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L'Insolita Storia

Gian Rinaldo Carli: Identità italiana nel 1765

L’Italia e la sua identità. Oggi il tema dell’identità italiana e/o dell’italianità è costantemente decostruito sia sul piano storico sia sul piano localistico. Innanzitutto l’identità italiana e l’italianità sarebbero concetti artefatti perché inventato dal fascismo. Lo stesso Risorgimento sarebbe da intendersi solo come un percorso di colonizzazione da parte del Regno di Sardegna: molto neoborbonismo d’accatto scimmiotta il peggior modus operandi degli studi post-coloniali.

Oltre alla decostruzione storica c’è quella localistica. L’identità italiana non esiste perché gli “italiani” (che quindi non esisterebbero) sono per definizione campanilisti. Basta allontanarsi di qualche chilometro per vedere cambiare ricette e dialetti. Si insiste sulle differenze, e le si amplificano in maniera parossistica, e ci si dimentica che anche tra “campanili” diversi sono più le cose che uniscono di quelle che dividono.

Giovanni Verga e la Guerra di Santi

E applicando questa lettura che amplifica le differenze localistiche, si arriverebbe alle estreme conseguenze: non esisterebbero nemmeno province e comuni. Al massimo rioni. Basti pensare al corpus del folklore delle contrade di Siena, o alla novella di Verga  Guerra di Santi del 1880. Qui lo scrittore siciliano racconta della rivalità tra i fedeli dei due Santi Patroni della stessa città che sfocia in violenze in grado di rivaleggiare con i peggiori scontri tra tifoserie rivali.

Battute sull’atomizzazione del localismo a parte è indubbio che il binomio localismo e nazionalismo del Ventennio diventa una costante azione di logoramento del concetto di identità italiana.

“Siamo un popolo di ferro”!?!

Esempio di questa azione portata avanti con intelligenza e ironia è il pezzo che segue di un noto e apprezzato (anche dal sottoscritto) podcast. La riflessione deriva da uno spot non privo di elementi cringe che si conclude con un Siamo un popolo di ferro.

Sicuramente chiusa discutibile (forse più per i richiami a Il Trono di spade che a quelli littori) da cui l’autore del podcast fa scaturire la seguente riflessione.

«L’eco goffa, interpretata da qualche agenzia pubblicitaria che lavora con questi enormi gruppi, in queste commesse gigantesche, di quella retorica nazionalista, identitaria, italiana. Che fa schifo e che continua a essere promossa antistoricamente dal governo. E da diversi operatori culturali, non so come definirli, reazionari che sostengono che ci sia un’italianità.

L’Italianità è un’idea di Mussolini

Quell’idea lì, dell’Italianità così profonda è un’idea di Benito Mussolini. Di nessun altro. Perché il fatto che l’Italia sia un paese misto fatto di tante componenti diverse è la ragione per cui vengono a vederlo da tutto il mondo. Ed è quello che noi rivendichiamo ribadiamo sempre quando noi parliamo del nostro paese: Ah, se vai a cinque chilometri il dialetto cambia, diventa un’altra cosa.  Ah, quell’altra regione. Siamo consapevoli di essere un insieme di identità diverse. E che è questa mescola la figata che rende l’Italia, l’Italia. Con tutti i suoi problemi, tutti i suoi difetti»

«Ma sicuramente non esiste un’Italianità pura di nessun tipo.»

E l’unica ragione che mi viene in mente per inventarsi tutto questo è proprio il riverbero della retorica governativa di alcuni esponenti che continuano a martellare sull’Italianità, l’Italia, Italia, Bandiere, Italia, evviva l’Italia, quant’è bella l’Italia. Perché l’Italia è l’Italia Sia sull’agroalimentare che sui trasporti. Insomma sapete quali sono quelli che martellano di più. Simboli, identità, terra, sangue, patria, sono sempre loro. A furia di ripetere queste cose queste un po’ di riverbero arriva da qualche parte.»

Parlare di Italianità prima di Fascismo e Risorgimento

Si può rispondere a questa arguta riflessione sull’Italianità e l’identità italiana evitando il fascismo (e magari anche il Risorgimento) e magari rivendicando anche le “differenze” tra provincia e provincia?

Sì, si può fare ed estremamente agevole per chi conosce la riflessione storica su questo tema. Ci viene in soccorso Il Caffè, rivista illuminista italiana che vide la luce a Milano nel 1764. La Milano è quella del Ducato di Milano ormai inglobato nell’Austria dell’illuminata Maria Teresa.

Il Caffè, Milano, 1765

Siamo in pieno illuminismo. Non c’è ancora stata la Rivoluzione francese, non c’è ancora stato Napoleone, la restaurazione, il Romanticismo e la nascita dei nazionalismi ottocenteschi. I contributori de Il Caffè, tra cui Cesare Beccaria, sono principalmente lombardi, ma non mancano esponenti di quella costellazione culturale che si riconosceva nel contesto culturale italiano. C’è Ruggero Giuseppe Boscovich, cosmopolita si direbbe oggi, ma proveniente dalla Repubblica di Ragusa. E, soprattutto, c’è Gian Rinaldo Carli, della Serenissima Repubblica di Venezia, nativo di Capodistria.

Ed è Carli che sulle pagine de Il Caffè ci racconta Della patria degli Italiani. Pensate un po’, 1765, prima della combinazione Napoleone e Romanticismo, in un tempo in cui l’Italia era ormai da secoli una serie di staterelli, più o meno rivali, c’era chi si poneva il tema Della patria degli Italiani. Quindi qui non c’è fascismo, non c’è Risorgimento e c’è tanto localismo: mica era campanilismo quelli erano Stati diversi. Stati diversi che, è bene ricordare, usavano l’italiano per gli atti pubblici.

Della patria degli Italiani

L’incipit stesso della riflessione del Carli è quanto più campanilista si possa immaginare: un caffè milanese in cui entra un forestiero. Un frequentatore del caffè, Alcibiade, chiede al nuovo venuto se sia un forestiero, e quello nega. Gli chiede allora se sia milanese, e di nuovo nega. Alcibiade, l’habitué del caffè, rimane stupefatto.  E il nuovo venuto spiega:

«Sono Italiano, rispose l’incognito, e un Italiano in Italia non è mai forestiere; come non lo è in Francia un Francese, in Inghilterra un Inglese, un Olandese in Olanda e così discorrendo.»

La discussione si accende. E il forestiero chiede a bruciapelo al milanesissimo Alcibiade (forse un precursore del leghismo anni ‘90’) se sia italiano. Al che Alcibiade risponde convintamente di sì.

Un italiano entra in un caffè”

Il dialogo si allarga, Carli chiarisce che la sua riflessione si applica a tutta l’Italia, e che non è semplicemente una constatazione linguistica, ma più elementi si combinano nel concetto di identità italiana.

«Altro è, che voi vi chiamate milanese, ed io mi chiami Bergamasco, Fiorentino, Napolitano; come Antonio, Paolo, o Francesco: ed altro ch’io qui, e voi fuori di qua dobbiamo essere ambedue egualmente forestieri. Forestiere in Italia è l’Inglese, è l’Olandese, è il Russo; perché diversi di noi pel clima, per originalità, pel linguaggio, per la religione e per le leggi. Ora se a questi si dà con ragione il titolo di forestieri, come potete immaginarvi che il medesimo titolo debba darsi ad un Italiano in Italia, allorchè si ritrova a dieci passi lunge dal luogo della sua nascita?»

Il problema è che gli italiani stessi fanno fatica a riconoscerlo. Già allora si insisteva sui localismi divisivi tra italiani, e Carli conclude con lo stesso ragionamento che abbiamo proposto all’inizio: enfatizzando le differenze non c’è provincia o comune che tenga, si arriva al rione, al clan, al singolo

Gian Rinaldo Carli riassume tutto con il paradosso che in realtà tutti gli italiani sono forestieri: «quasi che in Italia tanti forestieri ci fossero quanti Italiani».

Italiani, esterofili da secoli

Della patria degli Italiani assume poi una chiave storica, ma non mancano argute riflessioni antropologiche. Non solo la suddivisione tra Guelfi e Ghibellini come elemento intrinseco dello spirito di divisione degli italiani. Ma c’è anche un altro problema gli italiani sono esterofili e poco patriottici. L’esterofilia come un atavismo anti-italiano. Scrive Carli.

«Per conseguenza di tal principio, qual è quell’Italiano che abbia coraggio di apertamente lodare una manifattura, un nuovo ritrovato, una scoperta, un’opera insomma d’Italia, senza sentirsi tacciato di cieca parzialità e di gusto depravato e corrotto? A tale proposizione un altro caffeante, a cui fe’ eco Alcibiade, esclamò che la natura degli uomini era tale, di non tenere mai in gran pregio le cose proprie.»

Il pregiudizio anti-italiano c’era già nel 1765. E i vari caffeanti non possono che concordare: «riconosciuto l’incognito per uomo colto, di buon senso e buon patriota; da tutti in vari modi si declamò contro la infelicità, per cui da un troppo irragionevole pregiudizio siam condannati a credere: che un Italiano non sia concittadino degli altri Italiani; o che l’esser nato in uno, piuttosto che in altro luogo di quello spazio di terra che Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe, confluisca più o meno all’essenza o alla condizione della persona

Gian Rinaldo Carlì ritratto da Bartolomeo Nazari nel 1749 (Ca’ Rezzonico, Venezia, via Commons)

La Repubblica da Roma all’Italia

La riflessione storica di Carli, sicuramente influenzata dal provenire della Serenissima, è estremamente interessante per la chiave di lettura “repubblicana”. Si parte da Roma, e da come fosse la Repubblica ad aver definito per prima l’Italia, con la successiva Roma imperiale che in un certo senso annacqua la questione della cittadinanza.

Tra le righe una riflessione alla Leopardi: «La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtú grande Ma la riflessione, fascistissima, del Leopardi è più tarda, siamo nel 1821. Quindi è meglio lasciarla da parte.

Per Carli la Repubblica è anche l’elemento di sopravvivenza al collasso di Roma: «Le città d’Italia si restrinsero nei rispettivi lor territorj; e, conservando dentro di sé stesse la medesima forma di Roma nei loro magistrati, s’intitolarono Repubbliche; e quindi ritrovasi nelle inscrizioni, quasi in ogni città, l’intitolazione di Respublica

La Repubblica insomma come una chiave essa stessa di italianità, ponte tra Roma e il Rinascimento. Repubbliche che si sarebbero poi spesso trasformate in signorie, ma per Carli non c’è dubbio, la forma repubblicana è superiore:

«Quindi alcuni cittadini, fatti potenti, delle proprie città divennero Sovrani e Padroni; mentre le altre nello stato di Repubblica si mantenevano. Si direbbe, che ove gli uomini erano resi più vili, o più molli, più corrotti, ivi si formò la sovranità; ed, al contrario, la Repubblica si mantenne, ove le leggi furono rispettate, ove una virtù di moderazione e di consistenza animò gli animi dei cittadini, ove al bene pubblico seppe ciascheduno sacrificare il privato bene e ‘l particolare interesse.»

Italianità come la meccanica celeste

Gian Rinaldo Carli conclude Della patria degli Italiani con un auspicio patriottico e italocentrico del protagonista del racconto. Auspicio che non può essere un processo di unificazione nazionale (al Risorgimento manca ancora qualche anno, siamo pur sempre nel 1765, quasi un secolo prima dell’Unità d’Italia) bensì che le varie entità nazionali italiane si riconoscano come un unico sistema in equilibrio intorno al “Fuoco” dell’Identità italiana. Fuoco inteso in senso geometrico, gli Stati italiani sono “indipendenti” come i pianeti, più grandi, più piccoli, soli o con satelliti. Ma così come i pianeti orbitano in armonia intorno al Sole, così gli Stati italiani dovrebbero essere in armonia con il concetto di italianità.

««Divenghiamo finalmente italiani, per non cessar d’essere uomini.»

Quindi nel 1765 prima dei giacobini, prima di Napoleone, prima dell’”Espressione geografica” e prima dell’influsso del Romanticismo sui nazionalismi ottocenteschi, i cittadini della Serenissima assieme ai sudditi lombardi di sua Maestà Maria Teresa d’Austria discettavano di Italianità.

Ergo l’idea di Italianità precede di parecchi lustri il fascismo. In un tempo in cui si discettava di italianità ben consapevoli delle differenze: non differenze tra campanili, ma differenze tra italiani di repubbliche e italiani di vecchi ducati ormai fedeli a monarchie assolute.

Italianità come idea di fondo

Le supposte “identità diverse” di cui parla il podcaster che affascinano i turisti funzionano perché sono armonizzate da un’idea di fondo. L’idea che è l’Italianità, che ha consentito all’Italia di arrivare all’unificazione con tante “piccole” capitali che rivaleggiavano con la “capitale vicina” proprio in virtù di quella italianità.

Certo anche Gian Rinaldo Carli si presta a una delle contestazioni proprie di chi vede elementi fascisti ovunque. Della patria degli Italiani non può che far partire le sue considerazioni su Italia e Italianità da Roma. Si ritrovano quindi quegli elementi che la narrazione fascista farà propri e amplificherà. Gian Rinaldo Carli si pone quindi con Della patria degli Italiani in quel solco prefascista che arriverà all’apice con La grande proletaria si è mossa di Giovanni Pascoli del 1912.

Solco prefascista in cui volendo si può includere anche il buon Leopardi del 1821: «La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtú grande.» Insomma tutti quei pensatori che nel corso dei secoli hanno scritto di Italia.

Prefascismo e Ur-fascismo

A questo punto non restano che due chiavi di lettura. L’urfascismo alla Eco in cui Carli, Leopardi e Pascoli rappresentano manifestazioni latenti del fenomeno.

O il fatto che i grandi intellettuali italiani abbiano sempre parlato di Italia e italianità. E in questo il Fascismo ha rappresentato solo una fase in cui, per ovvi motivi storico-politici, il fenomeno dell’Italianità è stato più evidente e concentrato che in altri periodi.

Ma poi siamo così sicuri che siano due chiavi di letture diverse?

Battute a parte ricordiamoci di Carli e della Della patria degli Italiani ogni qualvolta qualcuno se ne esce con “L’italianità l’ha inventata il fascismo” o gli “Italiani sono troppo diversi tra loro per essere realmente italiani”.

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