Accettare passivamente tanti anglicismi e pseudo-anglicismi, spiega l’italianista Antonio Zoppetti, impedisce alla nostra lingua di restare al passo con i tempi
di Valeria Palumbo del 18 settembre 2017
La fantasia non ci manca. Diciamo mister e non coach per dire allenatore di calcio, perché questo era il nomignolo dato all’inglese William Garbutt, primo allenatore professionista del calcio italiano a inizio Novecento. Ma pensiamo di usare un termine inglese. Chiamiamo barwoman la barista, mentre gli inglesi la chiamano barmaid. E poi battezziamo le leggi Jobs Act anziché Riforma del diritto del lavoro e chiamiamo la revisione della spesa pubblica Spending Review, pensando che faccia meno male. «Dietro l’abuso di termini inglesi, usati spesso in modo inappropriato o addirittura fantasioso», spiega l’italianista Antonio Zoppetti, «si nascondono vari motivi: dall’ignoranza alla sudditanza economica e culturale, dal desiderio di rendere oscuri certi provvedimenti all’illusione di rendere più prestigiose alcune qualifiche».
Stiamo paralizzando la lingua
«Ma questo paralizza la nostra lingua», prosegue Zoppetti che ha appena pubblicato con Hoepli Diciamolo in italiano, con prefazione di Annamaria Testa, e che, solo l’anno scorso, si era occupato dell’uso del congiuntivo. «L’abuso di anglicismi, che non ha eguali nelle altre lingue europee», spiega, «fa sì che stiamo rinunciando a creare parole nuove nella nostra lingua. Ovvero non la facciamo più crescere: e le lingue sono vive, hanno bisogno di cambiare e adeguarsi ai tempi. Detto questo usiamo termini inglesi anche quando la parola italiana c’è e, magari, è più sintetica. Ovvero, quello che colpisce del fenomeno è la quantità degli anglicismi e la non ragionevolezza di usarne alcuni, che rendono obsolete molte nostre parole».
Dal latinorum all’itanglese: perché la legge non parla italiano?
Per quanto riguarda la “quantità”, Zoppetti è andata a misurarla. Prima di tutto contando la differenza tra le parole inglesi o di origine inglese inserite nel Devoto Oli del 1990 e in quello del 2017. Secondo il Devoto Oli 2017 versione digitale, nel nuovo Millennio sono stati registrati circa mille neologismi di cui circa la metà sono parole in inglese. Esistono altri strumenti di misurazione. Ngram Viewer, di Google, permette, per esempio, di misurare l’uso delle parole in un archivio di circa cinque milioni di libri. E le sorprese non mancano. Per esempio l’impennata dell’uso di una parola come stalking. «Perché una delle nostre caratteristiche è che abbiamo adottato le parole inglesi in giurisprudenza, da mobbing a stalking, rendendo ancora più oscura la legge». La colpa non è soltanto, com’è accaduto in passato, della “supremazia” culturale anglosassone (come era successo con il francese nel Settecento e nell’Ottocento), o della forza di alcuni eventi storici (perestrojka e glasnost sono entrate nel nostro lessico negli anni Ottanta), ma spesso del potere delle multinazionali che si muovono, in ambito internazionale, solo utilizzando l’inglese. Leasing si è imposta già una trentina d’anni fa.
Manager? Contava di più il dirigente
Il mondo del lavoro si è totalmente anglicizzato (in un Paese in cui l’inglese si continua a parlare malissimo), con risultati spesso esilaranti per quanto riguarda le mansioni e le professioni e in ogni caso non chiari: i nomi dei mestieri suonano roboanti e si abbonda in “manager”, ma il contenuto del lavoro è spesso misero. «Chi pesca più nel torbido», segnala Zoppetti, «sono i politici: usare l’inglese rende oscure molte misure. Come se al politichese si fosse sostituito l’itanglese per illudere al tempo stesso che le cose stessero cambiando, ma per non dover spiegare in che cosa consista l’innovazione. Tra le vecchie Agenzie di collocamento e le nuove Job Agencies le difficoltà per chi cerca lavoro restano le stesse. Gli untori qui sono stati i giornalisti, con la scusa che l’inglese è più sintetico e permette di risparmiare sul verbo nei titoli. Così si ottengono titoli forse a effetto, ma spesso incomprensibili».
State facendo footing? Non state correndo…
Che cosa fare allora? «Chiariamo subito: ognuno parla come vuole, qui nessuno pensa alle ridicole imposizioni del Fascismo per italianizzare i nomi e termini. Ma se pensiamo che il problema esista e che sia un peccato che le parole italiane diventino obsolete o che non abbia alcun senso usare vision anziché visione o mission anziché missione, possiamo tornare a usare le parole che già esistono. O inventarne di nuove: quando dall’America arrivò un ortaggio tondo e rosso, noi non riprendemmo la parola spagnola tomate che a sua volta veniva dall’azteco tomatl e lo chiamammo, con una bellissima metafora, pomodoro. Perché non riprovarci?». Magari, nel frattempo, possiamo davvero imparare bene l’inglese. Ed evitare (ma questo non lo facciamo soltanto noi) di usare termini inglesi a sproposito: footing non sta per jogging. Vuol dire posizione.