Essere fieri del proprio Paese aiuta a vivere meglio. Secondo uno studio della University of Illinois di Urbana-Champaign, i cittadini patriottici sono mediamente più felici degli altri: il nazionalismo, spiegano gli studiosi, è un fenomeno che interessa in particolare i cittadini dei Paesi poveri che, paradossalmente, vivono meglio proprio grazie a un senso di appartenenza e partecipazione che li rende più forti, propositivi e pronti ad affrontare le difficoltà.
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di Sara Ficoccelli da Repubblica del 27 febbraio 2011
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Indipendentemente da come sia organizzato un Paese e da quanto meritata sia la stima e la fiducia che i cittadini ripongono nelle sue istituzioni, secondo lo studio pubblicato su Psychological Science andare fieri del posto in cui si vive fa bene al cervello ed è una delle chiavi della felicità di un popolo. La conclusione arriva da un sondaggio sull’indice di soddisfazione personale e collettivo condotto su 1000 persone in 128 Paesi diversi che ha permesso al ricercatore di psicologia Mike Morrison e ai colleghi Louis Tay ed Ed Diener di raccogliere e confrontare 130mila risposte. Gli studiosi hanno notato che il link tra patriottismo e felicità è più stretto nei Paesi poveri e dell’est del mondo, dove chi vive con difficoltà è portato a cercare nell’identità comune un conforto ai disagi personali.
“Generalmente – spiega Morrison – chi vive in condizioni di indigenza è portato, per rivalsa, a rifugiarsi nel patriottismo, cercando nel senso di appartenenza quel riscatto che manca a livello individuale”. Questo meccanismo, precisa l’esperto, fa sì che non sempre il tasso di benessere di una nazione corrisponda al livello di felicità dei suoi cittadini. L’individualismo delle più ricche crea infatti un senso di scollamento e rancore nei confronti delle istituzioni che abbassa il livello medio di felicità e soddisfazione personale. “Nei Paesi occidentali – continua Morrison – il concetto di benessere è associato a fattori personali come lo stato di salute o il lavoro. In quelli poveri è dato dal senso di fiera appartenenza alla collettività”.
I risultati della ricerca americana corrispondono a quelli di altri studi condotti finora sul rapporto tra patriottismo e benessere psicologico. Due anni fa l’Happy planet index, l’indice di felicità mondiale, aveva ad esempio collocato l’Estonia all’ultimo posto in Europa e la ragione del risultato era l’assenza di coesione sociale. Secondo la ricerca, gli estoni si sentono a loro agio solo tra amici, mentre nei confronti del resto del mondo mantengono un atteggiamento sospettoso.
Facendo un passo indietro, già il filosofo ed economista John Stuart Mill scriveva che la felicità non si raggiunge se la cerchiamo ma solo indirettamente, dedicando la vita a una missione culturale, artistica o alla cura di altre persone. Sentendosi parte di una comunità. E un altro filosofo ed economista, lo scozzese Adam Smith, diceva che si diventa felici solo quando ci si cura del benessere altrui. Entrambi sottolineavano, quindi, che la soddisfazione di vita deriva da una prassi e non dall’autoimposizione di uno stato d’animo.
“Esistono due meccanismi psicologici importantissimi che, al di là delle nostre azioni concrete, incidono sulla felicità: – spiega Leonardo Becchetti, docente di Economia presso l’università di Roma Tor Vergata e autore di Il denaro fa la felicità? (Laterza, 2007, 143 pp.) e Felicità sostenibile (Donzelli, 2005, 240 pp.) – il confronto con gli altri e il rapporto tra realizzazioni ed aspettative. Nel primo caso è fonte di infelicità confrontare le proprie realizzazioni con un gruppo di riferimento che sta meglio di noi; nel secondo è fonte di infelicità avere aspettative più alte rispetto alle realizzazioni”.
Per spiegare meglio il concetto, l’economista ricorda una diatriba di qualche anno fa tra economisti e sociologi sul tema della disoccupazione: secondo i primi, era meglio rimanere disoccupati in una città come Treviso, perché in nord Italia è più facile trovare lavoro, mentre secondo i sociologi era meglio rimanerlo al sud, perché essere circondati da altri disoccupati avrebbe attutito il senso di emarginazione. Uno studio recente condotto in Inghilterra ha dato ragione ai sociologi, dimostrando che i disoccupati sono più felici non se circondati da opportunità di lavoro, ma da persone che si trovano nella loro stessa situazione, con cui poter condividere il senso di appartenenza a una comunità.