Il giornale online israeliano Ynetnews.com ha diffuso – attraverso la penna dell’italiano Giulio Meotti – l’allarme dell’archeologo Gabriel Barkai: secondo Barkai i colleghi palestinesi (aiutati da studiosi stranieri, in particolare italiani) stanno conducendo una vera e propria “intifada culturale” per sostenere con gli scavi archeologici le ragioni palestinesi.
L’Autorità Nazionale Palestinese ha già chiesto all’UNESCO di inserire fra i siti protetti come Patrimonio dell’Umanità i Luoghi Sacri di Betlemme, ma anche altri venti località fra cui Hebron e Nablus attraverso Hamdan Taha, il ministro palestinese della Cultura. In un articolo pubblicato su National Geografic lo scorso gennaio Taha ha dichiarato che “la Palestina va dal mare al Giordano” facendo balzare sulle sedie i colleghi ebraici, che hanno visto in questa dichiarazione “un colpo all’esistenza di Israele”.
La richiesta all’UNESCO di Taha è sostenuta dall’autorità del Vaticano per il Luoghi Sacri, dalla Chiesa Ortodossa di rito greco e da quella di rito armeno. Taha si è laureato a Berlino, è stato allievo di Paolo Matthiae, l’italiano scopritore di Ebla, ed ha lavorato ad Hebron con un altro italiano, Michele Piccirillo, un frate francescano. Con lo Studium Biblicum Franciscanum, Taha ha rapporti molto stretti. Nel momento in cui le Nazioni Unite sono vicine alla concessione dello status di nazione indipendente alla Palestina, le questioni archeologiche diventano altresì questioni di Stato. Al momento Taha sta facendo portare avanti una decina di scavi attorno Nablus, finanziati anche da fondi delle nazioni europee. Di recente, un suo articolo – intitolato “Jerusalem, a City Crying Out for Justice” – sul sito ufficiale dell’Autorità Palestinese ha affermato che non vi sono evidenze archeologiche della presenza di templi ebraici in quegli scavi. Secondo Ynetnews, “Taha sta brigando per cancellare ogni presenza ebraica dalla Terra Santa. Taha ha affermato che la Bibbia è una “narrazione mitologica”, l’archeologia israeliana è “eurocentrica” e conduce a “confische di terre nel nome di Dio e dell’archeologia che hanno radici imperialiste”.
Il revisionismo dell’archeologia palestinese sta infatti mettendo in dubbio alcune scoperte israeliane: è aperto il dibattito attorno alla cosiddetta “Tomba di Giuseppe”, per gli ebrei un luogo sacro dove è stato sepolto il personaggio biblico al ritorno dopo la cattività in Egitto, per i palestinesi la molto più recente sepoltura di Yusuf Dukat, uno sceicco morto appena un secolo e mezzo fa. Quando il presidente israeliano Nethanyau dichiarò che due luoghi archeologici identificati come la Tomba di Rachele a Betlemme e la Tomba dei Patriarchi ad Hebron sarebbero stati messi sotto protezione israeliana, Taha ha reagito duramente, definendo l’identificazione dei luoghi coi personaggi biblici “artificiale” e “un furto”. Anche il sito di Shiloh, capitale ebraica per 4 secoli, nella quale la tradizione vuole che fu custodito il Tabernacolo, è stato contestato da Taha: “A Shiloh i coloni pretendono d’aver trovato il Tabernacolo, ma quelli sono capaci di ripescare un osso di pollo mangiato da mio padre 50 anni fa e dichiarare che si tratta di un vitello sacrificale degli Antichi”. Lo scorso anno, il 21 ottobre, l’UNESCO riconobbe formalmente che la cosiddetta Tomba di Rachele doveva essere invece la moschea di Bilal ibn Rabah.
Secondo Barkai, questo revisionismo palestinese è peggio del negazionismo dell’Olocausto.