L’opera più famosa di Umberto Eco – scomparso lo scorso 19 febbraio, all’età di 84 anni – è senz’altro il romanzo storico, pubblicato nel 1980, Il nome della Rosa, successo mondiale tradotto in 47 lingue, dal quale il regista Jean Jacques Annaud, nel 1986, ha tratto un altrettanto fortunato film. Intellettuale, semiologo, erudito, filosofo e medievista: così lo si è ricordato appena dopo la sua morte. Medievista – si può immaginare – proprio perché autore di questo libro: specialmente il Tg3, in apertura di ogni edizione, così lo definiva. Medievista. Se si legge con una qualche attenzione critica il romanzo, però, si ha sempre l’impressione che l’opera sia una perfetta costruzione romanzesca nella quale ideologia e stereotipo si fondano dietro la cortina fumogena di uno straordinario spettacolo di pirotecnica erudizione.
Di Antonello Carvigiani, per Storia in Rete del 25 marzo 2015
La storia si svolge in un Abbazia benedettina del nord Italia nel 1327, Autunno del medioevo – per dirla con Huizinga. Ma la periodizzazione storica – si sa – è sempre una formula vuota e carica di luoghi comuni. Peccato, però, che di luoghi comuni il romanzo trabocchi, così come di schematismi ideologici. Il protagonista-narratore è Adso da Melk, all’epoca dei fatti – che, ormai anziano, racconta in prima persona – novizio al seguito del francescano Guglielmo di Baskerville.
Nel romanzo, Guglielmo indaga su una serie di morti misteriose che avvengono nell’Abbazia. E’ l’incarnazione della ragione illuministica, calvinistica-anglicana ante litteram (il rimando a Sir Arthur Conan Doyle non è solo un gioco erudito ma ha un preciso significato ideologico), che si contrappone alla degenerazione intellettuale e morale della cultura cattolica. Guglielmo è un francescano ma, in realtà, nella narrazione appare completamente alieno dal suo stesso ordine.
Tutti gli altri religiosi vengono, infatti, bollati con marchi denigratori. Gli stessi Francescani: il cui personaggio più importante citato nel libro – Ubertino da Casale – viene depotenziato dalla sua formidabile carica profetica e imbevuto, invece, di una folle ebrezza che sfocia – sono le ultime parole che pronuncia nella finzione romanzesca – in una condanna senza appello della cultura contenuta nei libri.
Una figura non certo migliore fanno i Domenicani, rappresentati dalla ferocia del terribile inquisitore Bernardo Gui. Così come gli stessi padroni di casa, i Benedettini. Con loro, Eco compie il suo capolavoro ideologico. Coloro che salvarono e tramandarono la cultura classica, sul cui fondamento l’Europa moderna ha potuto costruire la propria civiltà, accompagnandola alla rivoluzione umana e spirituale innestata dal Cristianesimo, ebbene, proprio loro, i Benedettini, vengono fatti passare per nemici della cultura, i censori (l’inaccessibile biblioteca dell’Abbazia ne è figura scoperta), gli oscurantisti (la cecità di Jorge da Burgos è la metafora centrale del libro: la Chiesa che impone il suo stesso ottenebramento al mondo).
Francescani, Domenicani, Benedettini: nel medioevo opprimente di Eco non si salva nessuno (eccetto, naturalmente, gli eretici Dolciniani). Ottusi e spietati. Senza un’ombra di Misericordia, di quell’amore per l’altro che è il cuore del messaggio cristiano. Basti vedere come vengono descritti questi religiosi: laidi, deformi, sodomiti, golosi. In questo, l’ideologismo anticristiano dell’autore si va a sovrapporre al logoro stereotipo. Ce lo raccontano già le novelle del Trecento (Decameron compreso, esemplare Fra’ Cipolla) nelle quali si traccia polemicamente il profilo del monaco o del frate: gozzovigliatore, lussurioso e imbroglione.
Certo, la critica ci ha spiegato che il romanzo va letto secondo più livelli semantici (la polisemia del testo poetico, ce l’hanno insegnata Jurij Lotman e gli strutturalisti novecenteschi); che l’autore si diverte a costruire una selva di rimandi letterari e di citazioni colte; che c’è sempre molta ironia e che non bisogna mai prendere tutto sul serio. D’altra parte, nuda nomina tenemus: delle cose e degli avvenimenti non ci rimangono che i nomi. Ma nel medioevo del Nome della Rosa – l’opera che ha dato la fama vera ad Eco – i nomi che ci restano sono quelli, appunto, dello stereotipo e dell’anticlericalismo. Nomi facilissimi, tra l’altro, da leggere tra le righe del romanzo. Nell’orazione funebre di Eco, questo non dovrebbe essere dimenticato.