Due genitori, 4 nonni. Il singolo nonno contribuisce quindi per un quarto al corredo genico di un individuo. Certamente da un punto di vista familiare e di contesto è ovvio che l’apporto del singolo non sarà frazionato in parti uguali. Vite vissute, aspettative di vita, storie familiari, eccettera renderanno le vite di alcuni nonni più rilevanti di altri.
E poi si sa, viviamo in una società patriarcale in cui i due nonni maschi avranno inciso e si saranno fatti notare di più delle due nonne loro consorti. Al netto di eventuali considerazioni sulle aspettative di vita femminili.
Con un pizzico di ironia è forse proprio questo oppressione patriarcale latente (e fascista, come vedremo) che a Michela Marzano, accademica in Italia e Francia, nonché ex parlamentare (passata dal PD ai socialisti-liberali) ha ispirato l’ultimo volume Stirpe e Vergogna per i tipi di Rizzoli.
La nostra è ironia inopportuna, visto che la storia di Stirpe e Vergogna è proprio quella di “vergogna familiare”. Ma che in una prospettiva di buon senso appare allo stesso modo necessaria. La “vergogna” è quella che il nonno paterno Arturo Marzano si fosse iscritto ai Fasci di Combattimento già nel maggio 1919 e fosse tra i fascisti della Marcia su Roma. Uno tra i 20 – 30.000 che parteciparono materialmente alla marcia, o uno di quei 70.000 che si riversarono su Roma nell’immediato successo dell’impresa, e che in qualche caso otterrano l’agognata (per l’epoca) medaglia e relativo brevetto.
La scoperta di questa “vergogna” familiare conduce l’autrice a riflettere sulla storia della famiglia e sulle implicazioni di quell’omissione. Omissione che si completa di altri elementi (il padre dell’autrice all’anagrafe è registrato anche col nome di Benito… ecco l’oppresione patriarcale e littoria che continua).
E che, leggiamo da “L’Eco di Biella”, è causa di tormento e di sensi di colpa: «Mi sono sempre sentitata tormentata dai sensi di colpa, ho sempre provato vergona e, scoprendo e mettendo in luce questo segreto, ho capito che questa vergogna mi era stata trasmessa. Io sarei stata colpevole se scoprendo il nome Benito non avessi cercato la verità».
La tessera nel 1919, la marcia su Roma, l’aver chiamato il figlio Benito diventano quindi le colpe dei padri che ricadono sui figli e sulle generazioni successive, stile biblico intransigente: «Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.» [Es 20, 5-6]
Dimenticando che se nell’Esodo, nel Levitico e in Isaia l’andazzo è quello, il Vecchio Testamento è meno integralista di quanto si possa pensare. «Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato.» [Dt 24,16] Oppure «Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità.» [Ez 18,20]
Insomma, persino il Dio del Vecchio Testamento, notoriamente considerato un tipo intransigente, su questo aspetto delle colpe dei padri che ricadono sulle generazioni successive è più tollerante di quanto sembri.
Allo stesso modo l’approccio dell’autrice sembrerebbe quasi subire un approccio… patriarcale e fascista: è la colpa del nonno materno a oscurare il resto della famiglia, compresi eventuali riscatti di altri rami della famiglia. È il vecchio squadrista che dalla tomba porta avanti un’opressione patriarcale e fascista sulle generazioni successive. Ed è l’aver aderito al fascismo che diventa l’unica spiegazione e ragione di eventuali limiti del nonno paterno come marito o come padre.
Colpa quasi biblica che traspare anche nella chiusa dell’intervista. Quasi che qualcuno, l’autrice, debba sacrificarsi per le nuove generazioni.
I. Ha accennato al futuro. Nel libro il futuro è l’ultimo anello della famiglia, suo nipote, il piccolo Jacopo, figlio di suo fratello. La verità sul tassello mancante è l’eredità che gli lascia?
M.M. Esattamente. Tutto è partito dal perché non sono diventata mamma. Cosa mi ha bloccata. Cosa non volevo trasmettere. Rielaborare questo passato e facendo chiarezza in eredità a Jacopo, sarà un passato meno pesante il suo e insieme sarà sapere da dove viene. Scegliere senza essere agito inconsapevolmente da quel passato.
È lo stesso approccio dell’ideologia woke e della cancel culture. Basta una singola colpa a infagare e distruggere un passato e una storia. E magari anche le vite che seguiranno. Le divinità del wokeism più intransigenti del Dio biblico. Con un dio Woke Abramo non avrebbe potuto nemmeno intercedere per i pochi giusti presenti a Sodoma… Sarebbe stato fulminato direttamente sul posto.
D’altronde il nonno non era un fascista qualunque, ma non perché avesse aderitò a Salò o fosse stato coinvolto nei crimini di guerra di qualche brigata nera. Sempre nella stessa intervista si legge: «Mio nonno era un fascista della primissima ora. Mi sono sentita dire: “Ma a quei tempi erano un po’ tutti fascisti. E io, rispondo di no: non erano tutti fascisti, c’erano i partigiani, e un conto sono gli anni Trenta e un conto è il 1919».
A cui segue una prima obbiezione è ovvia. Che c’entrano i partigiani con con gli anni Trenta e il 1919? E a essa seguono inevitabili obbiezioni a cascata. Perché in quell’intervallo di vent’anni passano per l’appunto vent’anni. E in quegli anni troveremo italiani che furono graniticamente fascisti dall’inizio alla fine. Chi fu tiepido all’inizio per diventare fascista dopo. Chi fu fascista della primissima ora e che cambio idea chi prima e chi dopo. E i semplici indifferenti. Chi nato in quegli anni fu nei suoi vent’anni intrasigentissimo fascista per poi scoprire il comunismo. O viceversa.
Le storie si intrecciano e il tempo passa.
In quel tempo vivono oltre 40 milioni di italiani. Di quelli inviati al confino, facciamo riferimento al sito dell’ANPI, in vent’anni furono 12.330.
Meno della metà degli italiani che parteciparono materialmente alla marcia su Roma.
Non ha senso confrontare i due numeri. Non può essere un modo per valutare il consenso e l’evoluzione sullo stesso. Ci si consenta di confrontarli solo per un grossolano ordine di grandezza statistico da cui consengue una riflessione amara: «Caro giovane antifascista, sappi che statiscamente c’è il doppio delle possibilità che tra i tuoi avi ci sia un facinoroso squadrista che partecipò alla marcia su Roma armato di manganello, piuttosto che uno di quegli intellettuali che non si piegarono e finirono al confino»
Come ricorda un certo Hayao Miyazaki, non certo ascrivibile a simpatie littorie in un’intervista a supporto del lancio di Si alza il vento, se fosse nato qualche anno prima e fosse vissuto nell’influsso di quegli anni: si sarebbe arruolato volontario kamikaze e se fosse stato riformato a causa della sua scarsa vista, avrebbe disegnato con entusiasmo immagini di propaganda o manga a sostegno della macchina militare giapponese. Insomma, cautela nel giudicare le scelte degli altri dal comodo – e talvolta poco panoramico – punto di vista in cui si resta sprofondati.
Questo significa conoscere e sapersi raffrontare con il passato.
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