HomeRisorgimento«Contro il Risorgimento è in atto un revisionismo spicciolo»

«Contro il Risorgimento è in atto un revisionismo spicciolo»

Grande popolarità e successo accompagnano da tempo la pubblicazione di libri che denunciano la realizzazione del processo risorgimentale nel Mezzogiorno come un’operazione criminale e autoritaria. Per Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, «si tratta di un “revisionismo spicciolo” che deriva da tentativi politici di ricercare nel passato ciò che nel passato non può esistere, di una mentalità recriminatoria che legge la storia per scoprire il “colpevole” dei mali odierni. Nessuno parla delle insurrezioni contro i Borboni».

di Edoardo Petti da Linkiesta del 8 agosto 2012 Home

Una grande popolarità e un indiscutibile successo accompagnano da tempo la pubblicazione di libri che denunciano la realizzazione del processo risorgimentale nel Mezzogiorno come un’operazione criminale e autoritaria, coloniale e predatoria, compiuta dalle classi dirigenti sabaude e dalle truppe garibaldine per appropriarsi delle ricchezze del Regno borbonico e ridurre in una condizione servile le popolazioni meridionali. Un filone che trova alimento in un sentimento di rivalsa e vittimismo diffusi in strati significativi dell’opinione pubblica del Sud, e ha portato alla rivalutazione, se non all’esaltazione, di fenomeni come il brigantaggio, sempre più assimilati a movimenti di guerriglia locale contro le prevaricazioni e i soprusi degli “invasori nordisti”. Ma le manifestazioni del “revisionismo anti-risorgimentale” poggiano su basi solide dal punto di vista storico e sono suffragate da una rigorosa analisi documentale? E quali conseguenze potrebbe provocare sul piano culturale e civile l’affermazione delle tesi rivendicazioniste? Il nostro quotidiano lo ha chiesto a Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo e acuto studioso della vicenda secolare del fenomeno mafioso nel suo legame con il tessuto economico-sociale della Sicilia. Alle problematiche intrecciate con il percorso di indipendenza nazionale e con le sue pagine più controverse, Lupo ha dedicato il volume dal titolo “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, Rivoluzione, Guerra civile”, che riassume in modo pregnante la complessità del capitolo fondante della nostra esperienza statuale.

È possibile e corretto individuare nell’attuazione del processo di unificazione nazionale nel Mezzogiorno una tendenza violenta e rapace, repressiva e brutale, da parte delle autorità piemontesi e dell’esercito garibaldino?
Prima di tutto è doveroso distinguere le persone che conoscono ciò di cui parlano dagli altri. Nei loro ossessivi e persistenti riferimenti al passato, fasce di opinione pubblica meridionale assemblano critiche e frustrazioni strumentali, che proiettano in un incipit risorgimentale mitico le cause profonde del disagio e delle arretratezze del Sud. Si tratta di un “revisionismo spicciolo” ben diverso da quello degli storici, poiché deriva da tentativi politici di ricercare nel passato ciò che nel passato non può esistere, di una mentalità recriminatoria che legge la storia per scoprire il “colpevole” dei mali odierni. Grazie a spiegazioni superficiali e romanzesche, viene realizzata un’operazione efficace e di sicura presa, soprattutto in fasce sociali poco informate e in un Paese che da vent’anni nutre disprezzo per gli intellettuali e per il metodo scientifico. Con il Risorgimento questo filone non ha nulla a che vedere, perché mescola alla rinfusa fatti accertati con eventi immaginari, opere serie con una pubblicistica tragicomica di largo consumo. Penso a “Terroni” del giornalista Pino Aprile, che non vuole chiarire, così come Giampaolo Pansa per i suoi scritti sulla Resistenza, dove attinge le proprie informazioni. Macchine editoriali che non hanno nulla in comune con il lavoro di storico.

E quali sono gli errori di merito imputabili alla pubblicistica anti-risorgimentale?
I “revisionisti spiccioli” sembrano scandalizzati dalla presenza della violenza nella storia: violenza che ne rappresenta quasi sempre la regola. Il processo di unificazione nazionale fu una guerra, civile e fra Stati, e le sue vittime innocenti devono essere collocate in tale quadro. Scoprire questa violenza è utile solo a impressionare un pubblico scarsamente informato. È giusto restare sconvolti di fronte al massacro di centinaia di civili perpetrato dall’esercito sabaudo il 4 agosto 1861 a Pontelandolfo e Casalduni nel beneventano, per rappresaglia contro l’uccisione di poche decine di militari ad opera di briganti e di contadini del luogo. Ma un’identica reazione è provocata dalle stragi e dagli stupri compiuti dalle truppe borboniche a Messina nel 1848.

L’unificazione nazionale però fu permeata di azioni repressive e di ritorsioni indiscriminate, in aperta contrapposizione con lo spirito che l’aveva ispirata.
Non possiamo prescindere da un dato storico inequivocabile. Al termine del laborioso processo di indipendenza, le popolazioni meridionali riuscirono a entrare per la prima volta in un ordinamento liberale e costituzionale che gradualmente si andò assestando, in cui le tensioni politiche e sociali poterono esprimersi in forma civile e pacifica, grazie al quale fu promosso un autentico sviluppo economico. Prima di allora la società del Mezzogiorno gemeva sotto un regime tirannico, e i primi decenni dell’Ottocento furono contraddistinti dalla spirale di rivolte e repressioni del governo borbonico. Mi chiedo perché non si parli mai di questa violenza. È chiaro che in un processo rivoluzionario e in una cornice di guerra civile fra legittimisti da una parte e liberali, moderati e radicali, dall’altra, vi fu un tasso elevato di violenza nel reprimere il brigantaggio e nel riportare l’ordine. È innanzitutto compito degli storici ragionare con rigore e ricostruire con scrupolo le pagine più oscure di quella stagione, fare luce sui crimini compiuti anche da chi combatteva per il riscatto dell’Italia. Ma parlare di genocidio e di sterminio, fornire cifre fantasiose e abnormi, non corrisponde alla ricerca storica.

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Quale bussola dovrebbe guidare una simile indagine?
L’analisi storiografica deve riconoscere la dimensione aspra e radicale di quel conflitto fratricida fra due governi ed eserciti entrambi meridionali: quello garibaldino, in gran parte costituito da volontari provenienti dal Mezzogiorno, e quello borbonico, che si andò sfaldando esattamente come avviene oggi fra le truppe di Assad in Siria. Non si trattò di una guerra di liberazione contro un occupante straniero come nel 1943-1945. Fu uno scontro feroce e netto fra patrioti italiani e borbonici reazionari affiancati poi dai “briganti”. Bisogna partire dalle ragioni politiche che opponevano i due schieramenti, per restituire una dignità e una prospettiva storica a tutti protagonisti del conflitto. Fu uno scontro dall’esito imprevedibile, poiché nessuna “divinità della storia” aveva stabilito che il Regno delle due Sicilie dovesse crollare, né che l’unificazione dell’Italia fosse inevitabile. Non era scritto neanche che fosse la classe dirigente sabauda a promuovere e dirigere il processo di indipendenza. Ciò accadde perché lo Stato governato dai Borboni, il più importante della penisola, si rivelò incapace di riformare i suoi ordinamenti e deluse le speranze di numerosi patrioti.

Ritiene che l’egemonia esercitata dai gruppi “neo-borbonici” sulla produzione rivendicazionistica concorra a impedire una ricostruzione scientifica del Risorgimento nel Mezzogiorno?
Le posizioni e le manifestazioni neo-borboniche puntano a realizzare una sorta di “leghismo meridionale”. La loro letteratura non è opera di storici, bensì di strati della popolazione che guardano al passato con le lenti del presente. Esattamente come i militanti del Carroccio fanno con il Dio Po e con la simbologia dei Celti. Non è un’iniziativa elitaria né marginale, ma a differenza di quanto avviene al Nord essa non trova una risonanza partitica rozza che tuttavia costituisce un segno di vitalità. Assistiamo alla fioritura di un micro-nazionalismo fondato sulla mistificazione e sulla manipolazione della storia, che va preso sul serio poiché in un periodo di crisi i suoi richiami potrebbero ridurre i fatti a carta straccia e favorire la diffusione delle menzogne a buon mercato. La storiografia sta lavorando seriamente su un terreno così delicato e davanti a una platea di poche migliaia di lettori, nel disinteresse di chi possiede un’infarinatura superficiale del Risorgimento. Un’opera faticosa e meritoria, che purtroppo non viene agevolata dalla visione retorica e oleografica dell’Unità nazionale commemorata lo scorso anno. Fenomeno utile a cementare la memoria e l’identità collettiva, che però finisce per innescare la spirale delle celebrazioni e delle contro-celebrazioni ideologiche.

Non è singolare che la letteratura anti-risorgimentale abbia trovato terreno fertile in una città come Napoli, mai percorsa da pulsioni autonomistiche, e non riscuota adesione nella Sicilia dei tanti fermenti indipendentistici?
Dal 1944 a oggi – pensi alla propaganda promossa da Raffaele Lombardo – la retorica “sicilianista”, che attribuisce ai “nordisti” le colpe della cronica arretratezza dell’isola, è stata scavata fino all’esaurimento. Tuttavia la Sicilia rappresentò nel Mezzogiorno il cuore delle insurrezioni costituzionali e patriottiche contro i Borboni, ben cinque prima dello sbarco dei Mille. Furono movimenti sempre animati dalla saldatura fra le rivendicazioni autonomistiche e le istanze liberali e democratiche di respiro nazionale. Per storia e vocazione, l’isola è estranea a sentimenti di stampo neo-borbonico. E spero che le ragioni della sua autonomia non verranno mai inquinate dalle pulsioni anti-risorgimentali.
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