HomeStoria AnticaIl faraone deve morire: congiure di palazzo in antico Egitto

Il faraone deve morire: congiure di palazzo in antico Egitto

I visitatori che arrancano accaldati nel Museo Egizio, quando arrivano nella sala 13 del primo piano, quasi in fondo al percorso (provvisorio, perché è in corso una profonda ristrutturazione), tirano un sospiro: le sfingi e i colossi di pietra dello Statuario sono alle spalle, i sarcofagi e le mummie con la loro potenza suggestiva sono laggiù, nell’altra ala, a evocare torbide fantasie di intrighi e maledizioni millenarie. Qui si può tirare dritto, un’occhiata distratta ai papiri ingialliti-ingrigiti sui muri e nelle teche, e via verso l’uscita. Eppure, è proprio in questa sala che le fantasie diventano realtà storica, remota ma ancora bruciante. I papiri parlano, se li si sta ad ascoltare.

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Maurizio Assalto da “La Stampa” del 27 luglio 2010

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«Tutto ciò che hanno fatto ricada sulle loro teste», proclama terribile una voce che scende dalla parete. Due pezzi di rotolo inquadrati distintamente, per uno sviluppo complessivo di quasi 5 metri di scrittura ieratica: quello che è noto in tutto il mondo come il «Papiro giudiziario di Torino», o anche «Papiro della congiura dell’harem», racconta una cupa storia di tremila e più anni fa, un complotto maturato nel cuore di una delle istituzioni più intimamente legate al potere: vittima designata, il faraone stesso. Siamo nella prima metà del XII secolo a.C., dal marzo del 1186 la corona dell’Alto e del Basso Egitto è saldamente sul capo di Ramesse III, secondo sovrano della XX dinastia, l’ultimo grande faraone del Nuovo Regno. Volonteroso emulo dell’inarrivabile predecessore di cui aveva scelto di portare il nome (Ramesse II, vissuto cent’anni prima), aveva respinto a Ovest la minaccia dei Libici e a Nord-Est quella dei Popoli del Mare, aveva costruito templi e palazzi da Tebe a Karnak, da Heliopolis a Menfi alla Nubia e alla Siria. Ma aveva anche i suoi problemi: una spinosa crisi politica, per il perdurante braccio di ferro con il clero tebano di Amon, una difficile situazione economica che gli creava difficoltà nei pagamenti e che nell’anno 29 di regno portò al celebre sciopero degli operai di Deir el Medina, il più antico di cui ci sia giunta documentazione – anch’essa posseduta dal Museo Egizio, ed esibita in questa stessa sala.

L’insidia maggiore, però, covava nel segreto dell’harem. Quando usiamo questa parola, per comodità di traduzione, l’immaginazione corre inevitabilmente alle mollezze del serraglio ottomano; niente di tutto ciò: qui si trattava di una realtà più complessa, una unità produttiva e immobiliare dove le donne e i bambini vivevano insieme, con uno stuolo di servitori e sotto giurisdizione maschile, coltivando la bellezza e l’educazione. Il ruolo di leadership femminile se lo giocavano la «Madre del re» e la «Grande sposa reale», dopo le quali venivano le spose secondarie e le concubine. E proprio qui nasce la trappola, per Ramesse III. Un po’ se l’era cercata, il faraone, perché non avendo designato ufficialmente una «Grande sposa reale» aveva lasciato aperta una pericolosa ambiguità sulla linea di successione. L’erede da lui indicato era il figlio maggiore Amonhirkhopshef, avuto dalla moglie Ise Ta-Hemdjert. Ma un’altra sposa secondaria, Teye, voleva sul trono il proprio figlio Pentaur. La storia è raccontata nel resoconto del processo, in un burocratico accumulo di reticenze, perifrasi e eufemismi, come se qua e là si volesse nascondere più che rivelare, far capire senza dire apertamente. A parlare (in apparenza) è lo stesso Ramesse III, che inizia spiegando di avere istituito un tribunale-commissione d’inchiesta di dodici alti funzionari e fa mostra di prendere le distanze dalle pene inflitte ai colpevoli.

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Segue un primo elenco di congiurati e delle loro punizioni: «Il grande nemico Pabakkamen, che era maggiordomo. È stato processato per essersi messo in combutta con Teye e le donne dell’harem. Si era messo a far passare all’esterno i loro messaggi per le loro madri e i loro fratelli dicendo “Radunate degli uomini, fomentateli perché si ribellino al loro signore!”. \ Le sue colpe si sono impadronite di lui». Teye (sulla cui sorte il papiro tace) l’anima del complotto, Pabakkamen il braccio operativo. Con loro gli altri congiurati principali, «il grande nemico Mesedsure, che era coppiere», «il grande nemico Panik, che era direttore della camera del re dell’harem», «il grande nemico Pendua, che era scriba». E poi tutti quelli che erano a conoscenza del complotto ma non l’avevano denunciato, una dozzina di alti e altissimi funzionari pubblici e un importante capo militare, il comandante degli arcieri di Kush (la Nubia) che era stato subornato dalla sorella, dama dell’harem. Più sei mogli dei guardiani che avevano fatto causa comune con i congiurati. Per ognuno la stessa formula: «Portato davanti ai grandi magistrati della corte di giustizia. Dichiarato colpevole. Si è disposto che la punizione ricadesse su di lui». La punizione che il faraone per pudore non dice, per questo primo gruppo di colpevoli più colpevoli degli altri, era qualche cosa che andava oltre la morte. Dopo essere stati uccisi, forse per squartamento, dovevano essere stati bruciati e le loro ceneri sparse al vento: il che significava negare agli sventurati anche la vita nell’aldilà, accessibile soltanto se si erano osservati i riti della conservazione del corpo attraverso la mummificazione.

Meno infamante la pena riservata al secondo gruppo di congiurati: «Abbandonati a se stessi nella corte di giustizia, si sono dati la morte da soli». In tutto, sei «grandi nemici», tra i quali un sacerdote e un mago che – come si apprende da altri due documenti collegati a quello di Torino, il Papiro Rollin conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi e il Papiro Lee del British Museum – aveva introdotto nell’harem scritti magici «per provocare confusione e spavento» e statuette di cera «per fiaccare gli arti». Quattro altri congiurati furono ritenuti meritevoli di uno speciale riguardo: quello di uccidersi a casa loro. Tra questi il beneficiario mancato del fallito golpe, Pentaur. Che proprio di recente è ricomparso sulla scena, come in film horror. La scansione ai raggi X e l’esame del Dna su una delle 40 mummie reali rinvenute nel 1881 da Gaston Maspero vicino a Luxor, un giovane stranamente privo di titolatura, ha rivelato che era proprio lui, il principe ribelle: aveva mani e piedi legati e un’espressione di terrore dipinta sul volto. Il complotto doveva scattare durante la celebrazione della Festa della Valle a Medinet Habu, dove il faraone si era fatto costruire un grandioso tempio. Ma, alla fine, si risolse davvero in un nulla di fatto? In parte sì, è sicuro, perché a Ramesse III subentrò nel 1154 a.C. l’erede designato, che assunse a sua volta il nome di Ramesse, come tutti i successori della XX dinastia. Ma il faraone che doveva morire si era veramente salvato? Oppure fu proprio la congiura dell’harem la fine del suo regno e della sua vita?

Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che nel papiro sia lo stesso Ramesse III a raccontare: potrebbe benissimo trattarsi di un artificio retorico, una prosopopea apologetica come quella per cui lo stesso sovrano parla in prima persona in un altro celebre documento, il Papiro Harris, prodotto sotto il suo successore. Né vale osservare che la mummia di Ramesse III è quella di un uomo sui 65 anni che non presenta ferite evidenti: questo non esclude, per esempio, che sia stato soffocato. Oppure avvelenato, come si potrebbe ipotizzare per la presenza tra i congiurati di un esperto di pozioni e incantamenti. E il riferimento alle «cattive azioni» non meglio precisate del mago non potrebbe alludere a un fatto così grave da essere considerato tabù, l’indicibile assassinio del sovrano?

Difficilmente sapremo la verità. Il processo riservò comunque un colpo di scena finale, puntualmente riferito nel Papiro di Torino. Ultimo elenco di congiurati, dalla sorte decisamente privilegiata: quattro «grandi nemici» a cui vennero «soltanto» mozzati naso e orecchie. Tra questi, Pabes e Mai, due nomi che il faraone aveva già citato nell’elenco della commissione inquirente. La loro colpa? Essersi lasciati sedurre da alcune ragazze procurate da uno dei capi del complotto. Un altro giudice che aveva partecipato ai baccanali, Hori, fu invece «rimproverato in termini molto aspri», ma lasciato andare. Come mai? Una sola risposta è possibile: aveva denunciato i suoi colleghi e in cambio aveva ottenuto l’immunità. Giudici corruttibili, pentitismo: una vecchia storia.

Il Museo Egizio di Torino, il più importante al mondo dopo quello del Cairo, è ospitato nel palazzo dell’Accademia delle Scienze, al numero 6 dell’omonima via. Visitato ogni anno da oltre mezzo milione di persone, è attualmente in fase di ampliamento e di totale ristrutturazione, ma resta aperto tutti i giorni, tranne il lunedì, dalle 8,30 alle 19,30. Per informazioni www.museoegizio.it

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Inserito su www.storiainrete.com il 31 luglio 2010

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