Nasce il database del Cnr che raccoglie i siti, spesso di grande valore culturale, ‘sconosciuti’ agli enti locali. Un patrimonio invisibile e quindi non sottoposto a nessuna tutela. Strade antiche e ville romane che oltre a non essere valorizzate rischiano di essere danneggiate dall’urbanizzazione.
di Ermanno Forte da L’Espresso del 1 ottobre 2012
“I beni archeologici presenti sul nostro territorio mediamente sono conosciuti solo per il 10 per cento, anche per questo molti di essi rischiano una sistematica distruzione a causa di lavori agricoli, di urbanizzazione, scavi clandestini e fenomeni naturali”. A dirlo è Marcello Guaitoli, docente di Topografia antica all’Università del Salento, da diversi anni impegnato in un lavoro certosino di ‘mappatura archeologica’ del territorio italiano. Un lavoro che porta avanti insieme ai ricercatori dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Cnr di Roma, e a studiosi di diverse università. Incrociando i dati ottenuti da ricognizioni, monitoraggi aerei e controllo delle fonti bibliografiche, è stato creato il Sistema informativo territoriale (Sit), una sorta di censimento – sottoposto a costante aggiornamento – dei beni archeologici presenti in alcune zone d’Italia (in particolare nel Lazio e in Puglia, ma anche in Abruzzo, in Campania e in Toscana).
Il database del Sit racconta di migliaia di evidenze archeologiche, in alcuni casi di indiscutibile valore storico e culturale (grandi necropoli, tratti di strade antiche, ville romane, per fare degli esempi), assenti nelle bibliografie di riferimento e sconosciute agli enti locali e ai bracci operativi del ministero, le Soprintendenze ai beni culturali. Beni che, poiché ufficialmente non esistevano fino a ieri, in gran parte non sono stati sottoposti a tutela o presi in considerazione dagli enti locali per essere valorizzati. Un patrimonio sconosciuto e perciò ancor più a rischio, indifeso rispetto a fenomeni quali l’espansione delle città, lo sfruttamento agricolo del territorio e la proliferazione di cave e scavi clandestini.
Le ricchezze archeologiche sconosciute e rilevate dal Sit nei territori mappati di Puglia e Lazio, vanno da un minimo del 67 per cento (nel Tarantino), rispetto al totale dei beni, a un massimo del 94 per cento (dato riferito al territorio di Neviano, a Lecce).
I dati riferiti a Taranto, ad esempio, sono emblematici: su un totale di 1190 siti, 859 sono noti grazie alla ricognizione a tappeto, le aree sottoposte a vincolo sono appena 8, quelle archiviate dalla soprintendenza 63 e 331 quelle note dalla bibliografia. “Ovviamente non tutte le evidenze rilevate possono essere tutelate o valorizzate” precisa Guaitoli “si valuta caso per caso”. Se si prende in considerazione un’area più vasta, come quella censita dall’università di Siena – provincia di Grosseto e Val d’Orcia, oltre 5.600 chilometri quadrati – ci si accorge che le proporzioni, impressionanti, sono pressoché le stesse: oggi risultano presenti in archivio oltre 11 mila contesti archeologici, quelli che erano già noti alle amministrazioni sono solo un migliaio, mentre i siti sottoposti a vincolo sono circa 100.
Altro aspetto che emerge dalle verifiche di Cnr e università è il gran numero di siti che risultano sui testi di riferimento, ma che in realtà non esistono più, fagocitati soprattutto da grandi opere e urbanizzazione. Caso limite, in questo senso, è quello di Ruvo (Bari): il 99 per cento dei siti segnalati nelle varie fonti bibliografiche oggi non c’è più, è solo un segno su cartine ingiallite dal tempo. Stessa cosa vale per l’area a nord ovest di Roma. “E’ esemplare il caso della via Prenestina” spiega Guaitoli “dove solo 245 presenze archeologiche sulle 856 segnalate nel 1970 sono scampate alle opere di urbanizzazione”.
Il database gestito dall’Ibam può essere interrogato anche sulla quantità di siti di interesse archeologico danneggiati, nelle aree “censite”, e sulla cause che hanno provocato questi danni. In generale, nel Salento risultano compromesse 2.916 evidenze su 3.931; a nord-ovest di Roma sono quasi 1500. “Ciò che emerge è che la minaccia più grossa per i siti individuati col nostro lavoro viene dai lavori agricoli” precisa Patrizia Tartara, ricercatrice dell’Ibam “questo anche perché la maggior parte delle evidenze sconosciute a enti locali e non citate nelle fonti scritte si trova nelle campagne”. Nel Salento sono addirittura 2.272 le aree danneggiate da attività agricole; nel viterbese, in un’area molto meno ampia, sono più di 1.300.
E molti beni risultano rovinati, in maniera irreversibile o solo in parte, da opere di urbanizzazione: il Sit narra per esempio che nel Salento i beni archeologici compromessi dalle espansioni cittadine sono quasi 600, 80 nel viterbese, 88 nei soli 236 chilometri quadrati censiti nel Tarantino. Ma una ricchezza culturale si può rovinare anche costruendo infrastrutture industriali. Oppure con gli scavi clandestini – fenomeno molto diffuso in Puglia (150 casi a Taranto), ma anche nel Lazio (165) – e l’apertura di cave (66 aree archeologiche compromesse nel Salento, 43 nella fascia centrale del Lazio).
“Censire il patrimonio archeologico è fondamentale per poi conservare i beni ed eventualmente tutelarli e valorizzarli” spiega Guaitoli “ma anche per mettere a disposizione di chi fa i piani urbanistici e progetta le infrastrutture una ‘mappa archeologica’ da tenere ben presente in fase preliminare, per evitare i disastri che sono stati compiuti in passato. Basti pensare all’autostrada del Sole, che ha tagliato in due importanti città antiche come Cales, Aquino e Arpi. Ancora oggi si fanno i progetti e capita che ci si accorga dell’esistenza del bene solo quando cominciano i lavori. E poi, magari, si fa una variante. Così si perde tempo e denaro”.
Il lavoro di Cnr e università deve fare i conti, come da ‘protocollo nazionale’, con la carenza di risorse economiche. “Tra ricercatori dell’Ibam, della Sapienza e dell’Università del Salento siamo una trentina impegnati in questo progetto, e a stento si riesce a ‘mantenere’ questo gruppo” continua Tartara “per completare un lavoro di mappatura su tutte le zone sensibili del Paese ci vorrebbero 300 ricercatori per i prossimi 10 anni”.
In Italia ci sono diversi gruppi di ricerca che in varie zone hanno elaborato dei sistemi informativi simili a quello utilizzato dall’Ibam di Roma, in alcuni casi con il supporto degli uffici della Soprintendenza ai beni culturali. Ma, a tutt’oggi, non esiste un archivio nazionale, centralizzato e completo nel quale siano censiti i beni archeologici del Paese. Negli ultimi anni sono state formate delle commissioni, composte da docenti e funzionari della Soprintendenza, per mettere a punto un sistema del genere. “I lavori dell’ultima commissione paritaria si sono chiusi ed è cominciata la fase di messa a punto del progetto” dice Giuseppe Sassatelli, direttore del dipartimento di Archeologia a Bologna e presidente della commissione. “L’intento è costruire un network informatico che metta in collegamento i diversi soggetti che stanno mappando il territorio nelle varie zone del Paese. Prima dobbiamo perciò individuare gli archivi informatici già in funzione, poi cercare di renderli omogenei e infine collegare tutti i dati, formando un archivio nazionale aggiornabile in tempo reale”.
Un lavoro complesso e molto importante, che per adesso è alimentato solo dai 600 mila euro di finanziamento pubblico messi a disposizione da Arcus, la società costituita nel 2004 dal Ministero dei Beni culturali per sostenere il settore, e affidati a cinque università italiane (Siena, Padova, Bologna, Roma e Lecce). Altri atenei partecipano alla messa a punto del network, pur non avendo un finanziamento ad hoc.
“E’ un aiuto economico che ci permette di partire col progetto, ma che non sarà sufficiente a portarlo a termine” spiega Stefano Campana, componente della commissione paritaria e docente a Siena “dovremmo certamente cercare altre risorse, altrimenti il lavoro rischia di bloccarsi. Non servono somme enormi, ma solo la continuità nell’erogazione di questi fondi”.
Risorse fondamentali, soprattutto se si pensa al ritorno economico che un’efficace valorizzazione dei beni archeologici sin’ora sconosciuti potrebbe fruttare. Marcello Guaitoli esprime così il concetto: “La perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non quello culturale, incalcolabile”.
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Inserito su www.storiainrete.com il 22 ottobre 2012