Amadeo Bordiga, nato a Ercolano nel 1889, oltre a essere stato il vero fondatore, nel 1921, del Partito comunista italiano, ne fu il solo leader storico attestato su posizioni di rigida ortodossia marxista. Né Gramsci, né tantomeno Togliatti, rimasero infatti filologicamente fedeli ai fondamenti dell’ideologia del barbuto filosofo-economista- sociologo tedesco. Il pensatore sardo, in particolare, fu un originale innovatore della dottrina di Marx, che reinterpretò applicandola alla realtà italiana. Bordiga, oltre a essere stato sfrattato dalla galleria dei padri del comunismo italiano, patì una completa emarginazione dalla seconda metà degli anni Venti.
di Roberto Festorazzi da Avvenire del 9 agosto 2016
Stimato da Lenin, dopo l’avvento di Stalin si pose all’avanguardia della minoranza interna al Comintern, l’Internazionale rossa, in posizione di prossimità a Trotzki. Nel 1926, osò porre al dittatore georgiano una domanda diretta che, per la sua impertinenza, mandò su tutte le furie l’interlocutore. Nello stesso anno, Bordiga fu scalzato dalla leadership del Pci: nel 1930, in piena fase di allineamento del partito alle posizioni staliniane, ne venne addirittura espulso.
Confinato dapprima a Ustica dal regime fascista, all’ex capo del comunismo italiano venne poi consentito di soggiornare nella sua Napoli, a condizione che abbandonasse ogni impegno politico, anche nella clandestinità. Nonostante il merito che gli va ascritto per la sua coerenza morale e politica, non adeguata enfasi è stata posta finora sui materiali che si conservano all’Archivio centrale dello Stato di Roma, i quali documentano talune sue sconcertanti ‘esternazioni’ in libertà, ai tempi della Seconda guerra mondiale. In particolare, a essere passate quasi sotto silenzio sono le relazioni che un fiduciario diretto della Polizia politica, Angelo Alliotta, redasse raccogliendo il pensiero autentico del leader comunista.
Nell’estate del 1940, evidentemente godendo della completa fiducia del sorvegliato speciale, la spia del regime riuscì a riferire in alto loco i contenuti dirompenti dei suoi colloqui con Bordiga, avvenuti nella casa di Formia dove questi villeggiava con la moglie. Mentre già infuriava la Battaglia d’Inghilterra, il fondatore del Pci, con limpidezza luciferina, si autodichiarava tifoso di Hitler e dell’Asse. Secondo Bordiga, dalla capacità offensiva del Reich e dell’Italia fascista dipendeva un’opportunità storica: quella di sferrare il colpo mortale alla Gran Bretagna, potenza egemone del capitalismo mondiale. Al forse esterrefatto Alliotta, il leader comunista dichiarava senza mezzi termini: «Il 10 giugno (data della dichiarazione di guerra di Mussolini) fu dunque per me quello che si dice un gran giorno.
Ora però che Hitler si è ammosciato incomincio a perdere la fiducia che avevo riposto nell’Asse per lo strozzamento e l’abbattimento del così detto colosso inglese, cioè per il maggior esponente del capitalismo. Hanno paura di far crollare l’Inghilterra, hanno paura perché sanno che con essa crollerà tutto il sistema capitalista. […] Spero ancora che Hitler non rinunzierà alla lotta, e andrà fino in fondo, sino alle estreme conseguenze».
Poche settimane più tardi, mentre il Führer lasciava intendere a Churchill di voler invadere l’isola britannica, Bordiga pareva invece dubitare della reale volontà della Germania di far pendere l’Inghilterra dalla forca: «Mi rifiuto a credere che Hitler abbia perduto e continui ancora a perdere un tempo così prezioso per sferrare quella che ormai si attende da oltre due mesi, cioè la grande offensiva che dovrebbe piegare l’Inghilterra». Ancora alla fine del 1942, sempre all’orecchio attento di Alliotta, l’ingegnere partenopeo svolgeva le seguenti considerazioni: «I grandi e autentici rivoluzionari del mondo son due: Mussolini e Hitler. Ma il passato di Mussolini dimostra che il Duce è stato sempre contro la plutocrazia e contro le democrazie, che paralizzano la vita delle nazioni».
Bordiga, se temeva per l’indecisione di Hitler, non nutriva invece più alcun dubbio circa la definitiva fuoriuscita della Russia sovietica dal campo comunista. Sotto Stalin, essa era divenuta una potenza a capitalismo di Stato, dunque aveva tradito le sue origini bolsceviche, deviando dal tracciato segnato da Lenin. Ancora nell’aprile del 1943, il fondatore del Pci, poteva dichiarare al fiduciario della Polizia politica: «Stalin, alleandosi con Londra e con Washington, ha tradito la causa del proletariato. Del resto io posso dire di essere in questo d’accordo col Duce, quando egli afferma, come ha fatto nel discorso del novembre ultimo, che, se un uomo c’è che ha voluto diabolicamente la guerra, che l’ha prima preparata e poi suscitata, questo è il presidente americano.
Dal mio punto di vista chiarisco però che Roosevelt non è altro se non l’esponente del supercapitalismo che mira alla conquista di un imperialismo totalitario». Altro punto interessante che emerge dai colloqui di Bordiga con Alliotta, è la convinzione circa la necessità che il regime fascista dovesse correggere il tiro della sua propaganda. A suo avviso, sarebbe stato opportuno che la stampa di Mussolini, e gli altri organi d’indottrinamento della pubblica opinione, illustrassero che la battaglia contro Mosca non era una lotta al comunismo, bensì una guerra contro un sistema, quello staliniano, che aveva deviato dalla strada maestra del marxismo per divenire una variante storica del capitalismo internazionale.
Queste idee ponevano Bordiga sotto una luce particolare: la sua obiettiva vicinanza a un altro grande protagonista degli atti fondativi del Partito comunista, egualmente naufragato tra i proscritti di Togliatti. Ci riferiamo all’infuocato Nicola Bombacci, il Lenin di Romagna, noto per i comuni trascorsi socialisti rivoluzionari con Mussolini. Passato dalla metà degli anni Trenta a servizio della propaganda del regime, col suo periodico fiancheggiatore La Verità, si attestò su posizioni di sinistra corporativa. L’atteggiamento passivo, se non adattivo, di Bordiga nei confronti del fascismo, trova poi un elemento di caratterizzazione che si riscontra raramente nella galleria dei ‘big’ del comunismo: la radicalità antimassonica, che costituisce obiettivamente un punto di contatto con il sostrato culturale del regime mussoliniano.
Nel dopoguerra, il leader napoletano non si ravvederà mai da queste ‘sbandate’ filo-Asse. Nè sarà più riammesso nel Partito comunista, limitandosi a fornire il suo appoggio di ideologo-militante alle forze comuniste- internazionaliste che si articolarono alla sinistra del Pci. Si spense, a Formia, il 25 luglio 1970.