Io non lo so perché le radici buone siano sempre quelle degli altri. Io non lo so perché le proprie tradizioni debbano essere sempre neglette, rifiutate, disprezzate, mentre quelle altrui accolte come originali e moderne. Facciamo il caso del Festivaletteratura di Mantova, che si terrà nella città dei Gonzaga dal 4 all’8 settembre. Il programma, appena reso noto, annuncia festoso che il tema di quest’anno saranno i «semi», ovvero gli elementi vivificanti delle tradizioni, il cuore da cui poi si dipanano i frutti gustosi di ogni civiltà. L’entusiasmo per un tema letterario così apparentemente di destra viene però subito smorzato. I semi di cui si parlerà durante la kermesse saranno quelli di Cuba, dell’Africa, dell’America Latina. Non certo quelli italiani oppure – mio Dio, che bestemmia – quelli delle realtà locali, regionali, i semi di Terronia e Padania. No, per carità, solo i semi degli altri.
di Gianluca Veneziani da L’intraprendente del 23 Agosto, 2013
Al Festival letterario interverranno infatti sul tema autori come i cubani Karla Suarez e Leonardo Padura Fuentes, gli africani Taiye Selasi e Binyavanga Wainainatra o i sudamericani Santiago Gamboa e Andrés Neuman: tutti concentrati a discorrere delle loro origini, dei loro «semi» esotici, delle loro identità figlie di incroci, innesti e meticciato. Invece delle nostre tradizioni, dei nostri «semi» legati alla terra e al passato, al profumo del Mediterraneo o ai sapori della Pianura Padana, nessuno parlerà. Silenzio stampa, censura autoimposta, elusione del tema come se non esistesse. Eppure autori che hanno scritto di identità italiana e di legame con le radici ce ne sarebbero a iosa. Ma – avranno pensato gli organizzatori del Festival – discutere di questi argomenti, paragonando l’uomo a un albero che, quanto più è radicato alla terra, tanto più svetta verso il cielo, deve suonare retrogrado, antiquato, xenofobo, forse fascista, di sicuro non radical-chic, non terzomondista. Poco gradito, insomma, al milieu intellettualoide che gravita attorno a eventi letterari del genere. Gli unici a parlare di «semi» all’italiana – e qui viene la beffa – saranno Marco Mavaldi, Piersandro Pallavicini e Giuseppe Folchi, che tuttavia affronteranno il tema in senso chimico-minerale, nella versione cioè ecologica, naturalistica del termine. In Italia funziona così: possono discettare di radici solo i pollici verdi e i professori di botanica. Gli altri, quelli che nelle radici colgono anche un significato metaforico, meglio metterli al bando.
Mette tristezza questa storia, soprattutto se si considera che la parola «cultura» ha lo stesso etimo di «coltura» e quindi ha un diretto rapporto con l’arare, il mettere semi, il produrre frutti con la pazienza di un agricoltore. Heidegger, nella chiusa di Lettera sull’umanismo, ricordava come il suo pensiero richiedesse la stessa dedizione di un contadino che traccia solchi nei campi. Un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, condusse una vita ritirata pari a quella di un agricoltore. E la stessa arte di scrivere può essere paragonata al lavoro di dissodare la terra, se non a un vero e proprio zappare, come si diceva a scuola elementare dei bambini che calcavano troppo la penna sul foglio.
E poi, scusate. Mantova è la patria dello scrittore-contadino per eccellenza, Publio Virgilio Marone, figlio di un proprietario di terre, che coltivò, con le sue opere, l’arte di amare i campi (le Georgiche) e di condurre i pascoli (le Bucoliche). Non dimenticatelo, organizzatori del Festival. I semi, anche quelli delle nostre terre, sono segni che da duemila anni diventano tracce, parole e producono grande letteratura. Così, invece, la vostra manifestazione apparirà soltanto una kermesse «semi»-riuscita.