…ma anche canadesi e americani. Ancora oggi è difficile trovare, anche a distanza di decenni, qualche vero pentito per i massacri effettuati durante la Seconda guerra mondiale dai bombardieri alleati. Quando non si esaltano le imprese degli eroici aviatori che hanno raso al suolo intere città, si minimizza oppure si ricorda che, purtroppo, la «guerra è guerra». Fanno eccezione i pochi aviatori che si sono convertiti al cattolicesimo e hanno rinnegato le proprie imprese di guerra. Ecco una piccola guida ragionata ad una particolare forma di «negazionismo» di cui si parla poco anche se riguarda milioni di morti…
di Sebastiano Parisi da Storia in Rete n. 171
Quando nel 2015 il novantaduenne Lawrence Larmer scrisse delle lettere alle varie città tedesche che bombardò nei primi mesi del 1945, mostrando il proprio dispiacere per i tanti uomini, donne e bambini uccisi, fu come se si scoprisse un vaso di pandora che celava un universo di storie mai raccontate e da sempre oscurate dalla propaganda di guerra. Larmer, in forza ad uno Squadron della RAAF (Royal Australian Air Force) aggregato al britannico Comando Bombardieri, sentì quella necessità di mettere a posto la propria coscienza anche se erano passati ben 70 anni da quegli avvenimenti. Non fu l’unico a farlo, ma certamente fu uno dei pochi. Il caso sicuramente più celebre è quello di Leonard Cheshire che, servendo la Gran Bretagna nelle varie fasi dell’offensiva aerea contro la Germania, toccherà l’apice della carriera venendo assegnato al famoso No. 617 Squadron, i «Dambusters», per poi essere presente come osservatore britannico al bombardamento di Nagasaki: fu quella la goccia che fece traboccare il vaso in un processo interiore che lo porterà alla conversione al cattolicesimo, al congedo e a una vita al servizio dei bisognosi con la fondazione della Leonard Cheshire Disability.
La conversione è quasi una costante nei non numerosi casi di pentimento da parte di aviatori britannici che operarono l’area bombing sulle città europee. Consideriamo che l’anglicanesimo era ed è la religione di Stato britannica, al cui capo di è il sovrano; di fatto eseguire un ordine dato dallo Stato significa anche fare la volontà di Dio. È logico allora che chi prese le distanze da quegli ordini, da quel massacro, non poteva allo stesso tempo restare anglicano e così il tumulto interiore portò questi uomini ad abbracciare la Chiesa di Roma. Non fu semplice scegliere la via del pentimento, specie se consideriamo che ancora oggi nei Paesi anglosassoni l’idea generale della Seconda guerra mondiale ed in particolare dei bombardamenti aerei risente fortemente della propaganda di quel periodo, dove generalmente non ci si pone neppure il problema dei civili uccisi da quelle bombe, che spesso si credono rivolte solo agli obiettivi industriali e militari. Se si espone il problema delle vittime innocenti quasi sicuramente ci sentirà rispondere, tra i denti e con un sospiro di circostanza, che «war is hell», cioè la «guerra è un inferno». Sembrerebbe quasi un concetto inattaccabile se però questa frase non venisse utilizzata per chiudere ogni discussione in proposito, pena improbabili e pretestuosi monologhi su chi ha cominciato o chi ha fatto peggio, bloccando qualsiasi tentativo di ragionare sull’altro fronte della memoria, quello di chi stava sotto le bombe. Su queste basi poggia quello che potremmo definire il negazionismo, o talvolta riduzionismo, sul tema dei bombardamenti aerei.
Sia chiaro che questo fenomeno non è proprio dei soli Paesi anglosassoni, ma è ben presente anche in Italia e soprattutto in Germania, paesi dove tutto questo si confonde ovviamente col ricordo della sconfitta. Altra cosa è quindi la memoria dei bombardamenti da parte dei vincitori del conflitto mondiale. Il professore inglese Andrew Knapp, in una pubblicazione per l’Università di Reading del 2016, parla di tre diverse fasi della memoria britannica: la prima, quieta e tranquilla, dalla fine della guerra fino ai primi anni Sessanta, seguita da due decadi di scetticismo fino all’inizio degli anni Ottanta, con infine il raggiungimento della fase di accettazione che dura fino ai giorni nostri. Nel primo dopoguerra gli inglesi tentarono di mostrare il volto eroico dei propri equipaggi al comando dei bombardieri, anche utilizzando i fumetti, come «Commando», «Air Ace» e «Victor», un’opera di propaganda che sfruttava anche il modellismo, con ad esempio i celebri modelli della Airfix, mentre più tardivo fu il proliferare di film e serie TV, con oggetto spesso i famosi Dambusters, i distruttori di dighe che divennero un simbolo del contributo del Comando Bombardieri alla vittoria alleata. L’omonimo film del 1955 («The Dam Busters» di Michael Anderson) deve aver colto nel segno se ancora negli anni Novanta, come ci racconta John Ramsden in una sua recente pubblicazione, delle squadre di calcio tedesche in visita alle controparti britanniche, sono state ripetutamente bersagliate dai tifosi locali sulle note della Dambusters March, divenuta nota proprio grazie a quell’opera cinematografica. A onor del vero, bisogna ricordare che gli inglesi sono stati però gli unici tra i popoli anglosassoni coinvolti nel conflitto ad aver subìto bombardamenti aerei di elevata intensità da parte dei tedeschi, con molte decine di migliaia di vittime umane e grandi distruzioni. Nonostante la grande sproporzione tra gli attacchi subiti e la risposta data sul suolo tedesco, in Inghilterra prevale comunque ancora un certo astio che si basa sulla memoria popolare delle conseguenze patite per i bombardamenti aerei nazionalsocialisti.
A partire dal 1961, ci dice sempre il professor Knapp, cioè quando, superata la prima fase di quiete, venne quella dello scetticismo in merito ai bombardamenti sull’Europa, non nacque una, ma ben due storie ufficiali britanniche su questo tema: una critica e una favorevole al maresciallo Artur Harris, il comandante-stratega dei bombardamenti inglesi sulla Germania e sull’Italia. Le polemiche non sono state sufficienti a gettare le basi per una vera rimessa in discussione dell’intero operato del Comando Bombardieri, ma al contrario sembra invece che a lungo andare abbia avuto maggior successo la protezione della versione dei fatti più vicina alla propaganda di guerra. Sia d’esempio quanto accaduto in Canada nel gennaio 1992, quando la televisione pubblica CBC mandò in onda un documentario dal nome «The Valour and the Horror»: già il titolo fa comprendere il doppio filone seguito dalla serie, strutturata su più episodi, dove su una stessa medaglia convivono due facce moralmente opposte, ma in realtà legate in maniera indissolubile. I veterani nel documentario sono presentati come vittime dello stesso Harris, di cui eseguono gli ordini – definiti immorali – che prevedono l’assassinio della popolazione tedesca. I veterani sono in definitiva definiti come criminali di guerra, seppur colpevoli solo di aver fatto quanto loro ordinato. Una versione dei fatti di questo tipo fu considerato qualcosa di fin troppo rivoluzionario e ben presto la serie fu oggetto di attacchi d’ogni genere. Intervenne il Senato del Canada, che prese le parti dei veterani e, manco a dirlo, nella successiva citazione in giudizio per diffamazione nei confronti degli autori del progetto, i giudici assunsero una prospettiva «patriottica», che mise fine ad ogni speranza di una revisione critica dell’operato delle forze aeree alleate. La propaganda aveva vinto ancora e due anni dopo, nel 1994, uscì, guarda caso, la storia ufficiale della Royal Canadian Air Force, «appena» 33 anni dopo che era stata pubblicata quella britannica. L’opera di apologia della storia ufficiale proseguì ancora con l’inizio degli anni 2000 ed infine si raggiunse un punto di incontro quando al The Canadian War Museum di Ottawa, in occasione del suo spostamento in una nuova sede nel 2005, nella galleria dedicata ai bombardamenti vennero posizionati dei pannelli esplicativi che analizzano anche agli effetti di quei raid, con foto dei danni e dei morti civili.
Una soluzione simile è stata adottata anche in Inghilterra all’International Bomber Command Centre di Lincoln. Superata la fase critica degli anni del dopoguerra, dove ai 57.871 aviatori del Comando Bombardieri caduti non erano tributati grandi omaggi, come allo stesso Harris, finito in disgrazia, gli inglesi ruppero definitivamente col passato nel 2018, creando un memoriale per i caduti, inesistente fino ad allora e un museo moderno dove si cerca di affrontare l’argomento da entrambi i punti di vista, quindi non solo quello britannico, ma anche con la prospettiva di italiani e tedeschi, cioè di chi stava sotto quelle bombe. Tuttavia ancora oggi il tema dei bombardamenti mantiene un carattere ambiguo e qualche anno fa grandi sforzi furono fatti da ricercatori fedeli alla storia ufficiale, per trovare tardive giustificazioni al bombardamento di Dresda, che fu, nella storia dei raid aerei, un vero giro di boa per l’opinione pubblica alleata e mondiale.
Chi forse non ha fatto ancora i conti col passato sono stati invece gli americani che, assai distanti dai Paesi dell’Asse, non dovettero subire le conseguenze della guerra sul proprio territorio. Questa circostanza ha plasmato più di quanto si possa credere non solo la memoria dei bombardamenti aerei, ma anche e soprattutto la geopolitica americana. Non è un caso se nei film di Hollywood il catastrofismo regna padrone, con immancabili scene di glaciazioni, inondazioni, eruzioni vulcaniche, guerre nucleari, invasioni aliene e altro ancora, con l’immancabile Statua della Libertà o il Campidoglio finire in pezzi. Al contrario in Europa, come in Asia e probabilmente in qualunque altra parte del mondo, quelle scene di morte causate dalla guerra sono vive nella memoria dei testimoni dell’epoca e spesso tramandate alle nuove generazioni, creando un certo pudore nel riportarle su pellicole o attraverso storie inventate. Invece gli americani, come l’attacco alle Torri Gemelle o il bombardamento di Pearl Harbour ben dimostrano, soffrono di una sorta di fobia del «sentirsi sotto attacco», anche se nei fatti quasi mai lo sono stati dopo la fine delle guerre coloniali con l’Inghilterra. Nella cultura di massa d’oltreoceano manca quindi una visione realistica dei bombardamenti aerei americani, come pure dei mitragliamenti portati dai caccia sulle nostre campagne, facendo stragi di civili.
A seguito della tempesta di fuoco su Tōkyō, che provocò circa 100 mila morti, il generale Curtiss LeMay disse a Robert MacNamara: «Se perdiamo la guerra, saremo perseguiti come criminali di guerra», questo rispose che «[…] Quel che fai di immorale se perdi, non è immorale se vinci». Aveva ragione, e i fatti avrebbero confermato e lo fanno tutt’oggi, quanto sia difficile analizzare secondo schemi razionali queste tematiche, senza sentire le solite contestazioni della storia ufficiale. Eppure la memorialistica americana sui bombardamenti aerei della Seconda guerra mondiale è vastissima, praticamente ogni Bomb Group ha la sua associazione, con membri disponibilissimi a condividere le storie dei propri padri e ad approfondire e studiare. Eppure il tutto si esaurisce nello sforzo, certamente pregevole, di mantenere e tramandare la memoria dei veterani, una memoria che però ignora del tutto gli effetti di quei bombardamenti. Già nel 1944 però, anche l’America non poteva dirsi non informata di quanto stava accadendo in Europa. Certo, gli articoli sul «New York Times» della scrittrice e pacifista inglese Vera Brittain furono molto critici del metodo del bombardamento a tappeto attuata dai suoi connazionali, ma a qualcuno venne il dubbio che anche gli americani stessero partecipando al «terror bombing», cioè che il tanto conclamato «bombardamento di precisione» vantato da Washington fosse in realtà tale solo a parole e quindi immorale tanto quanto quello degli alleati inglesi. Fu il sacerdote gesuita John Ford ad esporsi in tal senso, partorendo un concetto che sarebbe rimasto inattaccabile anche alle pronte risposte dei vertici dell’aviazione e dei media: «I bombardamenti di precisione hanno un doppio effetto: il primo positivo, si ottiene mirando alle installazioni militari, industrie legate allo sforzo bellico, comunicazioni utilizzate dal nemico; il secondo, negativo, vede il ferimento e l’uccisione di civili e la distruzione delle loro proprietà. […] È impossibile adottare una strategia che preveda di colpire determinati bersagli senza avere l’intendo preciso di violare i diritti dei civili innocenti, questo intento è quindi gravemente immorale».
Consideriamo poi che ogni bombardamento americano convenzionale, tranne forse quello di Tōkyō e pochi altri in Giappone, è stato del tutto oscurato dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. La memoria americana sui bombardamenti si è quindi catalizzata su Hiroshima, ma se analizziamo in maniera precisa il fenomeno scopriamo che gli oppositori dell’atomica sono stati nel dopoguerra soprattutto i pacifisti, in un contesto dove la Guerra Fredda rischiava di degenerare in un nuovo conflitto mondiale guerreggiato. In questo senso Hiroshima era ancora attualissima e denunciava quanto poteva accadere da un momento all’altro se la politica avesse fallito. Allo stesso tempo mancava però quello spirito critico che denunciasse invece la tragedia in quanto tale. Ancora oggi nessun presidente americano ha chiesto scusa per i bombardamenti nucleari del Giappone, anche se nel 2016, con la visita di Obama nel Paese del Sol Levante, per un momento vi fu la speranza che quel gesto quasi impossibile avvenisse. Non accadde, seppur per la prima volta un presidente americano in carica visitava una delle due città nuclearizzate, Hiroshima, e rendeva omaggio alle vittime. Fuori discussione anche ogni scusa per Dresda da parte della famiglia reale britannica. Nel 2004 la Regina Elisabetta II si recò a Berlino, dove si tenne un concerto benefico a favore della ricostruzione della Frauenkirche di Dresda, che per 45 anni dopo il bombardamento era rimasta solo un mucchio di ruderi. Nonostante il clima di riconciliazione, non si arrivò minimamente ad un gesto di pentimento.
Una svolta potrebbe venire invece dall’Italia, un Paese che dalla fine dell’ultima guerra mondiale, si è legato in maniera strettissima con gli Stati Uniti. Il 20 ottobre 2019, in occasione dell’anniversario del bombardamento di Gorla, dove morirono sotto le bombe americane 184 bambini che si trovavano in quel momento nella scuola Francesco Crispi, il sindaco di Milano Giuseppe Sala, partecipando alla commemorazione dei piccoli martiri, ha tenuto un discorso a dir poco sorprendente, che ha rotto un immobilismo politico praticamente settantennale sulla vicenda. Sala, riprendendo un’annosa battaglia dei parenti delle vittime del bombardamento, ha richiesto in maniera esplicita che il governo degli Stati Uniti facesse le proprie scuse ufficiali per quella terribile tragedia. Per la prima volta da quel 20 ottobre 1944 gli Stati Uniti hanno così preso posizione sulla questione e qualche giorno dopo la console americana a Milano Elizabeth Lee Martinez ha risposto con una lettera al sindaco, esprimendo «le nostre condoglianze alle famiglie delle vittime di questa infausta e terribile tragedia occorsa durante la guerra». Sicuramente un risultato notevole e finora inedito, che può far ben sperare in una progressiva presa di coscienza da parte dei Paesi anglosassoni di cosa siano stati davvero i bombardamenti in Europa e Asia, oltre i limiti di una propaganda di guerra che, nostro malgrado, pesa ancora sulle nostre spalle.