La Chiesa rimase l’unica istituzione vicina al popolo dopo l’occupazione di Istria e Dalmazia da parte dei partigiani di Tito. Negli anni dell’immediato dopo-guerra, i vescovi Santin, Radossi e Camozzo, si adoperarono come poterono per salvare più italiani che poterono. Centinaia di religiosi e laici vennero trucidati. Nessuno pagò per quei crimini.
di Lorenza Formicola da La Nuova Bussola Quotidiana del 10 febbraio 2022
Nella primavera del 1945, il comunista Josip Broz – nome di battaglia “maresciallo Tito” – allo scopo di estendere il controllo si dirige direttamente verso Fiume, Istria e Dalmazia e insedia là i Comitati popolari di liberazione – che assumono il potere politico-amministrativo e i cui membri sono quasi tutti slavi, con l’eccezione di alcuni italiani “di provata fede comunista”. L’Ozna – la polizia politica partigiana jugoslava – ha la missione di “epurare subito” la popolazione autoctona. Tra il ’44 e la fine degli anni Cinquanta, infatti, chi non si sottomette, e non riesce a scappare, viene eliminato nelle foibe. Quei crepacci naturali, imbuti che sprofondano nelle voragini della terra fino a 200 metri: come un grattacielo che finisce a testa in giù e si sviluppa nel buio della terra.
È la Chiesa Cattolica a diventare, in breve, l’unico riferimento naturale in un clima di terrore ed incertezza dettato dal comunismo. Pagherà per questo un prezzo altissimo, e che di rado è stato raccontato. La manifestazione più significativa si ha il 22 giugno 1946, è la festa del Corpus Domini. A Fiume, Tito dichiara lavorativo il giorno e manda i suoi militari a fare pressioni perché venga rispettata l’ordinanza da tutti. Ma la stragrande maggioranza dei fiumani la ignora e la popolazione si riversa nelle vie centrali e intorno alla Cattedrale per seguire e fiancheggiare la processione che il vescovo Camozzo non aveva voluto annullare. Quel Corpus Domini ebbe tutto il sapore di una testimonianza estrema da parte di una comunità demoralizzata, ma che la Chiesa non abbandonò mai.
Mons. Camozzo rifiutò fino alla fine di riconoscere il regime comunista. Si preoccupava di richiedere aiuti alimentari ad organismi internazionali, a sostegno delle popolazioni fiumane e istriane, e si occupò in prima persona dell’esodo di tanti italiani. I comunisti lo odiavano e finirono presto per circondare ogni giorno, le chiese della sua diocesi per impedirne le messe. Mons. Camozzo resistette finché potè, poi fu costretto all’esilio – l’ultimo italiano a ricoprire la carica di vescovo della città. Ricevette la nomina di arcivescovo di Pisa e, nel tempo, continuò a preoccuparsi dei suoi fiumuani: riuscì a salvare la vita di 27, tra sacerdoti e seminaristi, facendoli trasferire da Fiume in Toscana – molti di loro erano finiti nei campi di lavoro.
Mentre miseria e oppressione si abbattono sulla comunità italiana, infatti, sono i sacerdoti ad organizzare l’esodo. Se in 350mila riusciranno a salvarsi, sarà anche grazie a quegli “uomini vestiti di nero” che creeranno, con i modesti mezzi del tempo, una rete capace di collegare le parrocchie di tutta Italia, e persino fuori dai confini nazionali. Anche per questo scattò un’azione politica e militare (ufficialmente non confermata) mirata a impoverire la vita ecclesiale, e a eliminare i consacrati. Redassero una lista di sacerdoti considerati “insetti” da eliminare. Di tantissimi seminaristi non si ebbero mai più notizie. Furono distrutte tante chiese che avevano un enorme valore anche artistico.
A guida delle diocesi riunite di Parenzo e Pola, Pio XII inviò mons. Radossi. Le testimonianze raccontano che ogni giorno si recasse nei pressi delle foibe per pregare e amministrare l’ultimo sacramento a chi era ancora agonizzante. Altre volte aiutava ad individuare i resti di persone trucidate. A ogni partenza della motonave Toscana da Pola, c’era per confortare chi abbandonava la propria terra: saranno 16.800 gli italiani che lasceranno Pola per Venezia. Alla fine la Santa Sede decise di trasferirlo in un luogo più sicuro, e nel ’48 lo fece arcivescovo a Spoleto. Là promosse la pubblicazione de Il Risveglio: periodico con il quale non esitò nel criticare il comunismo, denunciando la “disastrosa lacuna della grande stampa italiana” e la “stupida e ipocrita politica”. Fino agli ultimi giorni si preoccupò di far arrivare anche a Spoleto i profughi di Pola.
Mons. Santin era, invece, vescovo di Trieste e Capodistria. Nel ’45 il suo territorio fu diviso dalla Linea Morgan. Il 6 maggio 1946, denunciò, insieme all’arcivescovo di Gorizia mons. Carlo Margotti, la persecuzione nei confronti della Chiesa. Il 19 giugno del ’47, ben consapevole dei pericoli, Santin decise comunque di recarsi a Capodistria dove si festeggiava il patrono locale: i comunisti di Tito lo aggredirono e picchiarono a sangue sulle scale del Seminario. Eppure non indietreggiò e le sue omelie in cattedrale divennero anche l’occasione per denunciare le violenze perpetrate da Tito per una linea pastorale che respingeva compromessi con il comunismo. Grazie ad un appello lanciato via radio, creò con don Pietro Damiani, cappellano militare a Udine, un canale che permise di salvare oltre mille bambini.
Don Angelo Tarticchio era parroco di Villa di Rovigno (Istria), aveva 36 anni quando, nel settembre del ’43, i comunisti di Tito lo prelevarono a forza dalla canonica. Torturato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato nella cava di bauxite di Lindaro. A lui legarono altri 43 prigionieri, l’un l’altro, con il filo di ferro ai polsi. Dopo due mesi i pompieri di Pola trovarono il corpo di don Tarticchio completamente nudo, con una corona di filo di ferro spinato calcata sulla testa e i genitali tagliati e conficcati in gola.
Don Francesco Bonifacio aveva 34 ani quando ricevette la nomina a cappellano di Villa Gardossi, Istria. Si accorse subito dei pericoli legati all’azione dei miliziani comunisti. Ed era consapevole della gravità del suo andare in giro, da una parrocchia all’altra, per confessare e, per giunta, sempre in talare. Ne parlò con alcuni sacerdoti, “mi stanno spiando”. Al vescovo Santin confidò, “i capi comunisti mi fanno difficoltà e mi minacciano”. Ma non volle essere trasferito. Aveva un grande ascendente spirituale e si mise come ostacolo all’ideologia comunista che voleva imporre l’ateismo ai suoi fedeli. Sulla sua vicenda è calato un silenzio lungo diversi anni e la cui ricostruzione è stata resa possibile grazie alle testimonianze oculari di quanti, solo dopo tanto tempo, poterono raccontare la verità
La sera dell’11 settembre del ’46, don Bonifacio, dopo essersi recato a Grisignana dal suo confessore, sta tornando a casa. Lungo il percorso, viene avvicinato e fermato da due guardie popolari. È costretto a seguire i suoi aguzzini, mentre altri due miliziani allontanano i fedeli che si erano messi a seguirlo per difenderlo. Nel bosco don Francesco viene spogliato dell’odiata veste, insultato, torturato e umiliato, preso a sassate e finito poi con due coltellate. Il suo corpo è gettato nella foiba detta di Martines, che non lo ha più restituito. Il fratello, per averlo cercato, venne arrestato. È beato e martire per volontà di Benedetto XVI che lo ha ritenuto assassinato in odium fidei.
Sono solo alcune delle vicende più eloquenti subite dalla Chiesa Cattolica di Istria, Fiume e Dalmazia, per mano del comunismo slavo. Furono numerosi i sacerdoti, i seminaristi e le suore che, dal ’43 al 48, persero la vita gettati nelle foibe. Tantissimi quelli costretti a lasciare le comunità e a subire la prigionia. Tutti colpevoli di non essere vicini all’ideologia comunista e di essere italiani. Nessuno ha mai fatto una stima accurata. Nella vicina Bosnia è certo, invece, che dopo il ’45, i consacrati cattolici trucidati furono 120. Per quanto riguarda, invece, gli italiani infoibati, il confronto dei dati a disposizione e dei vari studi, porta ad una stima finale che si aggira intorno ai 16.000.
Nessun miliziano comunista ha mai dovuto rispondere dei crimini commessi.