HomeStoria militareLa Corazzata Roma: vita e morte di un gigante d'acciaio

La Corazzata Roma: vita e morte di un gigante d’acciaio

Edito dalla Cooperativa Eureka e realizzato con il contributo di Roma Capitale nel quadro del progetto “Una città di eroiche memorie” è appena uscito il  pregevole volume di Domenico Carro e Gennaro Barretta “Corazzata Roma: eccellenza e abnegazione per la patria”.

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di Lorenzo Paolini – www.lorenzopaolini.it

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Era una vera e propria fortezza d’acciaio, il cui alto torrione,circondato da una selva di cannoni e mitragliere di ogni calibro,  “… La vedevo dal mascone sinistro ed era uno spettacolo che toglieva il fiato, Certo, conoscevo già le caratteristiche principali della classe Littorio  e ne avevo già viste molte foto, ma la realtà andava ben oltre quanto si potesse immaginare.  Non riuscivo a decidere se prevalesse la sicura eleganza della sua linea, la sua mole eccezionale o il suo aspetto possente e temibile, impiantato su di uno scafo tanto veloce quanto resistente ad ogni arma usata dal nemico. E poi, illuminato dai primi raggi del sole rifulgeva quello stemma, sul cui sfondo rosso porpora si stagliavano le lettere dorate dell’augusto acronimo SPQR a ricordare l’ideale legame della nave con la Città Eterna.

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Ecco qui un singolare privilegio:  solo la nave da battaglia Roma, la più grande e potente unità da guerra italiana di tutti i tempi, ostentava quel plurimillenario emblema sulla parte più prominente della prora, in sostituzione del tradizionale stellone portato da tutte le navi della nostra flotta.”   Queste le parole dell’immaginario guardiamarina che nel libro ci narra gli ultimi  mesi di vita della magnifica nave, vanto della nostra marina, affondata dalle bombe tedesche poche ore dopo che era stato reso noto l’armistizio firmato a Cassibile con gli Alleati.  La tragedia si consuma nelle stesse ore in cui su tutti i fronti le truppe tedesche disarmano i reparti italiani, che malgrado i tanti episodi di eroismo – da Cefalonia a Porta San Paolo, da Barletta al Trentino – sono disorganizzati,  avviliti, sbandati: sono centinaia di migliaia i soldati abbandonati a sé stessi nell’ora forse più tragica dall’inizio della guerra.   Le forze presenti sulla penisola e in Sardegna ammontano a un totale di oltre un milione di uomini (10 divisioni nell’italia settentrionale, 7 al centro e 4 al sud della penisola e altre 4 in Sardegna), contro circa 400.000 soldati delle unità tedesche; ma mentre queste ultime sono perfettamente efficienti e fortemente dotate di mezzi corazzati, l’esercito italiano è uno strumento bellico estremamente debole, con una buona metà delle divisioni del tutto inefficienti, scarsamente dotate di mezzi corazzati e male armate.

Un discorso a parte meritano l’Aeronautica e la Marina. Dei circa 1000 aerei teoricamente disponibili solo la metà è utilizzabile: dopo l’8 settembre, 246 velivoli riescono a decollare per raggiungere territori non direttamente controllati dai tedeschi. Ne giungono a destinazione 203. La più efficiente delle  tre armi è sicuramente la Marina, che schiera 5 corazzate, 8 incrociatori, 7 incrociatori ausiliari, 23 sommergibili, una settantina di MAS e 37 fra cacciatorpediniere e torpediniere. L’8 settembre a La Spezia e a Genova, al comando dell’ammiraglio Bergamini, si trovano le corazzate Roma, Vittorio Veneto  e Italia (ex Littorio); gli incrociatori Eugenio di Savoia, Duca degli Abruzzi, Montecuccoli, Duca d’Aosta, Garibaldi, Regolo oltre a due squadriglie di cacciatorpediniere. Nel porto di Taranto sono alla fonda le corazzate Doria  e Duilio e gli incrociatori Cadorna, Pompeo Magno, Scipione, al comando ell’ammiraglio Da Zara.   Unità minori si trovano in Corsica, in Albania e in altri porti italiani, mentre 11 sommergibili sono a Bordeaux e a Danzica.

In porti giapponesi, infine, 4 sommergibili, 2 cannoniere e l’incrociatore Ausiliario Calitea.   All’annuncio della firma dell’armistizio a Genova e La Spezia, la prima reazione è quella di affondare le navi, ma dopo un colloquio telefonico tra l’ammiraglio Bergamini, comandante la squadra, e il capo di Stato Maggiore della marina, ammiraglio De Courten,la mattina del 9 settembre la squadra navale prende il mare alla volta della Maddalena. Nelle primissime ore del pomeriggio la squadra è in procinto di entrare nell’estuario del l’isola quando giunge all’ammiraglio Bergamini un messaggio urgente di Supermarina con l’ordine di invertire la rotta e di puntare in direzione di Bona, in Algeria, giacché in mattinata i tedeschi hanno occupato la Maddalena e predisposto un piano per impadronirsi delle unità italiane. L’ordine viene eseguito immediatamente; la squadra fa rotta in direzione delle coste africane mentre i tedeschi, svanita la possibilità di catturare le navi da guerra italiane, rendono operativo il piano per il loro  affondamento.   E infatti poco dopo le 15 arriva il primo attacco con una formazione di Junker, seguito alle 16 da un altro gruppo di bombardieri DO-217 che colpisce l’ammiraglia con due bombe-razzo teleguidate: le nuovissime e segretissime  “Fritz-X”.

La corazzata Roma cola a picco in 28 minuti. Dei 1849 uomini dell’equipaggio,  1253 perdono la vita: tra queSti il comandante la squadra ammiraglio  Bergamini e tutto lo stato  maggiore. Il resto della squadra fa rotta in direzione sud e nella mattinata del 10 settembre entra nel porto della Valletta a Malta, dove già hanno trovato rifugio le unità della flotta dislocata a Taranto e dove giungerà il giorno dopo, 11 settembre, la corazzata Giulio Cesare. Per la flotta italiana la Guerra continua al fianco degli Alleati.   Questi i fatti, che il libro di Domenico Carro riesce però a farci vivere con grande emozione e commozione. Ciò che più stupisce è il comprendere che fino alla mattina del 9 settembre tutti gli equipaggi, ammiragli compresi, erano convinti di dover continuare a combattere il nemico Angloamericano a fianco dell’alleato Tedesco. Ciò malgrado l’armistizio fosse stato firmato fin dal 3 settembre!   “Alle 10 del mattino dell’8 settembre il Comando FNB trasmise a tutte le navi l’ordine di accendere le caldaie. Erano infatti pervenuti gli ordini che Supermarina aveva già emanato verso le otto, dopo aver ottenuto l’assenso del Comando Supremo: la flotta doveva essere pronta a muovere alle ore 14, in modo da poter raggiungere le acque del Tirreno meridionale nelle prime ore del giorno 9 ed intervenire nella fase massimamente critica dell’inizio dell’operazione  nemica di sbarco anfibio. A tal fine veniva assegnato alla FNB il consistente concorso aereo accordato dalla Regia Aeronautica e dai reparti di bombardieri tedeschi, il cui personale di collegamento era già imbarcato sulle nostre tre  corazzate. Si partiva! Si andava finalmente “a bollire nel calderone”, secondo la strampalata espressione usata dall’equipaggio. A bordo la gente si mostrava più tranquilla del solito, e certamente più assorta. Quasi tutti vollero scrivere  le ultime righe a casa, assicurando che tutto andava per il meglio.”

Alle 13 rientrava dalla Capitale l’Ammiraglio Bergamini che alle 15,30 convocò una riunione di Stato Maggiore, durante la quale: “accennò innanzi tutto alla sempre più deteriorata situazione nazionale, nella quale la Regia Marina  rimaneva, per sua natura, la sola forza ordinata e coesa. Poi riferì dell’aumentata probabilità che si rendesse necessario reagire ad un colpo di mano  tedesco ed attuare le conseguenti misure del Promemoria n. 1 del Comando Supremo. Qualora si fosse profilato un altissimo rischio di cattura, l’ordine esecutivo sarebbe stato impartito con la frase convenzionale “Raccomando massimo riserbo”. In tal caso, tutte le navi avrebbero dovuto uscire in mare ed autoaffondarsi in alti fondali, oppure anche in porto se impossibilitate ad uscire. Ribadì che in ogni caso, anche in assenza di ordini, nessuna nostra nave doveva cadere in mano straniera: in mancanza di alternative occorreva autoaffondarsi, ed utilizzare  anche le cariche di autodistruzione se vi era il rischio di recupero dello scafo da parte angloamericana.   Riferì infine quanto gli era stato detto nel caso in cui Supermarina non fosse più stato in condizione di emanare l’ordine di autoaffondamento:  “ti regoli tu con il tuo giudizio, con l’idea che tutto è possibile, salvo ciò che in qualsiasi maniera possa menomare l’onore della Bandiera”.   Poi arrivò l’ora fatidica: quelle 19,45 dell’8 settembre 1943. quando l’EIAR rese pubblica la notizia dell’armistizio.   “Eravamo tutti assorti nei nostri pensieri, quando l’insolito silenzio che accompagnava la nostra cena nel Quadrato Ufficiali venne rotto da qualche sparo in lontananza, seguito da altri spari, un crepitio di mitragliere, il montante  vociare dei marinai in coperta e l’irruzione del marò Santino, la nostra ordinanza, che balbettò concitatamente: “la radio … l’armistizio … la  guerra è finita!”. Andammo fuori: il cielo sulla rada era illuminato da razzi da segnalazione multicolori e da proiettili traccianti sparati dalle batterie costiere in segno di festa. Un’analoga gioia collettiva aveva contagiato molti dei nostri marinai in coperta, che scaricavano la tensione ridendo ed abbracciandosi, mentre altri rimanevano stralunati ed attoniti. Tuttavia non fu  difficile raffreddare quell’irrazionale e tragica euforia, raccomandando a quei ragazzi di attendere a vedere le conseguenze della sconfitta.

Parlai con molti marinai, pieni di speranze, ma ragionevoli come sempre: non c’era da temere per la disciplina. Su tutte le navi i Comandanti convocarono l’assemblea dell’equipaggio a poppa per spiegare il senso dell’armistizio.  Sul Roma, il Comandante Del Cima sottolineò con voce bassa e cupa che ogni manifestazione di gioia era decisamente fuori posto: “È morta infatti la nostra Patria, la nostra cara madre”.   Come lui, anche noi tutti avevamo la morte nel cuore. Sembrava un incubo: pareva incredibile che quel traumatico sconvolgimento ci fosse rovinato addosso all’improvviso. Eppure oggi sappiamo che non vi fu nulla di improvviso, poiché i contatti – ovviamente segretissimi – del Governo Badoglio con gli Anglo-Americani  avevano portato alla firma della resa incondizionata fin dal 3 settembre, con il formale impegno di attuare, al momento della proclamazione dell’armistizio militare, una serie di provvedimenti navali non preventivamente vagliati da alcun esponente della Regia Marina (il cosiddetto Promemoria Dick, stilato dagli Inglesi per neutralizzare in poche ore la nostra flotta). La data di proclamazione dell’armistizio era strettamente legata all’imminente sbarco  navale sulla costa tirrenica, proprio perché gli Anglo-Americani avevano la necessità di eludere l’opposizione della flotta italiana. Quella stessa  mattina Badoglio aveva tentato di ritardare l’armistizio, non avendo ancora predisposto alcunché, ma la controparte aveva ovviamente rifiutato. Era stato pertanto convocato al Quirinale il Consiglio della Corona, alle ore 18, per  consentire al Re di valutare il da farsi. Ma ormai il dado era stato tirato, alquanto malamente.

La decisione regia si era pertanto limitata ad una fiacca e rassegnata convalida dell’inesorabile annuncio della resa dell’Italia, diffuso da Radio Algeri alle 18.30. Solo nella successiva riunione convocata dal Comando Supremo, il Ministro della Marina, ammiraglio de Courten,aveva potuto prendere conoscenza delle clausole navali dell’armistizio (le sole veramente importanti ai fini degli Anglo-Americani), che prevedevano l’immediato trasferimento della Flotta nelle località che sarebbero state indicate. Egli aveva reagito duramente: “Avete fatto olocausto della Flotta, che era l’unica forza rimasta salda nel Paese . ..darò ordine che essa si autoaffondi questa sera stessa”, ma era poi tornato a più miti  consigli, avendo ricevuto dal generale Ambrosio l’assicurazione che gli Anglo-Americani avrebbero rispettato l’onore delle nostre navi.   Mentre venivano dibattute queste gravi questioni, Badoglio aveva letto ai microfoni dell’EIAR il proprio storico ed ultimo proclama.”    Ed ecco i drammatici momenti dell’attacco e dell’affondamento:   “… il rumore era assordante, come un rombo cupo accompagnato dal crepitio di esplosioni.  Passai a poppavia della torre 3 da 381 e della torre 4 da 152. Il personale della prima stava uscendo attraverso il portellone del telemetro superiore.  Superata la torre 4, rimasi senza fiato: una gigantesca nube di fumo nero illuminato da vampe giallastre si sprigionava dalle viscere della nave a prora sinistra del torrione e si innalzava come il fungo di un’eruzione vulcanica,  trascinando verso l’alto un’infinità di frammenti strappati alla nave. Era evidentemente avvenuta la deflagrazione (cioè la combustione veloce)  dei depositi munizioni.

Nello stesso momento apprezzai quella tragica conferma di quanto ci avevano insegnato sul pregio del nostro munizionamento:  se avessimo avuto quello inglese, sarebbe esploso e la nave si sarebbe disintegrata.  Era comunque più urgente soccorrere quelli che avevo sotto gli occhi. Chinati presso alcuni corpi che giacevano orrendamente bruciati o mutilati vi erano già due sottufficiali e tre marinai che cercavano di aiutare e rincuorare quei poveretti, pur essendo anch’essi abbastanza malandati.  Non si preoccupavano né per sé stessi né per la nave che gemeva sinistramente mentre si inclinava:  volevano solo riuscire a rimettere in piedi i loro amici. Aiutai a tamponare qualche ferita, poi acchiappai al volo un infermiere che, sebbene anch’egli ustionato, si prodigò subito nelle medicazioni di emergenza. Mentre due di quei feriti riuscivano così a procedere verso poppa con l’aiuto dei compagni, mi accorsi che in quei momenti terribili il prevalente anelito che accomunava  tutti quelli che incontravo era di dare ogni possibile aiuto a chi era stato meno fortunato.  Vidi un marinaio infilarsi in un boccaporto chiamando a squarciagola l’amico ch’egli sperava trovare nel buio dei locali sottocoperta; un sergente togliersi il salvagente ed infilarlo delicatamente ad un collega malamente sfregiato; un nocchiere portare in spalla il proprio nostromo semisvenuto; un altro arrampicarsi in tuga per recuperare dal motoscafo un mucchio di salvagenti  da distribuire a chi non l’aveva indossato, come previsto. Giunse infine da una breve  ispezione all’esterno del torrione, senza avervi trovato segni di vita, il Tenente di Vascello  Agostino Incisa della Rocchetta (il marchese) – direttore del tiro dei cannoni da 90 di sinistra,  quasi irriconoscibile per le bruciature – che mi disse di far andare a poppa tutti quelli  che potevano muoversi, procedendo con calma perché la nave sembrava ancora in grado di galleggiare.  Sparsi la voce, senza creare panico, fra i sottufficiali presenti poi andai a dare una mano ad un manipolo di volonterosi che si affannavano a liberare i Carley sistemati sul cielo delle torri: queste zattere di salvataggio finirono presto in mare, sia pure con qualche ammaccatura. Nel frattempo il Signor Incisa aveva constatato che la nave aveva ripreso ad inclinarsi. Accortosi di essere l’ufficiale di Stato Maggiore più anziano presente, ordinò “Abbandonare la nave!”. In quel momento il Roma era stato raggiunto dagli incrociatori Duca degli Abruzzi e Garibaldi, che defilarono ai due lati della nave morente, rendendole gli onori.

Non c’era più tempo da perdere. Il movimento di rotazione della nave era ripreso, facendo immergere di qualche centimetro il trincarino di dritta del ponte di coperta (cioè il bordo laterale del ponte, laddove questo si raccorda con lo scafo esterno). Questo allarmante segnale fece comprendere a tutti che occorreva sbrigarsi ad abbandonare la nave. Tuttavia i più si trattenevano ancora per aiutare ustionati e feriti ad allacciare il salvagente ed a scivolare delicatamente in mare.   I miei erano già tutti in acqua, come lo erano già tanti altri marinai, sopra i Carley o aggrappati ai cavi esterni di queste zattere di salvataggio, oppure appoggiati ad altri galleggianti di fortuna. A poppa molti esitavano ancora a mettersi in salvo, non volendo far mancare un ulteriore sostegno a chi era stato più duramente colpito dalla deflagrazione.  È quello che feci anch’io, ma fu ben poca cosa se confrontata al comportamento di Toni: quest’ultimo, dopo essersi fatto detergere il sangue che gli colava copiosamente sugli occhi, offuscandogli la vista, non si buttò in acqua – come era stato caldamente incoraggiato a fare – se non dopo aver preso con sé l’amico Michele, reso pressoché cieco dalle estese ustioni riportate.  Mi colpì, poi, l’apparente calma ostentata dal Tenente di Vascello Incisa della Rocchetta che, nonostante le penose bruciature che lo rendevano quasi irriconoscibile, si tolse la giacca, il binocolo e la pistola, e poggiò diligentemente il tutto su di un fungo di ventilazione; si sfilò poi le scarpe e le depositò davanti alla base dello stesso fungo, prima di scendere in acqua.  Ripetei meccanicamente gli stessi gesti, piegando per bene la mia giacca ed allineando le mie scarpe alle altre, con quell’automatica cura dell’ordine a cui pareva impossibile rinunciare, anche se non aveva più alcun senso in quella situazione.   Infine mi tuffai, mi liberai della pistola lasciandola andare a fondo e mi allontanai con vigorose bracciate.

L’acqua era abbastanza calda, il mare era calmo ed il salvagente faceva il suo dovere. Non c’era la necessità di raggiungere qualche altro galleggiante. Evitai pertanto di avvicinarmi a chi fruiva già di un punto di appoggio, per non rischiare di comprometterne la tenuta. Dopo un poco mi accorsi che tutti gli sguardi si erano improvvisamente fissati in direzione della nave. Mi girai anch’io e vidi, con una stretta al cuore, che il movimento di rotazione stava accelerando. Vi era ancora a poppa una trentina di persone, il cui salvagente rosso spiccava in lontananza. Poiché la nave sbandava sempre più, qualcuno rotolò in mare e tentò di allontanarsi  a nuoto, mentre altri riuscirono ad aggrapparsi alla battagliela sul lato sinistro.   Guardai la nostra Bandiera al picco dell’albero poppiero mentre descriveva un arco di cerchio sulla dritta prima di toccare il mare, ove parve fermarsi un attimo, prima di immergersi del tutto.

La nave si stava ormai capovolgendo.  Una decina di quelli che erano rimasti a poppa riuscirono a scavalcare la battagliola ed a sfruttare gli appigli degli oblò degli alloggi Ufficiali per arrampicarsi sulla carena. Tuttavia lo scafo non potè sopportare il nuovo assetto, rovinoso per le parti già gravemente ferite dalle due bombe: non appena la nave si fu completamente  capovolta, con un agghiacciante schianto essa si spezzò in due.   La parte poppiera assunse un’inclinazione di circa 45°, con le eliche ed i timoni in alto, sbalzando in acqua chi stava sulla carena; poi scivolò lentamente in mare e si inabissò. La metà prodiera della nave si erse invece in posizione verticale, fermandosi fuori dall’acqua come per mostrare un’ultima volta, con legittima fierezza, tutta la sua maestà.   Poi, dopo essersi ulteriormente innalzata fino a coprire il sole, scese verticalmente in acqua. Guardavamo tutti ammutoliti quell’estremo addio della nostra nave. Ma quando, per ultimo, scomparve nei flutti anche il purpureo  stemma dell’Urbe che ornava l’estremità della prora, si alzò spontaneo il grido con il quale si usava andare al combattimento: “Viva l’Italia, Viva il Re!”, seguito da un ancor più commosso: “Viva il Roma!”.   Erano le 16.15 quando la corazzata Roma si inabissò, portando con sé l’ammiraglio Bergamini e tutto il suo Stato Maggiore, oltre al Comandante Del Cima e gran parte dei suoi uomini.   Prima di capovolgersi, tuttavia, la nave era sopravvissuta per più di venti minuti all’immane deflagrazione provocata dalla seconda bomba; e questo aveva consentito il tempestivo svolgimento delle operazioni di abbandono  nave da parte di circa un terzo del personale imbarcato.”

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L’allestimento e le caratteristiche   Dopo il varo, a Trieste il 9 giugno 1940 l’allestimento della nuova nave da battaglia era  stato condotto a ritmo serrato e con la sicura e rinomata maestria dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico.  Dopo solo un anno e cinque mesi, il Roma aveva potuto effettuare le sue prime  navigazioni autonome: il 9 novembre 1941 era salpato da Trieste per trasferirsi a Venezia,  dovendovi effettuare dei lavori in bacino, ed era poi tornato al cantiere il 14 dicembre. Per i  trasferimenti il Comando Superiore in mare era stato assunto dal Capitano di Vascello Gaetano  Catalano Gonzaga cheaveva effettuato delle prove di velocità, superando ampiamente i  32 nodi, contro i 30 attesi. Fino allora, fra le navi in servizio nelle maggiori marine militari del  mondo, nessuna corazzata era mai stata così veloce.    Ma la velocità era solo una delle molte caratteristiche avanzate di questa nave. Vi era  innanzi tutto il suo poderoso armamento, che includeva dei cannoni eccellenti, tutti progettati  pochi anni prima dall’Ansaldo e costruiti dalla stessa ditta e dalla O.T.O. (Odero  Terni Orlando). I nove cannoni da 381/50, montati in tre torri trinate corazzate, avevano  una gittata massima di 42,8 km, superiore a quella dei 381 di tutte le altre marine, superiore  anche a quella dei 406 statunitensi (40 km), e perfino a quella dei giganteschi 460  giapponesi della Yamato (42 km); la considerevole potenza dei nostri 381 conferiva ai  proiettili una traiettoria molto tesa ed un superiore potere di penetrazione. I dodici cannoni  da 152/52 erano ripartiti su quattro torri trinate, che risultavano tra le più moderne  e funzionali dell’epoca; grazie alle loro elevate prestazioni ed affidabilità, questi impianti  venivano utilizzati sia per il tiro antinave, sia per il fuoco di sbarramento contro i micidiali  attacchi degli aerosiluranti. I dodici cannoni antiaerei da 90/50, disposti in impianti  singoli ai due lati del torrione, erano quanto di più avveniristico si potesse immaginare in  quegli anni, poiché le loro torri – protette da uno scudo avvolgente ed aventi un peso complessivo di circa 20 tonnellate – erano completamente stabilizzate da  un sistema giroscopico automatico che compensava i movimenti di  rollio e beccheggio della nave: la genialità della loro progettazione era  venuta a capo di un problema tutt’altro che facile da risolvere con le  tecnologie elettromeccaniche dell’epoca, realizzando quest’arma che  si dimostrò potente, precisa e di notevole affidabilità.   Un’analoga stabilizzazione era anche stata fornita alle relative stazioni  di direzione del tiro (SOT). Le centrali di tiro, tutte di tipo elettromeccanico,  avevano raggiunto una complessità e delle prestazioni  di tutto rispetto, essendo anche state oggetto di specifiche migliorie  scaturite dagli studi dell’ammiraglio Bergamini, il futuro Comandante  in Capo delle Forze Navali da battaglia.   Molte altre caratteristiche della nave raggiungevano dei livelli di  assoluta eccellenza.

La corazzatura della nave, realizzata con piastre di  acciaio di elevata qualità, di considerevole spessore e dotate di un’innovativa  inclinazione sulle fiancate dello scafo (le altre marine le lasciavano  verticali), assicurava all’unità un validissimo scudo contro i  proiettili navali nemici.   La protezione contro i siluri era affidata ai geniali Cilindri Pugliese,  che, disposti lungo l’ampia intercapedine esistente tra lo scafo  interno e la murata esterna, consentivano di assorbire le esplosioni  dei siluri e delle mine, limitandone considerevolmente i danni.   Per la radiolocalizzazione delle navi ed aerei nemici era stato  messo a punto il radiotelemetro EC-3/ter, meglio conosciuto con il  nome convenzionale di Gufo, la cui installazione era prevista su tutte  le corazzate e le altre principali navi della flotta; si trattava del radar  italiano, che aveva ormai raggiunto delle prestazioni nominali ottimali  per la tecnologia dell’epoca: circa 16 miglia nautiche (30 km) di  portata per la scoperta navale e 43 miglia (80 km) per quella aerea.    La ricognizione aerea poteva essere effettuata dai tre velivoli imbarcati,  lanciabili dalla catapulta presente a poppa; gli aerei in dotazione  erano di due tipi: l’idrovolantc Ro.43, biplano e biposto, di costruzione  Industrie Meccaniche Aeronautiche Meridionali, era un velivolo  da ricognizione marittima molto maneggevole, che aveva già  svolto un’intensa e proficua attività durante le precedenti operazioni  belliche; il velivolo da caccia Re.2000 “Falco”, monoplano e monoposto,  costruito dalle OMI-Reggiane, poteva essere impiegato sia  come ricognitore che come caccia in funzione antiaerosiluranti.   Le sistemazioni di bordo del Roma erano estremamente curate  anche per il benessere dell’equipaggio: i marinai non dormivano  più nelle vecchie amache, ma su vere e proprie brande, disposte in  locali bene arredati e riscaldati con termosifoni; essi disponevano  inoltre di un’infermeria attrezzata come i migliori ospedali, di una  mensa moderna dotata di una macchina che lavava automaticamente  la gamella, di una lavabiancheria e di una stireria; vi erano inoltre:  bar, gelateria, cinema, sala biliardi, sale di lettura e biblioteche. In  quell’ambiente così accogliente, vitale e complesso come una città,  non mancava assolutamente niente.

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Dai microfoni dell’Eiar, 8 settembre 1943   Ore 19,45   Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità  di continuare l’impari lotta contro la soverchiante  potenza avversaria, nell’intento di  risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla  Nazione ha chiesto un armistizio al generale  Eisenhower, comandante in capo delle forze  alleate anglo-americane.   La richiesta è stata accolta.   Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro  le forze anglo-americane deve cessare da  parte delle forze italiane in ogni luogo.   Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da  qualsiasi altra provenienza.   Maresciallo Badoglio

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La Spezia, sera dell’8 settembre 1943   “Dite tutto questo ai vostri uomini.   Essi sapranno trovare nei loro cuori generosi  la forza di accettare questo immenso  sacrificio. Dite loro che i 39 mesi di guerra  che, insieme, abbiamo combattuto, ora per  ora nell’impari lotta, che le navi affondate  strenuamente, che i morti gloriosi, hanno  conquistato alla Marina il rispetto e l’ammirazione  dell’avversario.   E la flotta, che fino ad un’ora fa era  pronta a muovere contro esso, può ora che  l’interesse della Patria lo esige, andare incontro  al vincitore con la bandiera al vento  e possono i suoi uomini tenere ben alta la  fronte.   Non era questa la via immaginata. Ma  questa via dobbiamo noi prendere senza  esitare, perché ciò che conta nella storia dei  popoli non sono i sogni e le speranze e le  negoziazioni della realtà, ma la coscienza del  dovere compiuto fino in fondo, costi quel  che costi. Sottrarsi a questo dovere sarebbe  facile, ma sarebbe un gesto inglorioso e significherebbe  fermare la nostra vita e tutta  quella dell’intera nazione e chiuderla in un  cerchio senza riscatto, senza rinascita, mai  più.   Verrà il giorno in cui questa forza vivente  della Marina sarà la pietra angolare sulla  quale il popolo italiano potrà riedificare pazientemente  le proprie fortune. Dite tutto  questo ai vostri uomini ed essi vi seguiranno  obbedienti, come sempre vi hanno seguito  nelle ore delle azioni piene di pericoli.   il Comandante in capo delle Forze Navali da  Battaglia   CARLO BERGAMINI

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Il BomBardIere Junkers e la BomBa teleguIdata FrItz-x

La FRITZ pesava 1400 chili e poteva essere teleguidata dal  pilota dall’aereo con impulsi che agivano sui timoni. Il volo  planato poteva anche durare qualche decina di km. Sganciate  a circa 6000 metri di quota percorrevano,in condizioni  favorevoli, anche 100 km. Nella foto a sx: il Maggiore Jope, il  pilota che sganciò la bomba sul Roma.

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