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Giannello Torresani, il genio di Carlo V (da “Storia in Rete” n 39)

Le recenti polemiche sull’«emigrazione» più o meno forzata delle migliori menti d’Italia alla ricerca di condizioni di lavoro decenti dà lo spunto per aprire una finestra sui personaggi geniali del nostro paese ingaggiati da potenze straniere. Come Giannello Torresani, orologiaio, riformatore del calendario nonchè ingegnere civile dell’Imperatore Carlo V e poi di Filippo II. Eccone vita, morte ma soprattutto… miracoli

di Marino Viganò su STORIA IN RETE N° 39 

Precocemente invecchiato, tormentato dalla gotta – «male sociale» dei ricchi – per gli eccessi a tavola, logorato da trentacinque anni di temperie politiche di ogni sorta affrontate in prima persona, il 25 ottobre 1555 l’Imperatore Carlo V d’Absburgo abdica da duca di Borgogna in favore del figlio Filippo II, già re di Napoli e duca di Milano dal 24 luglio 1554. Gli cede le corone di Castiglia, di Sicilia, di Nuova Spagna [le colonie d’America NdR] il 16 gennaio 1556; nel giugno la Franca Contea, nel luglio l’Aragona e la Sardegna. Il 12 settembre 1556 rinunzia poi la dignità del Sacro Romano Impero germanico cedendola al fratello Ferdinando I, il 15 lascia i Paesi Bassi, torna in Castiglia e il 3 febbraio 1557 si ritira nei pressi del monastero di Yuste, in Estremadura. L’uomo più potente del mondo si sceglie una vita di silenzio. Pochi, salvo qualche monaco di servizio, sono ammessi alla sua presenza. Solo un uomo, compagno di romitaggio e commensale, ha accesso quotidiano al vecchio monarca. Si chiama Giannello Torresani – Juanelo Turriano, per gli spagnoli. Non è un personaggio di rango, un cortigiano, ma un orologiaio. Il più famoso di tutti i tempi.

L’ex Imperatore – ossessionato da una passione per gli orologi che rasenta la mania – lo tratta quasi fosse un consigliere della corona: «Ianellus Turrianus horologistrarum vertex… familiarissimè, consuetudine Cæsaris utebatur, ut qui unus esset ex XIJ Cæsaris ministris», così lo storiografo imperiale Willem Snouckaert van Schauwenburg (Guglielmo Zenocaro), nel 1559, a pochi mesi dalla scomparsa del suo augusto Signore, occorsa a Yuste il 21 settembre 1558. Una familiarità eccezionale, anche nonostante la lunga frequentazione, data l’umile origine e il mestiere dell’artigiano in un’epoca nella quale il termine «meccanico» s’accompagnava con l’aggettivo «vile». Ancora più eccezionale se si considerano le bizze di Giannello – «un homo che vi vorrebbono bene de i ricordi et de gli sproni per farlo far cosa di che egli non habbia voglia», nota nel 1556 Ferrante Gonzaga, governatore di Milano. E la liberalità di Carlo V nel tollerare di buon animo i suoi capricci, viene ricordata nel 1632 dal cardinal Federico Borromeo: «Ricusò un giorno il buon Gianello, per certa ostinatione, di far’ una cosa, che l’Imperadore voleva, che egli facesse nella sua arte. Laonde l’Imperadore con piacevol modo gli disse. “E che meriterebbe uno, il quale non volesse obbedire all’Imperadore?” Cui il maestro prontamente, e senza perdersi d’animo, rispose. “Pagarlo, e mandarlo con Dio”». Perché questa vicinanza e acquiescenza? Chi è, dunque, quest’uomo genialoide, spiccio e lunatico?

Ricerche d’archivio ne hanno precisato i contorni biografici, levandolo dalla leggenda e riportandolo nella realtà. Giannello Torresani nasce a Cremona, probabilmente intorno al 1500. E’ di estrazione popolana: «huomo nato bassamente», scriverà il concittadino Antonio Campi nel 1585, «ma dotato da Iddio di cosi sublime ingegno, che hà fatto stupire il mondo, & è stato riputato da ogn’uno un miracolo di Natura» poiché digiuno di lettere «parlava dell’Astrologia, & dell’altre arti Mathematiche tanto profondamente, & con tanto fondamento, che pareva non haver giamai atteso ad altro studio». Il padre, Gherardo di Giannello – traslazione consueta del nome di nonno in nipote – non è però uno spiantato: atti notarili provano una comproprietà in un mulino sul Po, la gestione di un altro sulla Ciria e la partecipazione al possesso di terreni a Paderno. Il figlio deve aver rivelato presto doti naturali perché Gherardo non lo manda a mulino, ma a scuola da Giorgio Fonduli, «Dottore di Medicina, & Filosofo, e Mathematico preclarissimo» (è sempre il Campi a ricordarlo), ove il ragazzo apprende le teoretiche della varietà dei saperi poi applicati. Ma non il latino: da ciò la leggenda che sia un rozzo illetterato, mentre è soltanto escluso dalla cultura «alta» del suo tempo. Fra il 1529 e il 1534 compare come «Magistro Janello» in alcuni mandati della fabbriceria del duomo di Cremona: trentenne, magistro di bottega di fabbro, orologiaio, è retribuito per «adaptandi seu reformandi oroloia existentes super turratio» e «faciendi usidos seu portellos ad baptismum positum in baptisterio», cioè la regolazione degli orologi sul torrazzo di Cremona e la facitura di sportelli in ferro al battistero. Lo vede allora nella fucina il concittadino Marco Girolamo Vida, vescovo d’Alba, che lo descrive come un novello Vulcano: cosparso di fuliggine, con mani enormi piene di ruggine, rude e malvestito: «semper videas multo cinere, et incocta fuligine os, et capillum, barbamque inspersum… manibus digitisque latis, atque pergrandibus, ærugine semper plenis… incommode vestitum»; e con un aspetto da fare spavento: «informi atque agresti est facie formaque et specie adeo illiberali, in qua nulla dignitas, nulla indoles, nulla industriæ spes». «Bue in forma umana», secondo Leone Leoni, scultore suo amico-nemico, Giannello si vede però riconoscere dal Vida una vasta cultura teoretica oltre che fabbrile, da inventore e non solo da realizzatore: «à seipso suo ingenio, sua investigatione, suo, ut aiunt, Marte, & instituit, & fabricatur, idem inventor, & effector».

Così mostruoso non dev’essere, o perlomeno dev’essere già molto reputato e benestante perché nel 1530 trova moglie nella «domina» Antonia de Sigiella, del «quondam dominus» Bernardino, donna di condizione un po’ superiore alla sua, che gli porta una dote di 150 «lire imperiali» (50 in contanti e 100 in «robe»), dalla quale ha nel 1531 la figlia Barbara Medea e poi un «figliuolo», morto adolescente a Milano, fra il 1541 e il 1552, a quanto scrive il Leoni, che allora avrebbe soccorso l’amico con denaro per fargli le esequie: «gli mandai vinticinque scudi che non vi era dove sepellirlo». Nel 1536-’37, sempre a Cremona, Giannello prende a bottega apprendisti che devono disputarsi l’onore di imparar l’arte da tanto maestro. Il suo destino di fama europea sta intanto per stanarlo dalla provincia. Carlo V, re dei Romani, nel 1529 scende a Bologna a ricevere la corona Imperiale da papa Clemente VII ed è allora che Francesco II Sforza, duca di Milano – conoscendone le inclinazioni – disegna di donargli il meraviglioso astrario di Giovanni de Dondi, «machina» medievale fissata in precedenza su una torre del castello di Pavia, conservata qui rugginosa e disfatta nella biblioteca castrense. Che l’Imperatore accetti subito il dono, nel 1529, oppure nel 1533 in occasione di un passaggio da Pavia non è importante: sta di fatto che rimane affascinato dall’eccezionale oggetto che decenni prima – nota il pavese Stefano Breventano – «corroso dalla rugine & levate le ruote da i luoghi loro, andò tutto in ruina». Carlo V dà ordine, allora, di rimetterlo in funzione, ma nessun artigiano sembra in grado di eseguirlo; sinché, continua il Breventano, «un Maestro Gianello Cremonese huomo di acutissimo ingegno in cotal arte ad instanza di Carlo Quinto Imperadore à quella somiglia[n]za ne fabricò un’altro». Le fasi dell’opera, stando ad appunti dell’amico medico e umanista pavese Girolamo Cardano, esperto fra l’altro di meccaniche, sarebbero due: avanti il 1538 studio minuzioso e ricostituzione dell’antica «machina», poiché «Ianellus in integru[m] eam restituit»; quindi ulteriori, elaboratissimi progetti per la costruzione del duplicato funzionante con un probabile adattamento alla cosmologia dell’epoca, influenzata dal «De revolutionibvs orbium cœlestium», del polacco Nicolò Copernico, pubblicato nel 1543. Per una gestazione, dunque, lunghissima e complicatissima sotto il profilo teorico come pratico che avrebbe prodotto un capolavoro ineguagliato di scienza e di tecnologia.

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Marco Girolamo Vida, cremonese, vescovo di Alba e Bernardo Sacchi, pavese, sono tra i primi testimoni contemporanei a descrivere, nel 1550 e nel 1565, il portento. Gasparo Bugati, milanese, nel 1571 ricorda ancora il suo stupore per aver visto «in essercitio continuo mille, & cinquecento rote, tutte rotando al movere d’una sola, come il Cielo dal primo mobile, mostrando tutti i pianeti, tutti gli accidenti, ordini, & moti d’esso Cielo, co’l tempo ben misurato d’ogni sua revolutione, & massimamente quella della stella di Saturno, che stà tanto tempo à compire il corso suo»; e nota che «non solamente sono le rote, & le tavole dell’hore di tutte le nationi, & calendario delle feste mobili, dell’epatta [differenza fra anno solare ed anno lunare NdR], delle lettere Dominicali, dell’aureo numero, del bisesto, con l’entrata de’ segni celesti; ma tutto il moto del Cielo di sfera in sfera, co’l moto contrario della trepidatione: ogni cosa condotta ordinata, & mobile per rote d’acciaio, & d’ottone, indorate, o inargentate». Anni dopo ormai in Spagna, il Torresani descriverà l’impresa allo storiografo Ambrosio de Morales: «Tardo, como el me ha dicho en imaginarlo y fabricar con el entendimiento la Idea, veynte años enteros: y de la gran vehemencia y embeuecimiento del considerar, enfermo dos vezes en aquel tiempo, y llego a punto de morir», e tuttavia «no tardo despues mas que tres años y medio en fabricarlo co[n] las manos». Vent’anni, dunque, di studi col rischio di perdere la ragione e la vita, tre per la fabbricazione permettono a Giannello di venire a capo nel 1549 dell’impegno preso con Carlo V fra il 1529 e il 1533.

Giannello si è trasferito nel frattempo a Cremona, verso il 1530, e verso il 1540 a Milano, quartiere di porta Nuova, dove ha allestito bottega di apprendistato oltre che fabbriceria e commercio di orologi. Risulta impiegato pure in campo militare se nel 1544 è in Piemonte, a scavare fossati con inusitate draghe. Nel 1545 è per la prima volta alla corte di Worms, per spiegare a Carlo V il progetto dell’astrario poiché al rientro, nel 1546, Ferrante Gonzaga, appena nominato governatore di Milano, lo incita a costruirlo: «nutu huius nostri Gonzagæ… ut Cæsari horologium admirandi, inusitati, incredibilisque artificij fabricet», scrive Marco Girolamo Vida, che avrà l’onore di battezzare «mikrókosmon» il prodigioso meccanismo. Solo una volta concluso l’impegno avrà tempo e modo di occuparsi di nuove intraprese, e lo prova una sfera armillare, tuttora conservata, con l’iscrizione «IANELLVS * 1549 * MEDIOLANI»: unico oggetto, se si eccettuano gli sportelli del fonte battesimale di Cremona, rimastoci della produzione di Torresani. Mandati di pagamento della Cancelleria di Stato milanese punteggiano tra il 1547 e il 1548 il periodo di fabbricazione dell’astrario, che Torresani finisce nelle linee generali nel 1549 e presenta a Carlo V nell’estate 1550 ad Augusta, rientrando a Milano in autunno per terminarlo, dopo aver ricevuto qualche gratificazione poiché subito affitta una casa, nel quartiere di porta Romana. A corte torna nell’estate 1551 con l’astrario pronto, che deve impressionare non poco l’Imperatore se questi, con patente data da Innsbruck il 7 marzo 1552 gli conferisce titolo di «Mathematicus, & inter Horologioru[m] Architectos facile Princeps» con il pingue vitalizio annuo di 100 scudi d’oro in rate trimestrali, confermato dal Senato a Milano e da Carlo V stesso con proprio decreto del 7 aprile 1552. Denaro che gli permette, il 6 dicembre 1552, acquisto e investitura livellaria (affitto a canone) di una proprietà. Mette mano allora a un’altra celebre opera d’ingegno, il misterioso orologio detto «Cristallino», elaborato negli anni 1552-’53, consegnato all’Imperatore a Bruxelles a inizio 1554. Antonio Tiepolo, oratore straordinario di Venezia a Madrid, lo ammirerà nelle collezioni reali: «è quadrato d’un palmo per ogni verso, sopra di questo ve’ è un altro quadro di minor forma, coperto tutto de finissimi Cristalli di Montagna, per li quali si vedono tutte quelle ruote in motto con maraviglia grandissima de chi le mira: Nella somità di questa machina ve’ è una sfera di metallo, pur coperta del medesimo cristallo, nella quale i zodiaco ha’ il proprio suo motto». Ma è il Bugati a ricordarne un tratto straordinario, ossia «la palla di cristallo di montagna che v’andava in cima in forma del mondo», progetto di Jacopo da Trezzo, «tutto cosmograficamente intagliato, diviso, compartito, & segnato de’ Climi, de’ Paralleli, de’ gradi, de’ mari, dell’Isole, de’ continenti, delle provintie, de’ Regni, co’ monti, con le selve, co’ fiumi, co’ pesci, con gli animali, con gli huomini, con le donne, & con le battaglie navali».

Tornato a Milano per una breve licenza, Giannello è richiamato a fine 1555 a Bruxelles, dove si dirige nel marzo 1556, appena regolati gli affari, fatto testamento e nominato procuratore il genero Orfeo Diana, marito della figlia Barbara Medea. L’8 agosto 1556 lascia poi con l’Imperatore la capitale dei Paesi Bassi, il 15 settembre si imbarca con lui a Flessinga, il 26 sbarca a Laredo; il 6 ottobre parte per Burgos, Valladolid, Barco de Ávila e Jarandilla de la Vera, dove sosta con il sovrano dal 12 novembre al termine dei lavori nel palazzo di San Jeronimo de Yuste, nel quale l’ex Imperatore vivrà dal 3 febbraio 1557 al 21 settembre 1558. Il nostro, secondo tradizioni collazionate alla fine del XVII secolo, avrebbe provveduto a sollevare l’umore del monarca fabbricandogli uccelli che «si vedevano di piu mangiare, e quasi fugire dalle mani»; statue di «Uomini guerrieri al naturale poiche combattevano fra di loro, battevano il Tamburro il timpano suonavano le trombe, ed altre ballavano e facevano alcuni giuochi»; cani abbaianti, «i quali ora scherzavano, ed accarezzavansi, ed ora si mordevano, e battuti su la coda leg[ermen]te con una piccola verga si separavano»; e un orologino incastonato entro un anello, il quale segnava le ore punzecchiandogli leggermente il dito «tante volte quant’erano quelle, che mostravano la Sfera». Alla morte del monarca, Giannello passa al servizio di Filippo II cui non è meno caro e per il quale fabbrica altri marchingegni ed automi, fra i quali una famosa «dama que toca y dança», cioè una bambola che suona e balla: «Hizo una dama de mas de una tercia en alto», annota da testimone Ambrosio de Morales, storiografo regio, «que puesta sobre una mesa dança por toda ella al son de un atambor, que ella misma va tocando, y da sus bueltas, tornando a donde partio». Ma il suo capolavoro è, e rimane, l’«Artificio» di Toledo: una complessa e stupefacente macchina idraulica per sollevare l’acqua del Tago al livello dell’Alcázar, 90 metri più in alto, costruita, previo accordo con la città, nel 1565-’69 tramite 200 carri di legname, 500 quintali di ferramenta, in grado di alzare 1.600 cantari (12.400 litri) d’acqua al giorno; e una seconda, aggiunta nel 1571-’81 per uso esclusivo della città. Meccanismi destinati a funzionare a pieno ritmo sino al 1639, cadendo quindi in disuso: il primo dei due blocchi viene lasciato andare in rovina, e il secondo rimane simbolo della città sino alla demolizione nel 1868.

Le descrizioni coeve sono entusiastiche, la fama del Torriani raggiunge scala europea e si conia per lui il distico «In terris cœlos, In cœlos flumina traxit» «Ha trascinato i cieli sulla terra e i fiumi in cielo» (1584); il trattatista Giovan Paolo Lomazzo rincara «Trasse l’acque del Tago il Torriano / Tanto alto, come il Duomo di Milano» (1587); il Morales dà una descrizione dettagliata, dell’«Artificio» spiegando: «Tiene agora Toledo una cosa de las mas insignes que puede haver en el mundo y es el aqueducto, con que se sube el agua desde el rio hasta el alcaçar. Inventolo y executolo Ianelo Turriano natural de Cremona en Lombardia». Antonio Campi, concittadino di Giannello, attesta che: «è divenuto ricchissimo, & in grandissima stima in tutta quella nobilissima Provincia». Quanto alla stima, nulla da eccepire. Dal profilo economico, invece, l’impresa si rivela un disastro per l’autore: poiché l’«Artificio» mena l’acqua nell’Alcázar e non alla cittadinanza, il comune di Toledo rifiuta di rimborsare l’enorme costo di fabbrica, rimasto a credito del Torresani; ciò si ripete dopo la fabbrica della seconda torre per uso esclusivo urbano, gettando così l’ingegnere in un penoso stato di indigenza. Anche perché non tutti i prìncipi ai quali si è rivolto con raccomandazioni di potenti signori hanno accettato, come papa Pio V nel 1567, di concedergli un brevetto di monopolio di 15 anni di sfruttamento esclusivo dei suoi ritrovati. Gli ultimi anni sono accompagnati da proteste e acciacchi: secondo Esteban de Garibay y Çamalloa – che lo frequenta – non ha imparato a parlare la lingua spagnola, e ora «la falta de los dientes por la vejez le era aún para la suya italiana de grave impedimento»: è ridotto insomma quasi a balbettare. Non abbandona però gli impegni. Rivela il Lomazzo: «Questo gran Mathematico fù quello / Che scoperse l’error de i diece giorni, / Ch’al mille cinquecento ottanta doi / Fur tolti; e fé vederci, come torni / Il bisesto in cento anni e sei à noi». Nel 1579 in tarda età redige in effetti il «Breve discurso a Su Majestad el Rey Católico en torno a la reducción del año y reforma del Calendario», dando un contributo, ritenuto fondamentale, alla riforma da Calendario giuliano a Calendario gregoriano, voluta da Gregorio XIII eliminando appunto 10 giorni fra il 5 e il 15 ottobre 1582.

Giannello Torresani scompare a Toledo il 13 giugno 1585 ancora in strettezze e pertanto, commenta il Garibay, «fue enterrado en la iglesia del Monasterio del Carmen y de ella en una capilla de Nuestra Señora del Soterraño, siendo yo presente, no con el debido acompañamiento que merecía quien fue príncipe muy conocido en todas las cosas en que puso su clarísimo ingenio y manos». La fama postuma comunque è immensa, il suo ritratto «dal vivo» è inviato a Cremona nel 1587 dal gran cancelliere Danese Filiodoni per lasciare testimonianza alla patria di un famoso concittadino, il cui nome compare in testi di carattere religioso come le «Homiliæ Catholicæ», di Juan de Cartagena, definito «inclyto artifice Giannello Turriano Cremonensi» (1609); dizionari come il «Tesoro de la Lengua Castellana», di Sebastián de Covarrubias Horozco, dove è «Ianelo, segundo Archimedes» (1611); opere drammaturgiche del genere «Las firmezas de Ysabela», di Luis de Góngora y Argote, che lo definisce «Iuanelo / Dédalo Cremonés» (1613), e in decine di volumi sulle arti e sulle meccaniche. A inizio anni ‘80 a Madrid (dunque in Spagna, non in Italia) è costituita la «Fundación Juanelo Turriano», per studiarne l’opera e tramandarne la memoria. Dopo decenni di dimenticanza, è «riscoperto» infine anche a Cremona, e onorato quale gloria cittadina nel cinquantenario dell’Istituto Tecnico Industriale Statale, intitolato solo allora a «Janello Torriani» (1981).

Marino Viganò

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inserito su www.storiainrete.com il 20 luglio 2009

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