Studioso di problemi delle emigrazioni e delle immigrazioni, il francese Gérard Noiriel ha dedicato a un pogrom del XIX secolo in Provenza un saggio che l’editore Tropea pubblica ora con il titolo Il massacro degli italiani (pagg. 253, euro 18) e con il sottotitolo Aigues-Mortes, 1893. Quando il lavoro lo rubavamo noi. Viene così attribuito alla rievocazione, in realtà molto rigorosa e distaccata, un intento polemico, avvalorato dalla citazione d’una frase di Gian Antonio Stella: «Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti vittime di odio razzista si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all’uomo. Mai più Aiugues-Mortes, mai più».
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di Mario Cervi da “Il Giornale” del 22 dicembre 2010
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Non so quanto la crudele lotta tra poveri di un’epoca ormai remota – quando i braccianti addetti alla produzione del sale nella Csm (Compagnie des Salins du Midi) faticavano fino a dodici ore al giorno per portare a casa un salario appena decente – possa essere paragonata all’afflusso massiccio in Italia di extracomunitari del tutto estranei, per radici, costumi e religione, al contesto nazionale. Gli stranieri di Aigues-Mortes venivano in stragrande maggioranza dal vicino Piemonte, alcuni anche dalla Toscana (dalla Lucchesia in particolare). Non si può negare tuttavia che sentimenti, risentimenti, invettive d’allora avessero toni poi riecheggianti tante volte, fino a oggi.
Questi stagionali italiani erano uomini robusti che, volendo mettere da parte quattro soldi, sgobbavano sodo. Con ciò attirandosi le antipatie della mano d’opera locale, e poi di quei trimards – termine che rimanda a trimer, cioè lavorare di buona lena, e a trimarder, vagabondare – che erano ai margini della società, sfaccendati o teppisti, e che nei tumulti ebbero un ruolo di turpi protagonisti, sotto lo sguardo cinico dei benestanti. Il pogrom – secondo i vocabolari «sommossa cruenta contro una minoranza etnica o religiosa» – ebbe come bilancio otto italiani morti, una quindicina di dispersi, una cinquantina di feriti. Ebbe inoltre una caratteristica singolare. Dall’inizio alla fine i disordini furono seguiti e per così dire monitorati dalle autorità, incapaci tuttavia di reprimerli benché si fosse fatto appello anche all’esercito.
Vi fu qualche avvisaglia del peggio e a posteriori venne imputato agli italiani qualche atto provocatorio (ovviamente con il coltello). Poi il 17 agosto 1893 si scatenò la caccia a chi era venuto da fuori, e si arrivò al macello. Vi furono episodi di brutale ferocia e di ripugnante disumanità, come quello d’un proprietario terriero che rifiutò d’aprire il cancello agli italiani braccati, abbandonandoli al linciaggio. La stampa sciovinista fu perentoria nel criminalizzare le vittime. Sul quotidiano Le Matin un giornalista che andava per la maggiore, Charles Laurent, così descrisse l’accaduto: «Tre o quattrocento operai stranieri si sono scagliati contro centocinquanta dei nostri, ed è deplorevole che l’indomani cinquecento operai francesi, armati di bastoni e forche, abbiano preteso da questi intrusi una spiegazione per tanta barbarie, che li abbiano ricambiati trattandoli in modo un po’ rude e abbiano lasciato a terra dei feriti o addirittura dei morti».
A strage avvenuta il sindaco di Aigues-Mortes, volendosi cattivare i locali, garantì che «la Csm ha tolto il lavoro a tutti gli individui di nazionalità italiana: pertanto qualsiasi subbuglio è ingiustificato, gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Solo con la calma dimostreremo il nostro rincrescimento per gli incidenti accaduti. Raccogliamoci per sanare le ferite, e andando al lavoro con animo sereno, daremo prova che il nostro obiettivo è stato raggiunto e che le nostre rivendicazioni sono state soddisfatte». Tanto cinismo suscitò la riprovazione internazionale e il sindaco fu costretto dimettersi.
In Italia – alleata allora, nella Triplice, alla Germania e all’impero austroungarico – vi furono violente manifestazioni antifrancesi, e la stampa d’Oltralpe reagì accusando i nostri emigranti di essere dei mestatori. Per Aigues-Mortes una trentina di rivoltosi (incluso, con grande soddisfazione dei nazionalisti francesi, un operaio italiano) fu portata a processo: 17 dovevano rispondere dei reati i più gravi. Il procuratore generale Fernand Alphandery chiese la condanna degli accusati, che invece furono tutti assolti dalla giuria popolare. L’iniquità del verdetto era palese, ma l’indignazione durò poco. Tra i conservatori vi fu chi, prendendosela con il pubblico accusatore Alphandery che s’era pronunciato per la responsabilità degli accusati, lo qualificò come ebreo. Sottolineatura non casuale, nel Paese che sarebbe presto stato squassato dall’affaire Dreyfus.
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Inserito su www.storiainrete.com il 26 dicembre 2010
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