Un patrimonio di 180 mila lemmi in continua evoluzione e sempre più utilizzato nel mondo per accedere a settori di eccellenza dell’economia. Ecco perché è un peccato relegarlo al belcanto. O, mortificarlo con anglismi inutili, imposti da un’ottica provinciale.
di Paolo Di Stefano, dal Corriere della Sera del 6 giugno 2016
Dante, Petrarca, Machiavelli, Galileo… C’è una lingua più bella dell’italiano? Domanda complicata e probabilmente inutile: le lingue non sono né belle né brutte. Ma lasciando perdere i confronti, certo è che l’italiano può vantare punte eccelse di stile, di dolcezza, di eleganza, di armonia. Non per nulla Thomas Mann lo definì «idioma celeste», ovvero «la lingua degli angeli». Associare l’italiano alla Bellezza per antonomasia, sia pure con l’aiuto di numerosi stereotipi, è stato un esercizio praticato per secoli: le cosiddette Tre Corone furono per molto tempo un modello linguistico insuperato in Europa. E oggi l’italiano resta per molti una lingua di cultura, di arte, di turismo, di emigrazione, senza dimenticare che gli ultimi tre papi, stranieri, non hanno mai smesso di utilizzare la nostra lingua come lingua ufficiale con cui parlare al mondo cattolico, una sorta di «inglese dei preti». La lingua italiana è una risorsa per il Paese, anche economica, oltre che culturale e identitaria. E come ogni risorsa, per essere conservata, anche la lingua ha bisogno di cure, di attenzione.
Il valore della «funzionalità»
Il presidente onorario dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, filologo e linguista, che da diversi anni è titolare della rubrica Rai Pronto soccorso linguistico, sorride un po’ del topos della bellezza: «Dante, quando ancora l’italiano non era nato, fu il primo a sostenere che i poeti più dolci e sottili erano gli italiani. Lo stereotipo della bellezza è antico, e dall’Ottocento si è rafforzato grazie al teatro e alla lirica». Uno studioso tedesco, accademico della Crusca, Harro Stammerjohann, dopo aver allestito un dizionario dei numerosi italianismi presenti nel francese, nell’inglese e nel tedesco, ha pubblicato, nel 2013, un libro intitolato La lingua degli angeli, elencando i giudizi, spesso lusinghieri, raccolti per secoli all’estero dall’italiano. «Sono giudizi collegati alla cultura, all’arte, al paesaggio, alla musica, ma a volte si tratta di pareri ridicoli, come la considerazione dell’italiano come lingua per le dame», ricorda Sabatini. In realtà la bellezza di una lingua coincide con altri fattori. Quali? «Una bella lingua è una lingua polifunzionale, attrezzata per l’insegnamento, posseduta bene da una buona parte della società». Il fenomeno interessante, fa notare Sabatini, è che la funzionalità e l’efficacia dell’italiano oggi vengono difese con forza dalle fasce medio-basse della popolazione: «Le categorie che sono arrivate da poco a possedere una competenza linguistica non vogliono perderla o vederla surclassata dall’inglese. Tanta gente mi chiede: perché devo sentire parole che non capisco? I parlanti meno colti, dopo aver tanto faticato a impadronirsi dell’italiano, si ribellano, non vogliono tornare a sentirsi esclusi dall’uso della lingua, non sopportano di vederla strapazzata dal discorso pubblico o dall’invadenza dei forestierismi». Questione delicata: il provincialismo che ci spinge a preferire la terminologia inglese rinunciando alle formule equivalenti italiane.
Gli anglismi inutili
Mario Cannella, direttore dello Zingarelli, confronta il «jobs act» del governo Renzi con la «loi travail» che agita la Francia in queste settimane: «Perché usare un’espressione in inglese se si può dire “riforma o legge del lavoro”? Perché dire “spending review” se abbiamo “revisione della spesa”?». La crescente apertura anglofila è resa evidente da alcuni dati: se gli anglicismi registrati dallo Zingarelli nel decennio 1984-94 erano il 7% del totale dei neologismi, dal 1995 al 2016 sono quasi raddoppiati (13%). Certo, alla crescita ha contribuito l’invasione, inevitabile, della terminologia digitale: «E va anche detto — osserva Cannella — che l’inglese non è una lingua aliena: una grandissima parte del vocabolario inglese è composta di prestiti dal francese o dal latino. Sarebbe ridicolo fare una battaglia aprioristica contro gli anglicismi, ma non bisogna esagerare: visto che per la prima volta nella nostra storia la popolazione, da Bolzano alla Sicilia, usa una lingua standard comunemente vissuta e accettata, sarebbe importante consolidarla, senza lasciarsi andare alla sciatteria o allo snobismo di accogliere tutte le parole straniere». Fatto sta che una lingua, essendo un organismo vivente, si alimenta anche della capacità di rinnovarsi. «Il bicchiere mezzo pieno è che oggi la stragrande maggioranza delle persone nate e vissute in Italia sono in grado di esprimersi in italiano. L’altro elemento nuovo è l’aumento della pratica della scrittura grazie al digitale, ma il dato negativo è l’incapacità di distinguere tra scritto e orale e la difficoltà a usare registri adeguati ai contesti. E non bisogna dimenticare l’indubbio impoverimento della competenza lessicale a tutti i livelli».
In continua evoluzione
I lemmi totali dei vocabolari italiani si aggirano tra i 140 e i 180 mila. Le parole nuove registrate nel 2016 vanno dalle 300 alle 500. Attingere ai dati è diventato molto più semplice grazie alla rete, molto più difficile è selezionare tra le parole caduche e quelle destinate a resistere. La lingua italiana, come le altre, è un vortice in continuo movimento. Sabatini parla di «tempesta delle lingue». Luca Serianni, filologo e linguista principe, autore di importanti grammatiche e curatore del Devoto-Oli, si sofferma sulla scuola e non nasconde alcune preoccupazioni. Ricorda, per cominciare, il cosiddetto Clil, quel provvedimento che prevede l’insegnamento di materie non linguistiche in lingua inglese: «Estenderlo a materie umanistiche, dove la padronanza dell’italiano è fondamentale, rischia di impoverire l’esposizione con risultati negativi anche sul piano della cultura. Una rinuncia dannosa: è quel tipico atteggiamento provinciale per cui si tende a rinunciare all’uso dell’italiano in settori in cui bisognerebbe non solo mantenerlo ma rafforzarlo». Secondo punto sensibile, lo scadimento del discorso pubblico: «Da tempo si assiste all’invasione del parlato che scivola nell’effimero: l’uso degli strumenti elettronici favorisce il gusto della battuta, priva di ogni organizzazione testuale complessa, e il conseguente abbattimento della riflessività e dell’argomentazione». È il «gentese», cioè quel linguaggio medio-basso che dovrebbe piacere alla cosiddetta gente comune. Piuttosto, se provate a chiedere a Serianni un consiglio su dove trovare un italiano di eccellenza o almeno di buon livello, vi verranno segnalati due filoni: «Da una parte certa letteratura della tradizione novecentesca che presenta una lingua all’altezza dei suoi contenuti». Il peso del Novecento Il primo nome che viene pronunciato è quello di Primo Levi: «Una prosa che non ha elementi di invecchiamento né di difficoltà». Poi: Giorgio Bassani e Dino Buzzati. «Non mi rifarei alla letteratura degli ultimi anni, in cui prevale la mescidazione dei codici, con un parlato pieno di turpiloqui e di ammiccamenti fumettistici». L’altro filone apprezzato da Serianni è quello della scrittura degli editoriali giornalistici che riflettono sul mondo di oggi, sulla geopolitica e sull’etica pubblica: «Sono esempi di chiarezza e di capacità argomentativa». Una «palestra di scrittura» a cui Serianni ha dedicato un libro di esercizi per «allenare la nostra capacità di collegare le frasi con i giusti nessi logici».
Il fascino dell’italiano nel mondo
L’italiano nel mondo mantiene il suo fascino: negli Istituti Italiani di Cultura gli iscritti ai corsi linguistici sono circa 68 mila. Il 4% della popolazione tedesca e di quella francese dichiara di parlare la nostra lingua. Non c’è da deprimersi e neanche da esaltarsi. Confidare in una presunta qualità estetica? L’italiano lingua di cultura? «Nell’attività di diffusione dell’italiano all’estero si tende a far prevalere questo aspetto», avverte Michele Gazzola, economista della lingua alla Humboldt-Universität di Berlino, «ma attenzione, c’è un italiano popolare che ha molta diffusione internazionale: Toto Cotugno e i Ricchi e i Poveri a Mosca fanno il tutto esaurito… Giustamente Mogol dice che le sue canzoni raggiungono 60 milioni di cuori, mentre la poesia oggi non supera le cinquemila copie». Dunque? Abbandonare il ricordo della lingua di Dante e puntare altrove? «L’italiano come “terza lingua classica”, la lingua della lirica e della tradizione letteraria, è un’idea museale — conclude Gazzola — : si rischia di farlo passare per un idioma privo di utilità pratica. È invece una lingua viva e funzionale, anche se limitata nella diffusione, una lingua che favorisce l’accesso ad alcuni settori di eccellenza della vita economica e culturale. Si tratta non di offrire corsi universitari in inglese per attrarre gli stranieri: quelli ci sono ovunque. Per far salire le quotazioni internazionali, bisogna piuttosto disporre di un ottimo livello di studi, anche in italiano, e non perché l’italiano suona bene, ma perché è una lingua attiva, indispensabile a certi rapporti commerciali, specie se legata a un tessuto produttivo vivace e attraente». Lingua e società più che lingua e bellezza.