Su Disney Channel, a 70 anni dalla scomparsa della Primera Dama d’Argentina, va in onda una serie tv che racconta le vicissitudini macabre di un funerale infinito
di Daniela Amenta da TiscaliCultura del 20 luglio 2022
“La cosa peggiore della morte non era che accadesse. La cosa peggiore della morte era la bianchezza, il vuoto, la solitudine dell’altra parte: il corpo in fuga come un cavallo al galoppo”. Così Tomàs Eloi Martìnez immagina gli ultimi istanti della “primera dama” in “Santa Evita”, best seller del 1996 tradotto in 60 Paesi, uno dei libri più venduti in Argentina, pubblicato in Italia da Sur e che ora su Disney Channel diventa una serie tv. La prima delle sette puntate andrà in onda il 26 luglio. E la data non è casuale perché esattamente 70 anni fa se ne andava Eva Duarte in Perón. Erano le 20.25 di una giornata fredda, piovosa, una follia climatica da estate boreale.
Il romanzo, così come il drama interpretato da Natalia Oreiro, inizia là dove finisce la vita terrena di Evita, morta a soli 33 anni per un tumore all’utero che la dissangua, le divora la carne. 33 anni come Cristo e una vita breve divenuta leggenda. Cresciuta tra stenti e fame nella provincia di Buenos Aires, mai riconosciuta dal padre, un signorotto locale, insultata in paese perché “bastarda”. Una ribelle dalla volontà di acciaio che a 15 anni scappa di casa, fugge nella capitale per coronare il sogno di diventare attrice. In realtà troverà solo particine modeste, lei stessa non è granché: troppo magra, gli occhi incavati, le caviglie grosse, il portamento maldestro, rigida, senza classe. “Negrita” la chiamano, perché ha i capelli neri. Quelli che non le hanno mai perdonato la gloria dicono ora che per sbarcare il lunario si vendesse, qualche amica attrice cerca di sfamarla con gli avanzi del cibo lasciati in teatro.
Lei di certo non molla, prova a reiventarsi come voce narrante di radiodrammi strappacuore, e alla fine riuscirà anche a mantenersi, comprarsi una casa e qualche abito fin troppo vistoso. Si definirà poi una “resentida social”, e quel risentimento di ceto, la porterà a battersi contro ogni disparità, ogni ingiustizia. Incontra il generale Juan Peròn, allora ministro del lavoro, nel 1943 durante la campagna per la ricostruzione di San Juan, città rasa al suolo da un terremoto. Sarà un grande amore e un sodalizio anche politico. Quando Peròn diventa Presidente della Repubblica lei è la sua consigliera, è lo sguardo di “sinistra” nella populista oligarchia latino-americana, è Evita: l’abanderada de los humildes, la combattente per i descamisados, i derelitti della terra. Ora è bionda, ha i capelli tenuti stretti in uno chignon. A questa figura esile e temeraria si devono le conquiste del moderno welfare: gli orfanatrofi e le colonie estive per i bambini più poveri, il voto alle donne, le cure per gli anziani, la costruzione di case popolari e ospedali, l’elargizione di borse di studio per gli studenti modello. Quasi 50 milioni spesi per chi non aveva mai avuto niente, neppure la carità.
Quando si ammala capisce perfettamente che le rimane poco tempo, e lo impiega per promuovere le virtù ondivaghe del marito. Fino alla fine: il suo testamento mormorato nell’orecchio di Peròn è semplice ma chiarissimo: fai che il nostro popolo non mi dimentichi, verifica che mi venga tolto lo smalto dalle unghie. Lui la prende alla lettera: assolda il più grande anatomista dell’epoca: il dottor Pedro Ara. E proprio da qui parte “Santa Evita”, in questo viaggio post mortem della Dama: il medico inizia l’opera di conservazione, imbalsama la donna senza strapparle gli organi. Userà formaldeide, ghiaccio secco, paraffina, cloruro di zinco, soluzioni di timolo. Peròn gli consegnerà 100mila dollari per tenere in vita un fantasma. Evita, vestita di bianco come una bambola esanime, viene esposta in una teca nella sala di marmo nero della Segreteria del lavoro. Attorno solo una gigantesca corona di orchidee. La notizia della morte rimbalza in breve con un comunicato via radio “Ci ha lasciato la signora Evita, capo spirituale della Nazione”. Fu allora che l’Argentina cominciò a piangere.
Per i funerali oltre due milioni di persone si assiepano lungo le strade di Buenos Aires, le cronache riportano che in città non si trova più neppure una margherita di campo, tutti i fiori d’Argentina vengono donati a lei, poggiati sotto il catafalco coperto dalla bandiera azzurra e bianca attraversata dal Sol de Mayo. Per 15 lunghissimi giorni, sotto una pioggia incessante, va in scena un lutto collettivo mentre un intero Paese si sfianca per il dolore e la beatifica. Lo stesso Peròn dirà: “Non immaginavo la amassero così tanto”.
I guai arriveranno dopo, il 16 settembre del 1955, quando il Presidente viene deposto, quando gli aerei militari cominciano a bombardare Buenos Aires facendo strage di civili, quando quel corpo – il corpo della “Madonna degli umili” – diventa simbolo di ribellione, eversione. Persino le foto di Evita, i ritratti, spariscono dalla circolazione. C’è un gruppo di Peroniani che sorveglia le spoglie della Primera dama, che le sposta di qua di là, pare vengano fatte delle copie di cera per depistare i golpisti della Revolución Libertadora che ritengono troppo pericoloso quel cadavere. Uno dei fedelissimi del Presidente, il tenente colonnello Carlos Eugenio Moori Koenig, si prende cura della salma della signora Peròn con una devozione assoluta, nascondendola in furgoni, cantine, soffitte, chiese, palazzi. Finalmente nel 1957 le spoglie mummificate di Evita vengono imbarcate in una nave, destinazione Genova. Sul feretro c’è il nome di Maria Maggi de Magistris che finirà, dopo molte altre rocambolesce avventure, nel loculo 86 del Cimitero Maggiore di Milano. Quando nel 1971 il generale, rifugiato in Spagna, tenta l’ultimo drammatico colpo di coda e il ritorno al potere in Argentina, il corpo viene dissotterrato con l’aiuto dei massoni della P2 e restituito a Peròn. Che lo porterà con sé. Da allora Evita, finalmente in pace, riposa alla Recoleta, Buenos Aires.
Lo strazio per questa macabra odissea post mortem è stato spunto non solo per il romanzo di Tomàs Eloi Martìnez ma anche per Il simulacro di Jorge Luis Borges (contenuto ne «L’artefice», 1960) e per l’opera di Rodolfo Walsh in «Quella donna» (1964) mentre il mondo dello spettacolo ha celebrato la Primera Dama con un musical negli anni Settanta, poi con il film di Alan Parker del 1996 interpretato da Madonna e infine con «Eva Perón: la vera storia», dell’argentino Juan Carlos Desanzo.
Oggi, 70 anni dopo, Evita nel suo Paese è ancora Santa: una santa apocrifa, una donna di potere, una beata del lusso e dei diamanti. Eppure grazie a questa ragazza venuta dal nulla, questa fragile attrice senza arte né parte, questa bellezza risibile e non acclarata, l’Argentina ha conosciuto il rispetto per gli ultimi, le riforme a sostegno dei dimenticati, delle donne. E quel corpo senza grazia è diventato il segno di un riscatto, l’essenza di una rivoluzione che aveva capelli biondi, tinti, ma stretti nello chignon della Storia.