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Archivio: La guerra segreta tra la Francia di De Gaulle e gli Usa

Per farsi la guerra non c’è bisogno di spararsi, soprattutto se ufficialmente si sta dalla stessa parte. Oppure: non è sufficiente stare dalla stessa parte per andare d’amore e d’accordo. Su questo apparente paradosso che è alla base della politica degli Stati, uno storico francese ha basato un suo libro: si chiama Vincent Jauvert e ha scritto «L’Amerique contre De Gaulle. Histoire secrète 1961-1969», pubblicato a ottobre 2000 da Seuil. Grazie a documenti recentemente declassificati dagli Stati Uniti, Jauvert ha potuto così ricostruire i tormentati rapporti tra Washington e Parigi durante la presidenza di De Gaulle, deciso a limitare in tutti i modi la presenza e l’influenza americana sull’Europa in piena guerra fredda. Dall’uscita dalla Nato (per i francesi Otan) al riconoscimento della Cina comunista, dalla creazione della “Force de frappe” cioè la potenza nucleare francese ai flirt con Mosca. Aiutati da “talpe” francesi, i servizi segreti e la diplomazia Usa seguirono passo passo l’evolversi della situazione, condizionata dagli instabili umori dell’inquilino dell’Eliseo, durante ben tre presidenze: Kennedy, Johnson e Nixon.

In realtà i rapporti tesi tra De Gaulle, notoriamente convinto di essere l’unico interprete della Francia, e americani erano nati già durante la seconda guerra mondiale come ben sapeva, con il suoi collaboratori, il generale Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-franco-canadesi-americane in Europa durante la seconda guerra mondiale e poi presidente degli Stati Uniti per otto anni tra il 1952 e il 1959. Pochi giorni dopo lo sbarco in Normandia, giugno 1944, a margine di un vertice militare alleato a Londra, l’ammiraglio americano Leahy annotò sul suo diario: «A dire gli sforzi pertinaci del generale De Gaulle per obbligarci a imporlo al popolo francese sono stati un continuo assillo, e molte delle sue azioni, come la rimozione del generale Giraud dal comando delle forze armate, hanno influito negativamente sul nostro sforzo militare». Poco più di una battuta ma tale da giustificare un libro o, almeno un lungo saggio, per i quali, in queste pagine, manca solo lo spazio non certo gli argomenti o il materiale.

De Gaulle rimase comunque un assillo per Washington, non meno di quanto lo era stato soprattutto per Londra e Churchill (i due si detestavano) anche in seguito, come documenta il libro di Vincent Jauvert. In base al quale si può fissare una sorta di cronologia della crisi permanente Washington-Parigi.

Un possibile inizio è quello dell’aprile 1962 in cui l’amministrazione Kennedy dovette decidere se dare un supporto tecnico ai francesi che stavano mettendo a punto – con grandi difficoltà, pare – la loro prima bomba atomica. Kennedy, sentite le varie ragioni, disse no. Aveva ancora bene in testa il contenuto di un «dossier De Gaulle» che l’anno prima gli aveva confezionato il suo consigliere Arthur Schlesinger, ascoltando opinioni e battute di influenti politici francesi, tra cui l’ex premier socialista Pierre Mendés France: «Non dimenticate che c’è un fondo di follia nei De Gaulle – aveva detto ad esempio Mendés France – Lui mi ha detto una volta: “Ho due fratelli. Uno è pazzo e lo si è ricoverato. L’altro è normale. Io sono tra i due». E ancora: «Per De Gaulle ci sono due categorie di Nazioni: quelle superiori, che hanno armi nucleari, e le inferiori, che ne sono sprovviste». Mendés France non aveva aggiunto la cosa più importante: De Gaulle non amava gli anglosassoni, cosa del resto di tutta evidenza visto che il segretario di Stato di Kennedy, Dean Rusk, per convincere il suo presidente aveva elencato almeno cinque buone ragioni per cui non era il caso di dare una mano ai francesi in tema di atomica. La quinta ragione era questa: «Perché aiutare un uomo che non ha che un obbiettivo: ridurre la nostra influenza in Europa?». Aveva ragione tanto è vero che De Gaulle fece di tutto per confermargli le proprie impressioni.

Nel marzo 1965, De Gaulle scrisse una lettera al successore di Kennedy, Lyndon Johnson per comunicargli, a freddo, che «la Francia si propone di riprendere sul proprio territorio l’intero esercizio della propria sovranità, attualmente limitata dalla presenza permanente di reparti militari alleati». Inoltre, Parigi annunciava di «non mettere più a disposizione dell’Organizazione atlantica proprie forze». Era l’uscita della Francia dalla Nato. Una scelta cui Washington era preparata, grazie ai suoi sistemi d’informazione che l’avevano preavvertita dei propositi di De Gaulle, il quale, pochi mesi prima, aveva commissionato al ministero degli Esteri francese la compilazione di un dossier dall’inequivocabile titolo: «L’occupazione americana in Francia».

Da buon lottatore, il presidente francese sapeva che i cazzotti non vanno dati singolarmente ma combinati tra loro. In quelle stesse settimane infatti arrivò l’annuncio che il feroce anticomunista De Gaulle stava per riconoscere ufficialmente la Cina comunista di Mao. Un diplomatico Usa scrive a Johnson in quei giorni: «La ragione di questo gesto deve stare nella strana psicologia di De Gaulle». E la diplomazia statunitense cerca contromosse: Pechino non accetta rapporti diplomatici con nazioni che contemporaneamente abbiano relazioni con la Cina nazionalista di Chang Kai Chek. Da qui la pressioni, anche brutali, perché Taiwan faccia finta di niente e accetti di mantenere rapporti con Parigi: così facendo De Gaulle si troverebbe nella necessità di scegliere tra una delle due Cine. Ma il piano di Washington non tiene conto dell’emotività del vecchio maresciallo nazionalista che dopo qualche settimana di tentennamento, alla fine rompe lui i rapporti con Parigi, togliendo così le castagne dal fuoco a De Gaulle.

Un De Gaulle che, instancabile, sembra non avesse altro scopo che mettere in difficoltà gli americani. Come quando, nel 1964, contava di sfruttare un viaggio ufficiale in Messico per aumentare la presenza francese in America Latina: «Una presenza accresciuta della Francia in questa regione potrebbe indurre l’America a riorientare la propria politica estera verso la sua “sfera naturale d’influenza”» e quindi allontanarsi dall’Europa, scrisse la CIA in un rapporto segreto. E quando si venne a sapere che De Gaulle trattava con Mosca per farle abbandonare Berlino, riuinificare la Germania e accelerare così la partenza degli americani dall’Europa, nessuno a Washington si sorprese. Piuttosto si accelerarono i programmi di spionaggio e controspionaggio ai danni della Francia. Ad esempio partì l’operazione “Skin Diver” che prevedeva la raccolta di particelle nell’atmosfera dopo gli esperimenti nucleari francesi per capire il livello di perfezionamento della ricerca atomica  di Parigi. I risultati, dal punto di vista di Washington, furono tranquillizzanti: «I dati raccolti idnicano che le bombe erano grossolane, suggeriscono che passerà ancora molto tempo prima che i francesi possano dotare i propri missili sotto-marini e intercontinentali di testate termonucleari».

Insomma, una politica estera senza armi di supporto poteva essere fastidiosa ma non pericolosa per Washington. Dove, comunque, si tirò un sospiro di sollievo quando De Gaulle, sconfitto al referendum dell’aprile 1969, si dimise. Ad ogni modo, per salvare la forma, il segretario di Stato William Rogers, telegrafò a tutte le rappresentanze diplomatiche americane, dando disposizioni che la notizia delle dimissioni di De Gaulle «non deve – ripeto: non deve – essere l’occasione di qualsiasi manifestazione di soddisfazione».

(Ottobre 2000)

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