di Aurelio Musi da il «Corriere della Sera» – La nostra storia del 16 aprile 2023
Nel suo ultimo volume, Sotto altra bandiera. Antifascisti italiani al servizio di Churchill (Neri Pozza Editore), Eugenio Di Rienzo narra la storia di uomini che vissero i tempi di ferro del fascismo e della guerra. Uno di loro, Benedetto Croce, pensò, fino al 25 luglio 1943, che non si potessero rivolgere le armi contro la patria neppure quando quella patria si era seduta dalla parte sbagliata del tavolo. Un altro, Gaetano Salvemini, reputò che era possibile anzi doveroso farlo, ma solo a patto di conservare all’Italia che sarebbe uscita dal conflitto, perdente sì ma più libera e più giusta, la piena sovranità e la sua integrità territoriale.
Altri ancora (Aldo Garosci, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Max Salvadori, Leo Valiani) scelsero di militare sotto altra bandiera, che non fosse il tricolore, senza porre nessuna condizione preliminare o rassegnandosi alla fine a veder respinta ogni garanzia per il futuro del nostro Paese. E si arruolarono nelle file dello Special Operations Executive, la punta di lancia dell’intelligence britannica, posta sotto il comando diretto di Winston Churchill, ritenendo che la lotta contro il Moloch del nazifascismo, «guerra santa», e non «guerra di Stati e di popoli», ingaggiata per annientare il «male assoluto» e tutelare i diritti dell’umanità tutta intera, aboliva ogni gretto, ristretto, egoistico sentimento di appartenenza nazionale.
La storia di chi scelse di militare nella cosiddetta «Churchill’s Secret Army» fu fatta di passioni, di slanci generosi, ma anche d’ingenuità di chi nobilmente credeva nella possibilità di creare un mondo migliore, di doppi, tripli giochi, di rivalità intestine, di tradimenti, di deliberati inganni, che i documenti recentemente desegretati degli Archivi Nazionali di Londra ci mostrano in tutta la loro crudezza. Un percorso che alla fine vide i suoi protagonisti nelle vesti di vincitori ma forse anche di vinti. Perché, dopo l’alba radiosa del 25 aprile 1945, tutti gli attori di questa vicenda dovettero riconoscere, con Croce, magari senza ammetterlo se non nel foro riservato della loro coscienza, che quella guerra, in cui si erano impegnati, sacrificando molto della loro esistenza, non era stata «solo la “guerra per la libertà”, ma come tutte le altre, per il dominio, per il vantaggio economico e politico, per l’egoismo di Imperi e di Nazioni, e che la guerra per la libertà si sarebbe dovuta combattere, poi, e con mezzi più vari e più adatti che non erano le armi.
Il lungo dopoguerra italiano fu, comunque, per Valiani, Garosci, Tarchiani, Lussu anche l’occasione per riconsiderare la loro passata militanza antifascista. A volte, pesando sulla bilancia dei ricordi gli inevitabili errori, commessi negli anni dell’esilio, frutto di ingenuità e d’insufficiente considerazione del crudo realismo politico che dominava la scena politica internazionale.
Salvemini fu del tutto convinto, fin dal febbraio del 1945, che la minacciata amputazione di parte della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume, Zara e delle isole della costa dalmata dal corpo della madrepatria e l’incerto destino di Trieste fossero il risultato di un accordo tra Tito e Churchill, stretto con la connivenza di Togliatti. Ma anche il fiumano Valiani condivise quell’opinione nel discorso contrario alla ratifica del Trattato di pace di Parigi, pronunciato dinnanzi all’Assemblea costituente, nel pomeriggio del 25 luglio 1947. In quell’occasione, infatti, affermò, in un teso contraddittorio con il ministro degli Esteri Carlo Sforza, che su questa questione i nostri interessi non coincidevano in nulla con quelli degli inglesi ma anzi divergevano diametralmente dai progetti di Londra pronunciando parole pesanti come pietre: «L’onorevole Sforza ci ha detto che, se noi non ratificheremo il Trattato, saremo una foglia al vento. Ma io le rispondo, onorevole Sforza, che un popolo di 46 milioni di abitanti non è mai una foglia in balia del vento. Mentre i 250 mila triestini, avulsi dallo Stato italiano, abbandonati alla mercé di potenze occupanti, quelli, sì, sono foglie al vento».