre tanti tacevano sulle persecuzioni razziali, i partigiani crivellarono un intellettuale che sbottava in difesa degli ebrei. Così, nel 1943, Gentile elogiò pubblicamente un ebreo, il suo maestro d’Ancona. In quei mesi infelici, inoltre, egli proponeva la sua exit strategy lontana dalle ragioni della ghigliottina. Però, i duri del fascismo o i partigiani gappisti chiedevano solo teste. Tre mesi prima dell’assassinio, da una parte, i duri del Fascismo istituivano il Tribunale speciale di Verona, dall’altra le bande partigiane rosse non risparmiavano atrocità. Prima del suo assassinio, Gentile si appellava alla riconciliazione nazionale; scriveva il suo Discorso agli italiani nel Giugno del 1943. Scriveva la sua prova di onestà – ah, l’ingenua onestà dei filosofi! -, così invitava a non versare il sangue nelle strade. Dichiarava ai fascisti e agli antifascisti di fermarsi e rimandare “le dispute e le dissensioni a dopo.” Ma ciò non conveniva ai duri e puri. Forse i suoi appelli alla riconciliazione dispiacquero a molti. Per questo, forse, gli bruciarono il petto con nove colpi di pistola.
Molti filosofi furono abbattuti dalla furia degli eventi storici. Molti filosofi mostrarono la via della ragione, dimenticando che stavano rischiando la vita. Anche Gentile non calcolò il rischio; non lo calcolò o per fiducia nella ragione o per fiducia nella patria. Dopo la sua morte, la prima cosa che chiese la sua famiglia fu il non fare rappresaglie. E chiese, quindi, il silenzio. Le rappresaglie non avvennero. Prima della sua morte, nel 1943, Gentile riferì allo storico Rossi queste parole, “Ho completato la mia opera. I vostri amici ora possono uccidermi, se vogliono.” Lo uccisero i comunisti ma, forse, dietro questi vi erano gli inglesi o gli intellettuali dell’antifascismo peloso fiorentino o i politici che temevamo più il futuro di Gentile che il suo passato.
Il passato di Gentile? Ovvero, un secolo in cui una grande quantità di pensatori vissero l’illusione della rinascita dell’umanità. Essi, illudendosi sinceramente, videro nel totalitarismo la risposta alle gravi crisi del secolo breve. Il nuovo Dio era o il Soviet o il Partito o lo Stato. E Gentile concepì lo Stato etico. Lo Stato, non come una gabbia di acciaio, ma principalmente come una comunità nazionale. Lo Stato in cui la famiglia e la scuola sono la sua sostanza. E’ il momento, insomma, per rimisurare i concetti gentiliani come un’espressione di un comunitarismo post-risorgimentale. Ma, prima di tutto, è il momento per fare luce sulla vicenda drammatica di un filosofo; una vicenda che presenta alcuni misteri; e lo si faccia quindi con nuova onestà intellettuale, al fine di riconoscere definitivamente la filosofia gentiliana “tra le forme più potenti del pensiero del nostro tempo.” (E. Severino, 2014)