La vita di Elisabetta I d’Inghilterra viene insegnata nelle Business Schools. La sua verginità fu il prezzo dell’indipendenza e della ricchezza del Paese.
di Richard Newbury da La Stampa dell’11 ottobre 2009
«Oh Dio, la Regina è una donna!» si udì esclamare tra la folla londinese, mentre la venticinquenne Elisabetta procedeva verso la sua incoronazione, una protestante inglese con la Bibbia stretta al petto, maestosa e al contempo leggera mentre scambiava battute con gli attori dei tableaux vivants e scacciava perentoriamente i monaci cattolici reintrodotti dalla sorellastra cattolica Maria dicendo: «Via quelle candele! Ci vediamo abbastanza!». Una Madonna protestante protettiva ma anche, nel suo corpo politico, un re a tutti gli effetti.
A cavallo, chiusa nell’armatura, in mezzo al suo esercito che nel 1588 aspettava l’invasione della Grande Armata di Filippo II di Spagna «con il contegno e l’andatura di un vero soldato», parlò così: «Mio amato popolo, qualcuno ha cercato di mettermi in guardia dai tradimenti. Ma, vi assicuro, non ho alcun desiderio di vivere nella sfiducia del mio fedele e amorevole popolo. Sono i tiranni a dover avere paura. Io ho sempre riposto la mia maggiore forza e salvaguardia nel cuore leale e nella buona volontà dei miei sudditi. Sono venuta qui non per distrarmi o divertirmi, ma decisa, nel clamore della battaglia, a vivere o morire in mezzo a voi. So di avere il debole corpo di una donna, ma possiedo il cuore e il fegato di un re, anzi di un re d’Inghilterra, e provo un profondo disprezzo a pensare che la Spagna o qualsiasi principe d’Europa possano osare invadere i confini del mio regno, per difendere il quale, e il mio stesso onore, sono pronta a imbracciare io stessa le armi, a essere il vostro generale, giudicando e ricompensando tutto il valore che mostrerete sul campo di battaglia».
Se Elisabetta era riuscita a procrastinare per trent’anni una «inevitabile» guerra con la Spagna o la Francia o entrambe, era stato però grazie alle sue formidabili astuzie femminili. Filippo II di Spagna la voleva sposare pensando che una ragazza con l’Inghilterra come dote da brava moglie avrebbe abbracciato la fede del marito e gli avrebbe consegnato il Paese. Il suo «ranocchio», Francesco di Valois, duca di Anjou, pure lui in competizione per la sua dote, era convinto che Elisabetta lo avrebbe sposato. Ma l’incostanza era la prerogativa femminile di questa superstar che lanciava le scarpe contro i suoi consiglieri minacciandoli di «accorciarli della testa», mentre col Parlamento passava dall’inflessibilità dell’istitutrice ai flirt, alle suppliche per ottenere denaro.
Elisabetta rimase «intatta» affinché lo restasse anche l’Inghilterra. Se avesse sposato un Asburgo o un Valois, non ci sarebbe stata Inghilterra, l’inglese non sarebbe più stato la lingua della corte e il Nord America sarebbe diventato colonia spagnola o francese. Non ci sarebbe stata la circumnavigazione del globo di Drake con il suo profitto del 4.800 per cento, cioè non ci sarebbe stato impero britannico, perché di lì arrivò il capitale iniziale della Compagnia delle Indie. Il Parlamento sarebbe scomparso insieme alla Dieta. La verginità di Elisabetta significava indipendenza per lei e per il suo popolo.
La Regina vergine viene insegnata nelle grandi Business School come modello per le donne che aspirano a diventare manager. Ma quali erano i modelli di Elisabetta Tudor in un’epoca in cui il destino «naturale» del «sesso debole» era «amare, onorare e obbedire» il suo «Signore e Maestro» e generare figli – preferibilmente maschi? Le donne «al vertice» erano considerate contrarie alla Bibbia: lo testimonia nel 1555 «il primo squillo di tromba contro il mostruoso regime delle donne», cioè Caterina de’ Medici in Francia, Maria Stuarda in Scozia e Maria la Sanguinaria in Inghilterra.
I capelli rossi di Elisabetta e il relativo temperamento le arrivavano dal padre, ma dalla madre – decapitata come strega e adultera quando lei aveva tre anni – aveva preso i magnifici occhi neri, la tenacia, la disciplina e il carisma, ma anche la crudeltà, lo spirito vendicativo e la diffidenza verso le espressioni di amore e devozione. Attraverso la sua governante Catherine Parr, poi diventata la sesta moglie di suo padre Enrico VIII, vide che una donna poteva governare come reggente ma che l’amore poteva perderla. Rimasta vedova, Caterina si era infatti risposata con il suo vero amore, Lord Seymour, che però portò subito le sue ardenti attenzioni sulla principessa Elisabetta. Caterina morì di parto, Lord Seymour fu imprigionato e perse la testa. Elisabetta, conservando la sua ma quasi perdendo l’onore, imparò che le future regine non possono «innamorarsi» e ancor meno sposarsi. Glielo aveva già insegnato la sorellastra Maria, mostrandole che una regina può governare come un re, ma se si sposa diventa semplicemente la moglie del re.
Nel 1603, ormai morente, al suo primo ministro, Sir Robert Cecil, che la implorava: «Per far piacere al tuo popolo devi metterti a letto» Elisabetta rispose: «Ometto, ometto che non sei altro, con i principi non si usa la parola “dovere”». Per Cecil, Elisabetta era qualcosa di più di un uomo ma talvolta anche qualcosa meno di una donna.
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Inserito su www.storiainrete.com il 20 gennaio 2013