Così lo Scià di Persia ha suggellato il suo destino

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“King of Kings” di Scott Anderson recensito da John Simpson su “The Guardian” del 28 luglio 2025. L’ultimo Scià dell’Iran era una figura da tragedia shakespeariana, scrive Simpson: esteriormente altero e magnifico, interiormente insicuro e indeciso, un Riccardo II persiano, egocentrico anche nella sua stessa caduta. Quando nel gennaio 1979 scese dalla scaletta dell’aereo che lo avrebbe portato via dall’Iran per l’ultima volta, con le lacrime che gli rigavano il viso e il cancro che lo stava uccidendo, anche il cuore più duro avrebbe provato compassione per questo autocrate caduto in disgrazia.

Eppure secondo Simpson non è andata così. Secondo il recensore del “Guardian”, il “cuore di pietra dell’ayatollah Ruhollah Khomeini conteneva solo rabbia e desiderio di vendetta” nei confronti del Re dei Re. “Quest’uomo non ha posto in Iran, né sulla Terra”, mi disse Khomeini in una agghiacciante intervista televisiva prima di lasciare Parigi per Teheran. Sull’aereo che lo riportava dall’esilio di 15 anni pochi giorni dopo per rovesciare il regime dello scià, Khomeini mormorò che non provava nulla – hichi – al ritorno a casa.

La realtà, scrive Simpson, è che molte poche persone, perfino nella sua più ristretta cerchia, amavano davvero lo Scià. Deludeva i suoi amici, era indeciso, seguiva abitualmente il consiglio dell’ultima persona con cui aveva parlato. “Era un uomo difficile da apprezzare”, ha detto sir Anthony Parsons, ambasciatore britannico durante gli ultimi giorni dello scià, che era più vicino a lui di qualsiasi altro diplomatico straniero. “Era così sospettoso, così sicuro che tutti cercassimo di rovinarlo. Eppure c’era in lui una vulnerabilità così evidente che ti faceva provare sincera compassione per lui”.

“King of Kings” è un resoconto valido e interessante della sua rovina – continua Simpson – anche il sottotitolo – “The Unmaking of the Modern Middle East” (La distruzione del Medio Oriente moderno) – promette più di quanto offra. Dimostra ampiamente come lo scià sia stato l’artefice della propria caduta, interferendo costantemente in questioni dalle quali avrebbe dovuto tenersi lontano. Naturalmente c’erano cause più ampie della rivoluzione islamica, principalmente l’ondata di corruzione che travolse l’Iran quando il prezzo del petrolio quadruplicò dopo il 1973; anche se lo scià era in parte responsabile anche di questo, avendo esortato l’OPEC a spremere sempre più denaro dall’Occidente già in difficoltà. Ma la causa immediata della rivoluzione fu una sua singola idea folle, all’inizio del 1978, esattamente un anno prima che fosse detronizzato.

Fu allora che lo scià intrattenne Jimmy Carter e sua moglie Rosalynn al Palazzo Niavaran di Teheran. Lì celebrarono il fatto evidente che, per la prima volta da anni, non c’era alcuna minaccia grave per nessuna delle due nazioni. La pace e la stabilità sembravano consolidate. Come osserva Anderson, quella fu l’ultima volta che un presidente americano mise piede sul suolo iraniano. Poco dopo la partenza dei Carter, lo Scià chiamò un ministro anziano e gli disse di organizzare un articolo di giornale pieno di insinuazioni che accusasse l’ayatollah Khomeini, in esilio, di essere un agente britannico. Il ministro, uomo intelligente e razionale, si lamentò che la pubblicazione dell’articolo avrebbe causato problemi. Ma lo Scià rifiutò di ascoltarlo.

L’articolo scatenò effettivamente dei disordini. I seguaci di Khomeini nelle scuole religiose di Qom e in altri centri scesero in strada per protestare violentemente, e l’esercito e la polizia ne uccisero alcuni. Nell’Islam sciita e secondo la tradizione persiana, ogni sepoltura è seguita, 40 giorni dopo, da un’altra commemorazione pubblica, e ogni volta la polizia e l’esercito uccisero altri manifestanti.

Anche quando le manifestazioni erano ormai un evento regolare e sempre più frequente, l’ayatollah Khomeini, leader assente delle manifestazioni, era da tempo praticamente prigioniero nel centro religioso sciita di Najaf, nel vicino Iraq, allora governato da Saddam Hussein. Era impossibile per gli estranei arrivare a Najaf e parlare con Khomeini, ma senza una buona ragione lo Scià esercitò un’enorme pressione su Hussein affinché lo allontanasse. Hussein (che non aveva tempo per lo Scià e capiva come sarebbe andata a finire) espulse Khomeini. I consiglieri più esperti di Khomeini lo convinsero a rifugiarsi vicino a Parigi, nel villaggio di Neauphle-le-Château, dove, come dice Anderson, “gli abitanti [si abituarono] alla vista del vecchio con il turbante nero e le vesti marroni che faceva passeggiate mattutine lungo le stradine di campagna circostanti”. Improvvisamente, la stampa mondiale poteva fargli visita e intervistarlo ogni volta che voleva, e ogni parola veniva trasmessa in Iran. Nel novembre 1978 la caduta dello Scià era diventata inevitabile.

Il libro di Anderson soffre, come molti altri resoconti di scrittori americani, di concentrarsi sul rapporto tra Iran e Stati Uniti, escludendo praticamente ogni altro aspetto. Tuttavia, secondo Simpson, Anderson ha intervistato alcune delle persone chiave, tra cui la figura genuinamente tragica della shahbanu, la regina, Farah Pahlavi, che capiva cosa stava succedendo in Iran ma non riuscì a influenzare sufficientemente il marito.

Dal Medio Oriente alla guerra in Ucraina, il mondo sta ancora subendo le ripercussioni della caduta dello Scià, e non è ancora finita. E tutto questo, si è tentati di dire, perché questo Riccardo II dei giorni nostri non ha potuto fare a meno di immischiarsi in cose che sarebbe stato meglio lasciare stare. È stata una tragedia, e non solo per lui.

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