«Il processo ai Chicago 7, di Aaron Sorkin, è un film piuttosto importante, del quale consiglio la visione. Disponibile su Netflix e proiettato in diverse sale cinematografiche (nonostante il Covid) è uno splendido esempio di come il cinema possa essere usato come strumento per la Rivoluzione contro il Logos.».
di Roberto Marchesini da La Nuova Bussola quotidiana del 2 novembre 2020
Il processo ai Chicago 7, di Aaron Sorkin, è un film piuttosto importante, del quale consiglio la visione. Disponibile su Netflix e proiettato in diverse sale cinematografiche (nonostante il Covid) è uno splendido esempio di come il cinema possa essere usato come strumento per la Rivoluzione contro il Logos. Difficile assistere alla visione e non parteggiare per i protagonisti, i «Chicago 7»; altrettanto difficile non collegare quanto si vede nella pellicola ai disordini del BLM; e alle prossime, ormai imminenti, elezioni presidenziali USA.
Si tratta di uno splendido e avvincente legal-thriller, con un cast eccezionale, sul processo che ha visto come imputati alcuni protagonisti delle manifestazioni in occasione della convention del Partito Democratico celebrata a Chicago alla fine dell’agosto 1968. Non sto a farla lunga sugli eventi, ai quali è stata dedicata anche una canzone. È straordinario, tuttavia, che quell’episodio diventi, grazie a questo film, uno scontro epico tra il bene e il male. Con gli imputati, ovviamente, dalla parte del bene.
Tra i protagonisti spiccano i due rivoluzionari professionisti Abbie Hoffman (un Sacha Baron Cohen che, sostanzialmente, interpreta se stesso) e Jerry Rubin (Jeremy Strong). Hoffman, psicologo, fu co-fondatore dello Youth International Party (YIP), il Partito Internazionale della Gioventù, i cui aderenti presero il nome di yippies. Hoffman, con la sua camicia a stelle e strisce, negli USA è una vera icona degli anni Sessanta. Compare, infatti, interpretato da se stesso nel film di Oliver Stone, Nato il 4 luglio (1989); e, interpretato da un attore, in Forrest Gump (1994). Morì nel 1989 per overdose di barbiturici. Jerry Rubin crebbe in Israele; tornato negli USA cominciò la sua carriera di ricoluzionario professionista. Co-fondatore dello YIP, fu uno studioso dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare delle teorie di Marshall McLuhan. Negli anni Settanta fu tra i finanziatore della Apple; diventato milionario, teorizzò l’ultraliberismo come prosecuzione della rivoluzione yippie («La creazione di ricchezza è la vera rivoluzione americana»). È considerato il fondatore del movimento degli yuppies, gli young urban professional (giovani professionisti urbani). Pentimento? Conversione? Tradimento? No di certo: si tratta, piuttosto, della stessa parabola seguita da Michael Foucault e altri rivoluzionari degli anni Sessanta. Tra questi, padre Robert Sirico. A proposito: tra i protagonisti del film c’è anche il suo amico Tom Hayden (interpretato da Eddie Redmaine), in seguito marito di Jane Fonda.
Tornando al film, è evidente come questa pellicola sia un vero e proprio manuale rivoluzionario. Gli atteggiamenti pagliacceschi di Hoffman e Rubin (realmente manifestati durante il processo) non erano altro che l’applicazione delle teoria di McLuhan: stravaganza e provocazione non avrebbero avuto altro effetto che dare una pubblicità enorme alla causa dei manifestanti. E qual era la loro causa? Lo spiega bene un dialogo tra Hoffman e Hayden che, praticamente, dura per tutto il film. Inizia dopo circa venti minuti, quando ascoltiamo queste parole. Hoffman: “La Rivoluzione è così. La vera Rivoluzione. La Rivoluzione culturale». Hayden: «Ragazzi, prima che vi leghiate a quest’uomo, sappiate che l’ultima cosa che vuole è che la guerra finisca. Io non ho tempo per la Rivoluzione culturale. Distrae dalla vera rivoluzione».
Poi, verso al fine del film, il dialogo prosegue.
Hoffman: «Che vuol dire che l’ultima cosa che voglio è fermare la guerra?»
Hayden: «Volevo dire che stavi sfruttando i tuoi primi piani. Niente più guerra, niente più Abbey Hoffman. Per i prossimi cinquant’anni, quando la gente penserà ad una politica progressista, penserà a te, si ricorderà di te e dei tuoi seguaci idioti che regalano margherite ai soldati e cercano di far levitare il Pentagono. Quindi non penserà a uguaglianza o a giustizia. Non penserà a istruzione, a povertà o a progresso. Penserà a un mucchio di fattoni persi, irrispettosi e sboccati, a dei falliti senza regole. E così, perderemo le elezioni».
Hoffman: «E vincere le elezioni è la prima cosa sulla tua lista. Uguaglianza, giustizia, istruzione, povertà e progresso sono secondi».
Hayden: «Se non vinci le elezioni, non importa cosa viene per secondo. Ed è incredibile, per me, che qualcuno debba ancora spiegartelo».
Hoffman: «Noi non abbiamo fondi. Noi non abbiamo soldi. Quindi io salgo sul palcoscenico e arrivano telecamere e microfoni. Ed è incredibile anche per me che qualcuno debba ancora spiegartelo. […] Noi non andiamo in galera per quello che abbiamo fatto. Noi andiamo in galera per quello che siamo. Pensaci, la prossima volta che minimizzi la Rivoluzione culturale».
Riassumo: Hayden pensa alle foglie, Hoffman alle radici. Hayden alla politica, Hoffman alla pre-politica. Hayden ha obiettivi concreti e a breve termine; Hoffman vuole cambiare il pensiero. Hayden pensa ai contenuti, Hoffman alla cornice. Hoffman (con Rubin) ha studiato la psicologia delle masse e la comunicazione: sa che «il mezzo è il messaggio» (McLuhan) e che la cornice è più importante del contenuto. Sa che, se cambia il pensiero della gente, gli obiettivi di Hayden verranno a cascata, come conseguenza. Così ragionano i rivoluzionari professionisti. Grande film. Mi ricorda un altro manuale cinematografico del perfetto rivoluzionario: La banda Baader Mainhof (2008). Ma, magari, ne parleremo una prossima volta.