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Dai Tudor al Cremlino: i metodi dei despoti son sempre gli stessi

Leggendo la trilogia di Hilary Mantel dedicata all’ascesa e alla caduta di Thomas Cromwell (Fazi editore, 2014-2020), durante il regno di Enrico VIII, sono stato colpito da una ‘illuminazione’. E’ stato verso la fine del secondo volume, dedicato alla preparazione del processo e poi della condanna della seconda moglie del re: Anna Bolena.

         Cromwell aveva avuto un ruolo importante nell’aiutare Enrico a emarginare la prima moglie Caterina, facendo passare la versione della nullità del matrimonio. Lo stesso ruolo l’aveva ricoperto nel portare all’altare la Bolena, favorendo il successo della sua numerosa famiglia e ottenendo cariche sempre più prestigiose.

Thomas Cromwell (1485-1540), primo conte di Essex, primo ministro di Enrico VIII d’Inghilterra dal 1534 al 1540

         Dopo tre anni, nel 1536, non riuscendo la seconda moglie a dare il sospirato erede maschio alla corona, Thomas deve rimettersi al lavoro, montando un processo che dimostri l’infedeltà della regina e il suo tentativo di cospirare per la morte del re (che nel frattempo si è invaghito di una nuova fiamma).  

         E’ una ragnatela fitta e complicata che il Segretario di Stato deve tessere per arrivare a un dibattimento che salvi il buon nome del re e gli permetta di convolare con la mite e riservata Jane Seymour.  Le pagine cruciali sono quelle che la Mantel dedica agli incontri tra Cromwell e i nobili cortigiani che in quegli anni hanno sempre frequentato, più o meno apertamente, le stanze della regina, compreso il fratello George, accusato addirittura di incesto.

          Sono pagine folgoranti nelle quali l’abilità del Segretario si dispiega in tutte le sue sfumature per convincere gli accusati che la confessione rappresenta l’unica via possibile per ottenere una fine meno dolorosa possibile (evitando roghi squartamenti e quant’altro) e soprattutto per non compromettere i propri familiari. Insomma un processo in cui le uniche prove sono le confessioni dei morituri. Confessioni ottenute con le sole pressioni psicologiche, senza gli spargimenti di sangue della Inquisizione. Come afferma Cromwell, di fronte alle obiezioni di un suo collaboratore dubbioso circa la solidità delle accuse: “Quando un uomo ammette una colpa, dobbiamo credergli. Non possiamo darci da fare per provare che ha torto. Altrimenti le corti di giustizia non funzionerebbero”.

         Ed ecco l’illuminazione. Il procedimento è analogo a quello messo in atto nell’Unione Sovietica contro i dirigenti comunisti durante le grandi purghe: stesse pressioni psicologiche, stesse promesse per la salvezza dei familiari; stesso risultato: una piena confessione di colpe mai commesse per processi formalmente impeccabili, destinati a impressionare l’opinione pubblica russa, ma anche occidentale. Un meccanismo infernale che dopo gli accusati di turno travolge anche gli accusatori (i vari capi dell’NKVD o del KGB: Ezov, Jagoda, Beria ecc.) perché il dittatore non ammette la sopravvivenza dei complici (v. “Storia in Rete”, dicembre 2020). Ed è lo stesso meccanismo che, pochi anni dopo l’esecuzione della Bolena, travolgerà anche Cromwell, perché anche i Re non amano avere vicino collaboratori che ricordano loro i delitti di cui si sono resi responsabili

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