A ottobre saranno giusto quarant’anni che “Che” Guevara se n’è andato, complice una sventagliata di mitra di un soldato boliviano. Ma prima che l’ondata delle celebrazioni travolga tutto e tutti, sarà bene dare un’occhiata seria, e con la lente di ingrandimento, ad una figura storica scivolata troppo presto, e troppo facilmente, nel Mito. Perché da un esame attento icona del Novecento esce con le ossa rotte e con qualche mistero in meno. E almeno uno in più…
di Luca Di Bella da Storia in Rete n° 17
La cosa più romantica di Ernesto “Che” Guevara è che non ne ha fatta una giusta in tutta la sua vita. Insomma, una specie di tragico Paperino affascinato però dalla rivoluzione, dalla guerra, dal sangue. Sempre più spesso ospite dei cortei pacifisti e democratici, l’effige del “Che” dovrebbe stare più a suo agio in altri contesti. Ma lui non può più protestare e chi lo ha fatto suo non ne conosce bene la storia. E poiché è prevedibile che nei prossimi mesi la melassa apologetica tornerà a scorrere copiosa, «Storia In Rete» ha deciso di provare a nuotare contro corrente e d’anticipo, ricordando alcuni “dettagli” di un personaggio che, storicamente, ha ben poco a che vedere col suo mito e che, invece, condivide con i tanti che ne hanno fatto un simbolo una certa dose di ingenuità. Solo che quella di “Che” Guevara era un’ingenuità non innocente, che ha causato morte e disastri. Di cui saran ricche le prossime pagine.
La prima cosa che lascerebbe probabilmente di stucco molti dei giovani ed ex giovani tuttora affascinati dalla figura di Ernesto Guevara è che il suo comunismo aveva due pilastri al giorno d’oggi decisamente imbarazzanti alla luce delle più aggiornate indagini storiche: il cinese Mao e il sovietico Stalin. «Chi non ha letto i 14 volumi degli scritti di Stalin – diceva ad esempio il “Che” – non può assolutamente considerarsi comunista». Inutile dire che, oltre a questo, non amava assolutamente la pace. Anzi, teorizzò – e praticò – a più riprese lo scontro e la guerra globale. Pochi mesi prima di morire, mentre era già infognato in una campagna di guerriglia che l’avrebbe portato al fallimento e alla morte, non ancora arresosi all’evidenza dei fatti, scriveva nel suo diario (aprile 1967): «Bisogna portare la guerra dove il nemico la conduce: a casa sua, nei suoi luoghi di divertimento; bisogna farla totalmente». E tra poco vedremo come il “Che” tentò, maldestramente, di far seguire i fatti ai suoi teoremi. Ma la prima prova di una visione sanguinaria e totalitaria della via rivoluzionaria, Guevara la diede nei primi mesi del 1959 in quello che era il suo nuovo Paese (lui era nato in Argentina il 14 giugno 1928): Cuba. Col successo della rivoluzione castrista del primo gennaio 1959, il leader maximo cubano, il giovane avvocato Fidel Castro, si trovò a dover affidare ai suoi pochi e fidati luogotenenti i posti di maggior responsabilità. I fedelissimi di Castro – uomo molto attento all’adulazione e, di contro, sospettosissimo e poco incline alle critiche – si contavano sulle dita di una mano: il fratello Raul, il “Che”, Camillo Cienfuegos, Huber Matos. Al “Che” tocca un ruolo di punta nell’epurazione verso le persone compromesse col passato regime del dittatore Fulgencio Batista (un ex sergente restato al potere per molti anni prima che Castro lo rovesciasse). Diventa il responsabile del dipartimento militare de la Cabaña, antica fortezza coloniale a La Avana, trasformata in carcere e mattatoio. Una forzatura? Mica tanto se, in luogo del soprannome “Che”, gli affibbiarono in quei mesi la definizione di “carnicerito” (cioè “Piccolo macellaio”). In quei mesi, Guevara esegue le direttive dei fratelli Castro con scrupolo e un certo compiacimento se è vero quanto ha ricordato un suo sodale dell’epoca: Dariel Alarcón Ramírez, detto “Benigno”. E’ “Benigno”, che seguirà Guevara anche nelle avventure del Congo e della Bolivia, che guida gran parte delle esecuzioni di ex poliziotti e burocrati di Batista (esecuzioni ritenute necessarie per evitare qualunque rigurgito controrivoluzionario). Mentre Ramírez fucila, il “Che” controlla il lavoro: molti lo ricordano freddo, distaccato, col sigaro in bocca, mentre da un terrapieno guarda dall’alto le persone morire. Quanti siano stati i morti non si saprà mai: forse non gli oltre 20 mila che si è detto ma neanche si può dar retta al Fidel Castro che nei primi comizi da dittatore infiammava le folle con un slogan macabro e bugiardo: «Basta sangue!».
L’ex ragazzino malaticcio di Rosario (l’asma lo perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni) mostra una tempra rivoluzionaria da Robespierre latino-americano unita ad una disciplina assoluta ed una dedizione al Leader Maxímo, se possibile, ancora più integrale. Dietro le centinaia di esecuzioni (in circa quattro-cinque mesi) che cadono sotto la responsabilità diretta di Guevara c’era sempre la solita trafila: un processo farsa (i giudici spesso erano gli stessi guerriglieri scesi con Castro dalle montagne) nonostante la presenza di giornalisti, che poteva durare al massimo qualche ora. Ma spesso la condanna arrivava dopo pochi minuti; poi l’invio degli ordini delle esecuzioni nelle varie prigioni verso sera; il mattino dopo il cerchio si chiudeva con una salva di moschetti. E’ sempre “Benigno” a ricordare come Guevara attendesse con ansia, ogni pomeriggio verso le sei, l’arrivo delle sentenze capitali che dovevano essere eseguite il giorno dopo. E se, per qualche ragione, il plico con le carte tardava, il “Comandante” non riusciva a tradire una certa impazienza. Altre volte la repressione era gestita direttamente da lui, con punte di perfidia inaspettate per chi è abituato a vedere – e immaginare – il rivoluzionario puro e disinteressato immortalato dal fotografo Alberto Días Gutierrez Korda e diffuso ai quattro angoli del globo grazie all’italiano Giangiacomo Feltrinelli. Una delle vittime di Guevara, Fausto Menocal, ha potuto raccontare la sua odissea a la Cabaña. Menocal si è salvato perché membro della famiglia di un ex presidente cubano ma questo non gli ha risparmiato – come presumibilmente altri – le attenzioni di “carnicerito” Guevara: «Ho dovuto restare circa 40 ore, giorno e notte, senza mangiare, senza bere, davanti a lui, nel suo ufficio – ha raccontato Menocal – C’era un lungo corridoio dove degli uomini armati andavano e venivano per fargli firmare ordini e ricevere istruzioni. Mi prendevano in giro quando mi vedevano. Era lo stesso Guevara ad interrogarmi. Una sera, dopo essere stato rinchiuso in una cella, venne a trovarmi per dirmi: “Ascoltate, Menocal, noi vi fucileremo questa notte”. Sono stato condotto davanti al plotone d’esecuzione. Mi hanno legato ad un palo, mi hanno bendato gli occhi, poi c’è stata una scarica di fucili». Ma il plotone aveva sparato in aria. Prima che Menocal realizzasse cosa era accaduto un violento colpo alla testa dato col calcio di un fucile lo fece svenire. Liberato prenderà subito la strada dell’esilio. Anni dopo, durante una delle sue sortite all’estero, difendendo l’operato della rivoluzione, Guevara dirà senza mezzi termini: «Abbiamo fucilato, fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è una lotta senza quartiere».
Dopo la caccia agli uomini di Batista iniziò il regolamento di conti all’interno del movimento castrista. Regolamento di conti che oppose Castro e alcuni fedelissimi a quanti, ingenuamente, avevano protestato perché la Rivoluzione si era discostata rapidamente dai suoi obbiettivi originari. Tra i critici non c’è Guevara ma c’è Huber Matos che si dimette polemicamente con una lettera a Castro, lettera che sarà la sua rovina. Castro ordina ad un riluttante Cienfuegos di andare ad arrestare Matos. Cienfuegos tenta invano di portare il Leader Maxímo a più miti consigli. Ma quelle sue insistenze forse segnano un’altra rottura. Pochi giorni dopo viene annunciata la morte di Cienfuegos in un incidente aereo di cui non verranno però mai mostrate tracce. Intanto Matos viene processato e condannato a vent’anni di prigione. E Guevara? Con Raúl Castro è il luogotenente che resta più vicino, nonostante tutto, a Fidel. E così mentre i suoi pari grado dei tempi della guerriglia vengono processati o muoiono in incidenti dubbi, lui viene destinato a nuovi incarichi. Che lo porteranno a collezionare altri disastri.
Un giornale francese – «Historia» – a proposito del periodo trascorso da “Che” Guevara alla guida di importanti settori dell’economia cubana ha titolato così: «Come rovinare il paese in tre lezioni». O tre tappe: che nella breve e non esaltante carriera di Guevara corrispondono alla sua permanenza ai vertici del settore Industria nell’ambito dell’Istituto nazionale per la riforma agraria (ottobre 1959), alla sua nomina alla presidenza della Banca Centrale di Cuba (dicembre 1959) e poi l’incarico di ministro dell’Industria (gennaio 1961). L’avventura di Guevara ai vertici della traballante economia cubana durerà fino alla primavera 1964 quando rappresenterà Cuba alla prima conferenza dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (OCDE). Pochi mesi più tardi Castro lo destinerà ad altri incarichi, cioè lo rimanderà a fare il guerrigliero. Non forse non a caso. Infatti i cinque anni del “Che” economista non hanno fatto registrare risultati esaltanti. Anzi. Anche perché ogni scelta del giovane rivoluzionario (Guevara nel 1959 ha 31 anni) è influenzata dall’ideologia, riveduta e corretta. Infatti, dopo aver promesso la fine del latifondo incoraggiando quindi la speranza dei poverissimi contadini cubani di aver un po’ di terra per sé, la rivoluzione castrista – auspice Guevara – fece un mezzo giro a vantaggio dello Stato e a scapito dei contadini. Infatti le terre confiscate vennero per lo più nazionalizzate nonostante una legge – redatta dal braccio destro di Guevara, Antonio Núñez Jiménez – avesse dato il la alla speranza stabilendo che ogni appezzamento privato non poteva superare i 40 ettari. Da qualunque lato la si voglia vedere, la scelta di Guevara era comunque troppo ambiziosa: infatti poiché i quadri amministrativi erano stati decimati dalla repressione ogni decisione faticava a trovare chi la potesse mettere in atto. Questo valeva sia per l’agricoltura che per l’industria, campo quest’ultimo dove Guevara spinse Cuba verso piani ai confini con la megalomania. Con i suoi collaboratori elaborò una teoria infinita di progetti per dotare Cuba – la cui risorsa principale era la canna da zucchero – di una industria propria: si progettarono cantieri navali, officine meccaniche, impianti siderurgici, fabbriche chimiche per scoprire poi regolarmente che era complicato arruolare tecnici specializzati anche nell’amico est Europa controllato dall’Urss e al tempo stesso non veder correre comunque il deficit commerciale. Deficit che per le casse cubane del 1961 ammontava a 12,3 milioni di pesos, passati a 237 milioni nel 1962 e a 322,2
milioni nel 1963. Con l’economia in coma la scelta di Guevara di favorire il finanziamento pubblico delle riforme agricole e industriali non favorì i conti. Ma per capire che bisognava fermarsi e cambiare rotta si dovette attendere il 1964, anno in cui si abbandonarono almeno le velleità industrialistiche e si optò per una politica agraria che facesse perno sullo sfruttamento della canna da zucchero, contando anche sull’appoggio dei “paesi amici” (del genere di quelli che con una mano ti danno un po’ di grano e con l’altra ti piantano in casa un po’ di missili puntati contro un potente vicino…). Insomma, quasi cinque anni per tornare al punto di partenza, ma con molti debiti in più. Che questa scelta coincida, mese più mese meno, con la decisione di Castro di indirizzare altrove le energie e le velleità di Guevara, non deve stupire.
Non essendoci più cubani da fucilare o da rovinare economicamente, il nuovo obbiettivo per il Comandante Guevara fu quello di tornare a far quello che, si supponeva, sapesse far meglio: il guerrigliero. La situazione del resto, da un certo punto di vista, era propizia. Gli americani andavano stuzzicati ovunque fosse possibile: Guevara aveva già fatto la sua parte attaccandoli nel 1964 e dichiarando – sorvolando al tempo stesso sui propri sbagli – che gli USA avevano applicato un blocco economico contro Cuba che strozzava la giovane economia rivoluzionaria dell’isola. Ma un vero rivoluzionario vive all’attacco, mai in difesa: ed eccobox Guevara – che Castro, molto più intelligente di lui, vede per quello che è: un oltranzista implacabile e non l’idealista libertario che si è imposto nell’immaginario dopo la sua morte – che viene spedito in Congo. Perché in Congo, in Africa? Sia perché, come dirà lo stesso Guevara con una punta di lucida follia, bisogna «scatenare due, tre, tanti Vietnam». Sia perché, gli Stati Uniti vanno combattuti anche attraverso i governi che li appoggiano nel Terzo Mondo. In Congo, ad esempio, nel gennaio 1961 il leader progressista Patrice Lumumba è stato assassinato. La sua morte ha dato il via ad una guerriglia comunista che il nuovo presidente, Mosé Tshombé, cerca di stroncare con l’aiuto degli USA. Parlando all’Onu, nel dicembre 1964, Guevara – che tra le tante cose che non era, non era neanche un diplomatico – aveva dichiarato senza tante perifrasi che «tutti gli uomini liberi del mondo devono prepararsi a vendicare il crimine del Congo». Detto fatto: pochi mesi più tardi Guevara sbarca in Congo con un gruppo di guerriglieri cubani che, nelle settimane successive, arriveranno a 300 unità. Dovrebbero essere la punta di diamante, i professionisti della guerra in grado di guidare alla vittoria gli insorti congolesi ma finiscono per infognarsi in una serie di contrattempi e disfunzioni che trasformeranno l’avventura in una tragica pochade. Sembra incredibile ma Guevara non ha idea di dove sia finito. Facendo un errore che gli sarà fatale nel 1967, il rivoluzionario argentino scopre solo una volta arrivato in Congo che le sue idee e quelle degli uomini che vorrebbe aiutare a liberarsi non collimano. A cominciare dalla tecnica della guerriglia: per i congolesi rifugiarsi in una trincea può portar male, i proiettili del nemico possono essere evitati facilmente grazie ad una pozione magica o magari pregando qualche divinità animista. Ma soprattutto la disciplina è una variabile secondaria. Aggiungiamo la pratica della poligamia, che era difficile spiegarsi in spagnolo a chi parlava solo lo swahili, che le varie anime della guerriglia si scontravano di continuo sulla base non di dispute ideologiche ma per rivalità etniche e, ultimo ma non ultimo, che gli uomini che avevano seguito il “Che” da Cuba erano decimati dalla sifilide e il quadro è fatto. Guevara non riesce ad imporre neanche delle scelte militari di un qualche senso: le sue indicazioni sono disattese, rifiutate o vanificate da atti di indisciplina che, come nel caso di alcune imboscate, finiscono per far più danni agli attaccanti che alle truppe governative. Arrivati in aprile (1965), Guevara e i suoi tolgono le tende nel novembre successivo. Lumumba sarebbe stato vendicato da qualcun altro. O in un altro posto. Ad esempio la Bolivia.
Con uno stile di pensiero difficile da capire oggi ma molto diffuso all’epoca negli ambienti intellettuali e rivoluzionari (a parole e no), pensare in grande più che una necessità era una vera e propria vocazione. E così, Guevara – spinto e ispirato da Castro – arrivò a teorizzare addirittura la sollevazione dell’intera America del Sud. La scintilla sarebbe scoccata in Bolivia, un paese poverissimo di circa 6 milioni d’abitanti controllati da un governo eletto democraticamente e guidato dal generale Barrientos, legato a filo doppio a Washington. La Bolivia confina con Perù, Cile, Paraguay, Brasile e Argentina, paesi dove la situazione era agitata in quegli anni e dove erano attivi movimenti rivoluzionari. Insomma, facendo esplodere la rivoluzione in Bolivia si poteva sperare di esportarla rapidamente in altri Paesi innescando una reazione a catena che avrebbe potuto minare il secolare controllo statunitense su tutto il sub continente. Fin qui la teoria. La pratica fu, anche in questo caso, molto più complicata e meno lineare. Al confronto di “Che” Guevara i mazziniani dell’Ottocento erano dei raffinati pianificatori: avendo deciso che la guerriglia avrebbe fatto insorgere il mondo contadino, Guevara si avventura nella jungla boliviana con altri 16 cubani e una trentina di boliviani e peruviani. In tutto una banda di cinquanta persone che, stando alle parole del Comandante, ha davanti a sé un lavoro di almeno dieci anni prima di terminare la fase insurrezionale. La Jungla ci mette del suo, insieme ad insetti e malattie, a rendere tutto complicato anche se per prevederlo non ci voleva una laurea in scienze naturali. Sarebbe poi bastato leggere i giornali per sapere che una recente riforma agraria aveva migliorato un po’ le condizione dei contadini boliviani, meno disposti del previsto quindi a “infiammarsi” per la rivoluzione mondiale e, in nome di essa, magari aiutare e foraggiare i guerriglieri. A rendere ancora più fantozziana la situazione concorrs poi un fatto non secondario: la regione scelta dal “Che” per infiammare il continente era tra le meno abitate dell’intera Bolivia che, va ricordato, non è che abbia già di suo una densità di popolazione stile Hong Kong… La cosa però forse più clamorosa è che, ben prima dei rangers boliviani che gli faranno la pelle, il “Che” si ritrova contro il Partito comunista boliviano. Inizialmente favorevole all’impresa pensata a Cuba, il leader comunista Mario Monje fa un clamoroso voltafaccia subito dopo il suo primo e unico incontro con Guevara! Che si ritrova così a voler fare la rivoluzione per conto di contadini che se ne fregano, in una zona dove si fa già fatica ad incontrare capre figuriamoci uomini, con una armata Brancaleone di malaticci, senza cibo e medicine, con l’esercito boliviano alle calcagna e senza neanche l’appoggio dei comunisti locali. Stante la situazione è già un miracolo che l’avventura boliviana del “Che” sia durata complessivamente 11 mesi invece che 11 giorni.
Tra le molte cose che Guevara non aveva considerato o, comunque, che aveva sottovalutato c’era anche la questione degli appoggi internazionali. In altri termini, come s’era già visto in Congo, l’Urss non aveva grande interesse ad avventure del genere. La Guerra Fredda si combatteva in altro modo e con altri scopi. E, per la verità anche la guerriglia, tecnica di guerra teorizzata da Che Guevara in un libretto di gran successo anche perché nessuno, nell’Europa studentesca del ’68, ha mai provato a metterlo in pratica, si sarebbe dovuta combattere in altro modo. Se non altro perché l’esercito boliviano aveva distaccato alla caccia dei guerriglieri rivoluzionari ben 5.000 uomini e questo quando col “Che” erano rimasti in piedi meno di 30 uomini. La strada che porta al fallimento totale dell’operazione è però lunga perché Guevara e i suoi perlomeno capiscono che l’unica speranza è quella di muoversi di continuo. Fanno a piedi oltre 600 km in pochi mesi, decimati anche da qualche tradimento, boicottati da una radio che non ne ha mai voluto sapere di trasmettere, frustrati dall’impossibilità di emettere dei comunicati, demoralizzati dal dover bere la propria urina per non crepare di sete subito. La ciliegina sulla torta arriva l’8 ottobre 1967: è proprio un contadino a rivelare ai soldati che in zona c’è la banda di Guevara. Si muovono 300 rangers e ormai è questione di ore. Dopo le prime sparatorie la banda si sparpaglia, Guevara è ferito ed è sorretto da un compagno. Ma i boliviani li catturano alla svelta. Li portano a due chilometri di distanza, a La Higuera, dove c’è una scuola che diventa una prigione. Guevara ci resta il pomeriggio-sera dell’8 e la mattina del 9. Poi, a mezzogiorno, entra nella stanza dove è tenuto prigioniero, un soldato. Si chiama Mario Téran, ed ha avuto ordini precisi da Bogotà, frutto di una riunione durata tutta la notte. Téran lo guarda e senza dire nulla spara a sangue freddo nove colpi di mitragliatore. Recentemente un giornale argentino ha scovato le foto che mostrano il “Che” poco prima di essere giustiziato e poi il suo cadavere, non ancora messo in bella mostra su un tavolaccio come mostrano foto famose che han fatto scattare l’irriverente parallelo col Cristo deposto di Mantegna. Prima che il cadavere venga sepolto in un luogo segreto gli vengono mozzate le mani perché la CIA – che non c’entra nulla con la decisione di uccidere Guevara (vedi box) – sollecita una identificazione certa grazie alle impronte digitali. Non bastando evidentemente le foto – le stesse ritrovate da poco e che mostriamo in queste pagine – scattate dall’agente CIA Felix Rodriguez che aveva seguito tutta l’operazione con i rangers boliviani.
Agli uomini che l’avevano appena arrestato, Guevara aveva detto «Valgo più da vivo che da morto». A Bogotà la pensavano esattamente al contrario – nonostante il rischio di scontrarsi con gli USA – e poco dopo gli mostrarono, nei fatti, che anche la sua ultima convinzione si era rivelata molto lontana dalla realtà.
Luca Di Bella
Box 1:
Il soprannome di “Che” venne attribuito a Guevara dai suoi compagni di lotta cubani in Messico prima della rivoluzione castrista, e deriva dal fatto che Guevara, come tutti gli argentini, pronunciava spesso l’allocuzione “che”. La parola deriva dalla lingua Mapuche e significa “uomo”, “persona”, e venne ripresa nello spagnolo parlato in Argentina e Uruguay, per richiamare l’attenzione di un interlocutore, o più in generale, come un’esclamazione simile a “hey”.
BOX 2
«Un essere che, da storico, diventa mitico non può essere giudicato in base a criteri razionali, ma solo ad atti di fede e di speranza. È il caso del Che. La sua figura oggi (…) è «un marchio capitalista» sfruttato da imprenditori d’ogni genere nei cinque continenti, e venerata, citata, ammirata da un gran numero di giovani che non hanno il minimo afflato rivoluzionario e forse non sanno neppure trovare Cuba o la Bolivia sulla carta geografica. Il Che rappresenta un personaggio del quale la storia contemporanea è orfana: l’eroe, il giustiziere solitario, l’idealista, il rivoluzionario generoso e disinteressato che compie imprese superlative e, alla fine, è abbattuto, come i santi, dalle forze del male. Non importa che gli storici seri dimostrino, in opere esaurienti, che il Che in carne e ossa era molto lontano da questo modello di virtù militari ed etiche. Certo, fu coraggioso, ma anche sanguinario, capace di fucilare decine di persone senza il minimo scrupolo e, da un punto di vista militare, i suoi insuccessi e i suoi errori sono stati assai più numerosi dei buoni risultati. È vero: era coerente, austero e frugale, incapace di lasciarsi andare alle pagliacciate e alle doppiezze dei politicanti di professione. Ma è vero, anche, che la violenza e ciò che Freud definisce «la pulsione di morte» ne hanno guidato il comportamento quanto la passione per l’avventura e per la rivoluzione».
Mario Vargas Llosa (da «La Stampa» del 25 febbraio 2007)
Box 3:
Non la lunga mano del Dipartimento di Stato o della Cia, ma più semplicemente quella del presidente boliviano Barrientos si nasconderebbe dietro l’uccisione, il 9 ottobre 1967, di Ernesto “Che” Guevara nella foresta andina. A queste conclusioni, tanto in contrasto con il mito che da decenni avvolge la figura del “Che” e la sua stessa fine, giungono Vincenzo Vasile, inviato dell’«Unità», e Mario J. Cereghino, (Mario J. Cereghino-Vincenzo Vasile, «Che Guevara top secret», Bompiani, pp. III-151, € 7,50) sulla base di una documentazione apparentemente inoppugnabile quale quella fornita da carte della stessa Cia, declassificate durante la presidenza Clinton. Può risultare credibile la tesi di una Cia più interessata a un “Che” vivo che morto, indebolito dai fallimenti in Congo e nella stessa Bolivia, da utilizzare magari in funzione anticastrista, o quella della fretta di un Barrientos nel togliere definitivamente dalla scena un guerrigliero divenuto scomodo per gli stessi sovietici e che invece gli americani progettavano di trasportare a Panama per lunghi interrogatori prima, magari, di un processo di risonanza mondiale. Resta soltanto da capire – e non è problema di poco conto, né chiarito dalla pur accurata ricerca di Cereghino eVasile – come un governo tanto legato agli Usa come quello boliviano avesse potuto prendere autonomamente una decisione di tale portata, scavalcando di fatto un così potente alleato e protettore. E il mistero sulla fine di Guevara e sugli scenari, internazionali o locali che le fecero da contorno, finisce, invece di chiarirsi, per infittirsi. (Guglielmo Salotti)
Box 4
Come per molti altri importanti personaggi storici, anche per Ernesto Che Guevara non c’è stata pace dopo la morte. Mentre diveniva un Mito delle masse studentesche e rivoluzionarie fino ad assurgere, decennio dopo decennio, ad icona di un certo Novecento, Guevara restava per gli storici un enigma. Se nel luogo della sua morte è sorto una specie di piccolo santuario dove alcuni boliviani lo venerano come San Ernesto de La Higuera, sui suoi resti mortali si è aperto un giallo. Fu Fidel Castro, il 15 ottobre 1967 ad annunciare al mondo che il “Che” era morto ed è sempre stato il Leader Maxímo a volere per il suo antico compagno di lotta (anche se ci son parecchi indizi che tra i due, dietro la facciata, negli ultimi anni non corresse buon sangue) un vero e proprio mausoleo a Santa Clara. Mausoleo, come è facile immaginare, visitatissimo ma che conterrebbe una sorpresa. O meglio non conterrebbe quello che dovrebbe contenere. La rivelazione è arrivata a metà febbraio, grazie ad un’inchiesta condotta dal giornale messicano «Letras Libres». Secondo la ricerca dei giornalisti Maite Rico e Bertrand de la Grange, gli specialisti cubani che nel luglio 1997 dissero di aver finalmente rintracciato il luogo dove era stato sepolto Guevara dopo il suo omicidio, presso il villaggio di Villagrande, in Bolivia, hanno mentito per ragioni politiche e di propaganda. Sarebbe stato Fidel Castro a premere perché si annunciasse comunque il ritrovamento per «riaccendere il fervore rivoluzionario a Cuba». Di passaggio va sottolineato che il “ritrovamento” è avvenuto nel trentennale della morte del guerrigliero argentino-cubano. Così come va ricordato che non si è fatto ricorso al classico esame del DNA per identificate senza ombra di dubbio i resti del “Che”. Che forse, hanno osservato Rico e de la Grange, non ci sono più perché il cadavere, dopo l’orgia di fotografie, fu cremato proprio per evitare quello che, trent’anni dopo, Castro ha voluto comunque mettere in scena.
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Inserito su www.storiainrete.com il 26 aprile 2010