Corroso da decenni d’indifferenza politica, avvinghiato dall’edera della burocrazia, come una venerabile ruina il ministero dei Beni culturali «muore un po’ ogni giorno». L’archeologo è mestiere che ha a che fare con le civiltà scomparse, e dunque l’allarme lanciato ieri dal presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Andrea Carandini, è di quelli da tenere in conto: «Dagli anni Ottanta calano i finanziamenti al ministero, gli introiti sono la metà delle necessità. Senza nuove assunzioni tra sette anni gli uffici saranno chiusi. In compenso ci sono un miliardo e 200 milioni di euro non spesi». Attenzione: «Il ministero dei Beni culturali rischia di essere come la milza: un organo del quale qualcuno un giorno potrebbe venirci a dire che se ne può fare anche a meno».
da www.corriere.it
Il manager, invece, è un mestiere che ha a che fare con i conti. E Mario Resca, appena nominato direttore generale per la valorizzazione dei Beni culturali (ma bisogna dargli risorse e sostegno) fa due conti: «Nel 2008 il numero di visitatori dei nostri musei è sceso del 3,8% e il primo semestre di quest’anno è ancor più in calo. Gli stranieri vengono di meno. Gli Uffizi sono precipitati al 23˚posto dei musei più visitati del mondo. Abbiamo 4 mila musei, 2.500 siti archeologici e una sola possibilità per salvarli: valorizzarli per tutelarli. Perché ho timore, anzitutto, per l’attuale tutela. Ma prima della mia nomina sono state raccolte 7 mila firme contro di me». La coppia dei due maggiori responsabili dei Beni culturali, ieri a Milano su invito degli Amici di Brera per celebrare il secolo dalla prima grande legge sulla tutela in Italia (legge Rosadi del giugno 1909, ne hanno parlato anche Aldo Bassetti, Giulio Volpe e Fabrizio Lemme alla Biblioteca nazionale Braidense di Milano), sono pronti a combattere «anche contro i tombaroli»; ma sono partiti con esemplare onestà dal rilievo di un «foro» in rovina: quello dei Beni culturali del Belpaese.
«Viaggio in incognito nei nostri musei – racconta Resca -: i custodi sono avanti negli anni e non valorizzati, non ci sono sistemi tecnologici di tutela, il Colosseo chiude alle 16, il ricavato dei biglietti e delle caffetterie va all’erario e non al museo, non c’è la defiscalizzazione per chi investe, gli allestimenti sono punitivi, non c’è nemmeno il posto per sedersi ». E poi, come nelle cronache locali del Settecento, «a Pompei ci sono ancora forme direi di ‘brigantaggio’: c’è chi vende e rivende l’accompagnamento di gruppi di visitatori». Pompei è uno dei due malati fuori controllo (l’altro è Brera)… Eppure, «si imparerebbe meglio la storia romana con poche gite a Pompei restaurata – scriveva Chateaubriand nel suo Viaggio in Italia – che con la lettura di tutte le opere antiche». Invece «ogni giorno 10 centimetri di Pompei vanno in polvere – aggiunge Carandini -; fra trent’anni sarà scomparsa. Bisognerebbe almeno documentarla. Ma in Italia nessuno si è mai preoccupato di realizzare né musei paesistici né musei di città: non c’è un museo di Milano, Firenze o Roma. Non c’è tutela del paesaggio; alcuni castelli sembrano un Tiziano in un parcheggio. Spero che il codice dei Beni culturali per il paesaggio possa essere varato per dicembre (la presidente del Fai, Giulia Maria Crespi, lo attendeva dal ministro per giugno, ndr), ma il problema è raccordarsi con le Regioni. Anche il problema di Brera entro dicembre va risolto: si deve partire con il risanamento».
«A Brera – gli fa eco Resca – l’allestimento è inadeguato, non è narrativo, emozionale: il ‘Cristo morto’ di Mantegna è messo tra altre opere; bisogna aumentare i visitatori e si può fare dando vita a una fondazione pubblica e privata che gestisca il complesso senza esautorare la sovrintendenza». Del resto la stessa sovrintendente di Brera, Sandrina Bandera, ha scritto una lettera di denuncia e disponibilità su questo: «Bisogna propendere per l’ampliamento della Pinacoteca di Brera, l’attuale allestimento non è convincente specie per la pittura veneta e per il ’900. Erano state promesse delle collezioni private a Brera ma non arriveranno finché la pinacoteca non sarà adeguata negli spazi». Carandini-Resca, comunque, come una coppia di settecenteschi antiquari, stanno scavando nelle cantine per tirar fuori le antichità domestiche e stanno facendosi strada nel labirinto delle burocrazie e delle inefficienze di una pubblica amministrazione forse non ancora scossa dal metodo Brunetta. «È bastata una nuova comunicazione per aumentare le presenze nella settimana dei Beni culturali del 70%; abbiamo portato una sola opera, per giunta poco nota, come il trittico di Beffi alla National Gallery di Washington, per sensibilizzare sul terremoto in Abruzzo, e l’hanno collocata dove negli anni Sessanta fu posta la ‘Gioconda’», racconta Resca.
Le restituzioni delle nostre opere? «Le nostre opere all’estero fanno promozione per il nostro Paese ».«Al Consiglio ci siamo dati uno statuto e siamo riusciti a far reintegrare nel Piano Casa la possibilità per i soprintendenti di porre il vincolo sui beni che si vogliono tutelare», aggiunge Carandini. «Io sono favorevole alla direzione della valorizzazione. Dobbiamo superare il concetto di una tutela borghese e arrivare a una tutela di sistema: l’articolo 9 della Costituzione non incarica lo Stato della tutela, ma la Repubblica, quindi tutti insieme». Si deve combattere in prima persona, in ogni deposito, centro storico, museo, anche se i nostri sovrintendenti sono tra i meno pagati del mondo. L’Italia è, nel mondo globale, il territorio della memoria: da noi le prime leggi di tutela risalgono al Codice di Giustiniano del 554, che alla conservazione dei «pubblici edifici» riservava la terza parte dei pubblici proventi.
Pierluigi Panza
17 giugno 2009
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Inserito su www.storiainrete.com il 17 giugno 2009