San Pietroburgo, prospettiva Nevskij. Dopo sessant’anni di ateismo la grande cattedrale, dedicata dallo zar alla Nostra Signora di Kazan, è nuovamente piena. Una folla ordinata si accalca attorno alla tomba di Mikhail Kutuzov, il vincitore di Napoleone. Donne, ragazzi, anziani, tutti con un fiore in mano, salutano il generale. Poi in silenzio si avvicinano alla Santa icona della Madonna e, sotto l’occhio vigile del pope ortodosso, la baciano. Fuori dalla chiesa un ingorgo di super car blocca la strada. Qualche passo più in là, un banchetto vende magliette con l’immagine di Vladimir Putin: il presidente in uniforme, il presidente abbracciato ad un orso, il presidente a torso nudo, il presidente con i veterani. La gente acquista e discute. Uno striscione in cirillico ricorda che i soldi sono destinati ai “fratelli russi dell’Ucraina e della Crimea”.
di Marco Valle da destra.it del 14 ottobre 2015
Lungo la prospekt un fiume di macchine. Su tutte o quasi — allacciata all’antenna, appesa alla maniglie o al volante — un fiocco nero-arancio: i colori di San Giorgio, i colori della vittoria. Patriottismo diffuso, autentico. Inclusivo.
Il recupero della memoria di un popolo passa attraverso la verità storica. Nel Museo della Marina da poco rinnovato, i velieri di Pietro, Caterina e Alessandro anticipano le corazzate di Nicola II e gli incrociatori di Stalin, i sommergibili nucleari di Chruscev e di Breznev, le nuove unità di Putin. Una sala è dedicata alla flotta del Mar Nero, quella dei russi “bianchi” che, nel 1920, preferirono l’internamento a Biserta piuttosto che innalzare la falce e martello.
Navigando verso Mosca attraverso il Ladoga e lungo i canali fatti scavare da Stalin ai prigionieri politici — centinaia di chilometri, diciotto chiuse, migliaia di morti — incontri paesini sperduti: ovunque monumenti e ricordi del secondo conflitto, monasteri e chiese in restauro, bandiere e nastrini. Ancora orgoglio nazionale e segni di un benessere modesto ma reale.
Mosca è una capitale imperiale. Accanto al Cremlino scalcagnati sosia di Lenin e Stalin posano per i turisti in fila davanti al nuovo museo dedicato alla campagna del 1812: le caricature del comunismo e, ancora una volta, Kutuzov e la Madonna di Kazan.
Dopo la lunga notte il cristianesimo russo si è riconciliato con lo Stato e con se stesso. Nel 2007, nella Cattedrale di Cristo Salvatore, la grandiosa chiesa innalzata in stile neobizantino dagli zar, dinamitata dai bolscevichi e ricostruita dal popolo, i rappresentanti del Patriarcato di Mosca e la Chiesa Russa “dei rifugiati” all’estero hanno pregato assieme e ricomposto lo scisma che divideva dal 1920 l’Ortodossia. Poi, dappertutto, i simboli della “grande guerra patriottica” — ereditati dall’URSS e ripuliti da Putin — e i nuovi monumenti dedicati ai caduti zaristi della prima guerra mondiale e della guerra civile, sino all’altro ieri due argomenti tabù. Come avvertiva Aleksandar Puskin “la Russia è una sensazione non un paesaggio”.
Non tutti apprezzano il presidente. I russi sono dei chiacchieroni e la Russia è, finalmente e grazie al Cielo, un paese plurale. Vi è chi rimpiange il passato sovietico (pochi e anziani), chi sogna un Occidente di fantasia, chi si lamenta della corruzione (piaga endemica), chi protesta contro la polizia e gli oligarchi, chi detesta rumorosamente l’inquilino del Cremlino. Unico punto su cui tutti, ma proprio tutti, concordano è l’Ucraina, una ferita aperta e uno stato d’animo, un sentimento che ha radici e motivi profondi. Putin lo sa.
Un libro per capire il nuovo (dis)ordine
La crisi ucraina non è solo un rebus geopolitico, è anche, e soprattutto, una matrioska di rancori e speranze, di solidi affari e formidabili interessi strategici. Cercare comprendere il senso di questa partita durissima e spesso oscura che si gioca alle soglie dell’Eurasia — una grande scacchiera in cui storia, religioni, geografia, denari (tanti denari) e molto (troppo) sangue s’intrecciano e si confondono senza sosta — è cosa difficile. Ardua. A complicare ancor più le cose vi è poi la pessima informazione fornita dai media occidentali — tutt’altro che neutri —, la storica incapacità comunicativa dei russi e il fragore superficiale (si veda la miseria dei commenti sul web) delle opposte tifoserie.
Per tentare di capire, di orientarsi in questo ginepraio vale la pena di leggere con attenzione l’ultimo saggio del professor Eugenio Di Rienzo, uno dei maestri della storiografia italiana e vigoroso pensatore “irregolare”. Dopo aver indagato il Risorgimento e la politica internazionale del Novecento, il direttore della prestigiosa “Nuova Rivista Storica” ha dedicato alla crisi in atto un denso saggio intitolato “Il Conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale”. Con minuzia professorale e raffinatezza stilistica (un binomio raro…), Di Rienzo ha esaminato le diverse fasi della questione, inserendole in un contesto ben più ampio e complesso: la nuova fase del “grande gioco”, la terribile sfida annunciata lo scorso secolo da Halford Mackinder, Nicholas Spykman e Carl Schmitt, tra Mare e Terra, tra le talassocrazie anglo-statunitensi e l’Heartland euroasiatico. Una battaglia spietata e durissima su cui segmenti importanti delle amministrazioni statunitensi — ispirandosi al “falco” Zbigniew Brzezinski, autore di un raffinato progetto geostrategico, sintettizzato nel celebre saggio “The Grand Chessboard” — hanno investito e investono enormi capitali ed energie, ma contestata dal potente e sempre geniale Henry Kissinger e dai redattori di “Foreign Affairs”.
Non a caso lo storico della Sapienza ripercorrere e interpreta le analisi dell’antico segretario di Stato, poi sviluppate nel suo nuovo, fondamentale libro “Ordine mondiale” (Mondadori editore). Per Di Rienzo come per Kissinger, l’America ha ingannato la Russia, facendole, dopo la caduta del muro di Berlino, delle promesse mai mantenute. Approfittando della debolezza di Gorbaciov e poi dell’incapacità di Eltsin, i vari presidenti statunitensi hanno spinto, in un crescendo rossiniano, sempre più ad Est la propria sfera d’influenza, fino a lambire i confini russi. La lunga ritirata russa, iniziata col summit di Malta (2-3 dicembre 1989) e proseguita con l’integrazione nella UE e nella NATO degli ex satelliti e, persino, di pezzi dell’antica URSS come i paesi Baltici e — in prospettiva — di Georgia e Moldavia, si è interrotta drammaticamente con gli eventi che dal novembre 2013 al febbraio 2014 precipitarono la crisi ucraina.
Per il Cremlino la cosidetta “rivoluzione arancione” — un fenomeno ambiguo, appoggiato sfacciatamente dall’ambasciata americana e dagli alleati europei — e la deposizione dell’allora presidente Viktor Yanukovych — filo russo ma democraticamente eletto — , furono la fatidica goccia che fece traboccare l’immancabile vaso. Incalzata, con le spalle al muro, la Russia ha allora reagito, graduando con una certa maestria le risposte militari e diplomatiche, alternando chiusure ad aperture. Putin, come scrive Di Rienzo, è «troppo cinico, troppo disincantato, troppo pervaso dalle relpolitik e sa che nessuno degli attuali rivali della Russia sarebbe disposto a “morire per Kiev” dopo aver accettato di morire invano per Baghdad e Kabul».
Si è aperta così una partita vitale per Mosca; da sempre l’Ucraina — con i suoi 700mila chilometri quadrati d’estensione — è strategica. Per più motivi, tutti importanti. In primis, attraverso le grandi pianure — le “terre nere”, milioni di ettari fertilissimi — passano circa 40mila chilometri di gasdotti e il 30 per cento dei bisogni energetici dell’Europa (il 43% dell’Italia) e dai porti di Odessa e Sebastopoli si movimenta tutto il traffico della Federazione verso il Mediterraneo e i mari caldi. Poi vi è il dato militare: il lunghissimo confine è una sterminata pianura, assolutamente, priva di ostacoli naturali com’è, indifendibile; la Crimea, per di più, ospita da secoli l’unica grande base meridionale della flotta Russa. E ancora, i motivi storici. L’Ucraina è una realtà complessa multiculturale e multiconfessionale che da secoli s’intreccia con la vicenda russa, sin dai tempi della Rus’ di Kiev e della battaglia di Poltava. Certo, Di Rienzo lo ricorda, il rapporto non sempre è stato positivo, anzi. Impossibile per gli ucraini dimenticare l’Holodomor, lo sterminio per fame della popolazione, voluto e programmato da Stalin tra il 1932 e il 1933. Un tragico esperimento d’“ingegneria sociale” costato milioni di vittime innocenti che ravvivò, durante la seconda guerra mondiale, le mai sopite aspirazioni secessioniste dell’Ucraina occidentale.
Da qui l’annessione della Crimea (nel timore che Kiev la concedesse alla NATO) e la sollevazione dell’Ucraina ortodossa e russofona, lo stato di semi guerra e poi la fragile tregua armata. Una strada apparentemente senza uscita, un rebus senza soluzioni.
Unica possibilità, secondo Eugenio Di Rienzo (concordiamo con lui), rimane la Politica, intesa come esercizio di realismo, pensieri lunghi e dinamiche pragmatiche. Non a caso, l’autore riprende più volte gli avvertimenti (tutti disattesi) di Kissinger all’opaca amministrazione Obama e agli oscillanti governi europei. Il vecchio statista, riprendendo l’amato Metternich, avverte che «la politica estera è l’arte di stabilire delle priorità … considerare l’Ucraina come parte del confronto est-ovest, spingendola a far parte della NATO, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente — e in particolare la Russia e l‘Europa — in un sistema di cooperazione internazionale. Una saggia politica statunitense verso l’Ucraina avrebbe dovuto favorire la riconciliazione e non, come ha fatto, il dominio di una fazione sull’altra. Per l’Occidente, infine, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una scelta politica: è solo un alibi che denuncia drammaticamente l’assenza di ogni scelta».
Il conflitto russo-ucraino
Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale
di Eugenio Di Rienzo
Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2015
Ppgg. 104 Euro 10.00