di Vittorio Messori dal Corriere della Sera del 25 settembre 2010
Per chi ama l’arte e la storia è un evento felice la riapertura del romano palazzo Barberini, non soltanto restaurato ma anche reso accessibile negli splendidi locali occupati per decenni dal Circolo Ufficiali. Succede, però, che nei molti articoli e servizi televisivi, non si sia solo parlato dell’illustre edificio ma anche del più illustre tempio giuntoci quasi intatto dall’antichità: il Pantheon. C’è infatti una tenace convinzione – non soltanto popolare, ma accolta pure dalle guide turistiche e dai libri d’arte– secondo cui la Chiesa non avrebbero esitato a sfigurare quel simbolo dell’antichità che, alla fine dell’Impero, aveva trasformato in chiesa cristiana senza quasi manometterlo.
Poiché autore del misfatto sarebbe stato Maffeo Barberini, papa con il nome di Urbano VIII, molti giornalisti, annunciando lo splendore rinnovato del palazzo della sua famiglia, hanno ricordato la presunta pasquinata Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini. Dico presunta, perché la battuta non venne dalla gente –che invece, come vedremo, applaudì entusiasta- bensì dagli avversari politici di un pontefice avversato via via dalla Francia di Richelieu, dalla Spagna del Conte Duca, dagli Asburgo di Vienna e sul quale, dunque, si avventarono le propagande contrapposte. Un papa, comunque, il Barberini, dalle altissime benemerenze artistiche. Si deve al suo gusto e alla sua intuizione, tra l’altro, la scoperta e il lancio in tutta Europa di Gian Lorenzo Bernini, che diede anche una svolta decisiva ai lavori del palazzo principesco di cui Roma si è oggi riappropriata. Ebbene, di quale “barbarie“ è accusato questo pontefice, grande mecenate? Il misfatto di avere asportato e fatto fondere le travi di bronzo che, dal II secolo, reggevano il pronao, il portico di entrata al Pantheon.
Come accennavamo, anche molti storici ignorano che (al contrario di quanto dice la falsa pasquinata) tutti i contemporanei di papa Barberini non solo non si scandalizzarono ma lodarono ed ascrissero a sua gloria la decisione. In effetti, spinto dal desiderio di abbellire Roma e, con essa, la Chiesa, Urbano VIII diede l’impulso finale al cantiere di San Pietro, aperto ormai da quasi due secoli. Per l’altar maggiore occorreva un “segno“ grandioso che indicasse il sito della sepoltura di Pietro e che, al contempo, non precludesse la vista dell’abside. Naturalmente, a risolvere il problema fu convocato il prediletto Bernini. Questi fece la geniale proposta che ancora ammiriamo: quattro enormi colonne tortili sormontate da un baldacchino. Il tutto in bronzo e alto come un palazzo di dieci piani. Il pontefice ne fu entusiasta: ma come procurarsi una simile quantità di metallo? Il denaro non mancava (l’opera costò 200.00 scudi) ma c’era gran difficoltà a procurarsi il bronzo, riservato dagli Stati alla costruzione di cannoni e di cui Venezia, ad esempio, limitava l’esportazione. Ed eccoci allora all’episodio fatidico. Fu Bernini stesso che comunicò a Urbano VIII una sua scoperta: da giovane, quando, su impulso del papa, si impratichiva in architettura, aveva studiato la struttura del Pantheon, scoprendo che, per reggere il portico, i romani avevano usati non travi di legno, come d’uso, ma di bronzo. Una sorta di “megalomania imperiale”,come si disse: si trattava, infatti, di elementi scarsamente visibili, posti molto in alto in un ambiente oscuro. Fu così che si procedette allo smontaggio, mettendo solidissima quercia di Slavonia, che ha retto benissimo per secoli, al posto del bronzo. Il ricavato fu tanto abbondante che col metallo non soltanto si costruì il gigantesco baldacchino di San Pietro ma si poterono fondere anche 80 cannoni per Castel Sant’Angelo.
Scrive il più illustre degli storici moderni del papato, il barone Ludwig von Pastor che per primo, ebbe accesso agli archivi segreti vaticani: “La battuta troppo spesso ripetuta – Quod non fecerunt barbari…– è profondamente ingiusta: non si trattò della fusione di un’opera d’arte, ma solo della sostituzione di una struttura tecnica ben poco visibile e senza alcuna decorazione. Non si può parlare di un atto vandalico ma , anzi , della possibilità di fornire a uno dei maggiori artisti della storia la materia prima per un capolavoro. Senza quel bronzo seminascosto sotto il tetto , Bernini avrebbe dovuto rinunciare al suo progetto o ridimensionarlo. I contemporanei, in coro, esaltarono l’opera, che fu subito imitata nell’intera Europa: epigrammi, sonetti, poemi piovvero sull’artefice del prodigio e sul suo generoso mecenate“. I rallegramenti a Urbano VIII, e con lui a Bernini, insistevano sulla geniale trovata di “usare un materiale invisibile per erigere il più visibile altare della cristianità“.
E‘ comunque curioso come molti storici, che ripetono la presunta pasquinata, dimentichino di ricordare che sia successo quando, alla fine del Settecento, Roma fu strappata ai papi dalle orde di saccheggiatori guidati dal giovane Bonaparte. Le opere d’arte trasferite a Parigi o vendute al miglior offerente, lo stesso Archivio Segreto portato in Francia (e metà andò distrutto), chiese e conventi confiscati, devastati, trasformati in stalle e caserme, le biblioteche disperse o bruciate. E questo non solo a Roma, ma nell’Italia intera. Lo stesso abbé Gregoire, il prete giacobino, coniò per i suoi compagni rivoluzionari un neologismo: “vandalismo“. Insomma, è giustizia storica riconoscerlo: non è su papa Barberini che si allunga l’ombra della “barbarie”.