Quasi un secolo e mezzo è passato dall’uscita de “Il Capitale”, di Karl Marx e Friedrich Engels. Cosa resta oggi di tutto il portato filosofico e sociale di quest’opera? E’ un testo ancora fruibile, rispetto alle mutate esigenze della società dei consumi di massa a noi contemporanea? La lotta di classe deve intendersi solamente in senso economico? Sono domande difficili e per rispondervi non basterebbe un semplice articolo. Oggi prenderemo in esame solamente un piccolo aspetto, nonché l’ultima di queste questioni, dicendo che no, la lotta di classe va intesa anche in senso culturale, perché ancora oggi vi sono
classi culturali dominanti e subalterne.
di Alessandro Catto dal blog del 2 agosto 2015
Viviamo un periodo in cui la classe culturale dominante è formata dai cosiddetti “moderati” per eccellenza, in genere professorucoli in giacca e cravatta, amanti dei democraticismi, dei sofismi, degli antifascismi di mestiere, pure sostanzialmente antisocialisti, perennemente in affanno nello scegliere tra l’ultimo volumetto di Gad Lerner e la nuova pubblicazione omnia di Saviano sul traffico di cocaina in qualche sperduto angolo del globo. Abbiamo una classe culturale dominante di apolidi, di arrabattati, di alienati identitari, persone senza dimora spirituale, che ragionano con lingue altrui, il cui ideale di vita è la migrazione totalitaria, la mecca per loro diventa la City londinense luccicante di luci e brulicante di diverse forme di prostituzione. La classe dominante culturale di oggi è una babele di linguaggi e di origini, è un blob de-ideologizzato e informe derivato da anni di smussamenti, rinunce ideologiche, accentramenti, sacrifici alla società di massa e al capitale cosmopolita. Sessantottina fin nel midollo, incentrata su battaglie organiche, affumicata di speranze libertine, drogata di edonismo fasullo, oggi siede su cattedre d’università o fondazioni culturali, e viene a farci la morale sul fascismo come male del mondo perennemente in agguato, sull’inutilità delle frontiere, delle identità, dei confini. Spesso nel farlo percepisce lauti stipendi, e ha la furbizia disonesta di presentare i suoi insegnamenti come non pure rivoluzionari, ma come un qualcosa di riservato, una teologia di nicchia, per pochi iniziati, per pochi fortunati in grado di comprenderla, facendo pur credere di confidarla mentre fuori infurierebbe la dittatura, il putinismo o il berlusconismo di turno, la non-comprensione, l’ignoranza, cosicché nel leggerne un libello, e nell’ascoltarne qualche parola, ogni falso prescelto tra i falsi iniziati possa avere la totalizzante illusione d’essere un piccolo protagonista d’un film che lo realizzi, proiettato nel giusto futuro in un mare di ignoranza spicciola e retrograda. Questa è l’ideologia dominante, doppiamente subdola perché spacciata per dominata, doppiamente vergognosa perché figlia delle necessità della globalizzazione, che impone suoi piccoli e idioti adepti, diversamente consapevoli, nei gangli essenziali adibiti alla sua riproduzione di generazione in generazione.
Vi è poi la classe culturale dei dominati, quella dei beceri, dei “dannati della terra” di fanoniana memoria. La classe di chi ancora conserva un po’ di epos contrario al vento, la classe dell’Italia considerata più becera e retriva, quella dei dialetti, dell’orticello, quella tutto sommato del sorriso, del familismo amorale, delle amicizie al bar. Quella che crede bonariamente a molte storie, quella nostalgica di epoche passate, quella col culto bonario dei treni in orario, quella che spesso in gioventù non ha avuto il tempo, l’opportunità o magari nemmeno la voglia di partecipare alla celebrazione orgiastica del sapere plastico consumata nelle università, nei licei, nei luoghi-bene del sapere. E’ l’Italia delle sagre, l’italia che magari votava Lega, centrodestra, l’Italia sporca e puzzona per i dottori dell’accademismo, quella con la passione per l’uomo forte, pure una certa Italia che una idea di socialismo genuino e sbrigaccione ce l’ha sempre avuta, quella pane e salame, disabitua al sofismo o al solipsismo, bigotta nemmeno troppo, certamente imbevuta di cattolicesimo culturale e ideologia da pax christiana, quella che una famiglia deve essere composta da uomo e donna non per chissà quale oscurantismo di stampo catechistico, ma perché la pancia e la coscienza le dicono esattamente questo, così come le suggeriscono pure una certa, naturale e sacrosanta paura del diverso, fisiologica come una pacca sul sedere alla moglie, come il desiderio di maternità o paternità, o l’ideale, oscuro, becero, malevolo che sia la donna di casa a stirare la camicia, e non un asterisco terzosessuale. L’Italia da convertire, da deridere, dalla quale distaccarsi, quella odiata perché è giusto sia così, quella con la quale non bisogna restare soli, quella da sacrificare all’altare del Progresso. Quella che, fondamentalmente ignorante, tante domande non se le fa e che, qualora se le facesse e provasse pure a rispondersi da sola, con propri rappresentanti idealmente scevri dalla dominazione, si troverebbe dinanzi la prima classe, quella dei dominanti, pronta a gabellarla, o in secondo luogo a risponderle e a riprenderla duramente. Una classe di dominati e dannati che non può anelare ad una propria rappresentanza culturalmente emancipata, poiché la gabbia culturale italiana prevede una emancipazione illusoria che si manifesta solamente all’interno dei binari della cooptazione. L’emancipazione culturale non può svolgersi al di fuori del percorso del moderatismo di quella che ci ostiniamo a pensare come sinistra, post-sessantottina, liberal-anglofona, centrista ed eunuchizzante. Se l’emancipazione osa manifestarsi al di fuori di tutto ciò, vi è subito l’etichetta di mostruosità, di emancipazione fasulla, di fascismo, di razzismo, di sbaglio, di errore e di non comprensione. La classe dominante non ammette, al contrario di ciò che ama sbandierare, nessun tipo di opposizione. E’ qui che il democratico, o il moderato, come diceva Cioran, diventa un tiranno da operetta: nel non concedere nessun tipo di spazio ad un messaggio diverso da quello che egli stesso ha adottato, e dal quale è stato cooptato. Ogni tentativo di costruzione di un pensiero contrapposto pagherà sempre il prezzo dell’essere considerato eccezione, dovrà sempre pagare un pedaggio di scuse per la sola propria esistenza, sarà Fantozzi in presenza del Visconte Cobram, sempre latentemente pronto a scusarsi anche solo per i propri affetti, siano essi ideologici o filosofici.
Noteremo che questo tipo di dominazione culturale è molto più feroce e si manifesta molto prima della dominazione economica, negli anni che viviamo. La dominazione economica è oggi limata da un benessere consumistico tipico della società occidentale globalizzata, dove la qualità della vita è pure gradevole, dove in genere una rinuncia ideologica, o la limitazione della libertà, viene fatta coincidere con la donazione di un lecca lecca di Steve Jobs, o con l’ultimo modello di cellulare. Direte voi, la crisi ormai non lo permette nemmeno più: vero pure questo, ed è altrettanto vero il fatto che proprio la molla di un malessere economico diffuso non deve ridursi alla critica economica, il che è un po’ una pecca del marxismo, ma deve far ripensare a tutta la serie di situazioni di dominazione che l’hanno accompagnata, supportata e spesso creata. La dominazione culturale italiana post sessantottina è altrettanto grave di quella economica di stampo capitalistico, poiché al pari di quest’ultima recide alla base qualsiasi possibilità di un cambiamento vero, liberatorio, totale, tarpando le ali dell’alternativa politica e altresì filosofica.
La strada è quella di un rovesciamento di classe dapprima del mondo culturale post sessantottino, del mondo della sinistra globalizzata, delle speranze illusorie che ha instillato, dei falsi miti di progresso da lei imposti. Un helter skelter totale e totalizzante contro l’idea di apertura, di moderazione, di rinuncia a sé e al proprio essere, alle proprie mille identità e mille patrie, interiori ed esteriori. E’ la distruzione della fabbrica della cultura dominante che deve avvenire per prima, ancor prima dell’occupazione della fabbrica vera e propria, perché quest’ultima non è altro che la filiale di un sistema che sta a monte, che decide chi e cosa deve considerarsi giusto o abietto, chi o cosa ha diritto di ribellarsi, in che modo e quando. Tutti i tipi di ribellione verranno soffocati se non si rovescia l’idea che certe ribellioni fasulle sono tollerabili e sante, e altre, più autentiche e giuste, vanno bollate come retrive ed estremistiche e soffocate nel sangue del dissenso e della condanna del solone democratico di turno, bibbia laica in mano, sia essa libretto ANPI, sia essa manualetto liberal, sia essa Costituzione Democratica nata dalla Resistenza Partigiana.
Sarà una lunga marcia, in senso maoista non sarà affatto un pranzo di gala ma dovrà rappresentare uno stravolgimento pure nel linguaggio, nella concezione del rapporto tra uomini. Una marcia lunga e difficile, ma che rappresenta l’unico mezzo per il rovesciamento del presente imposto, altre strade o scorciatoie non ve ne sono, e se ve ne saranno, saranno destinate al più o meno breve fallimento. L’obiettivo principale e primario altro non deve essere quello che il rigetto totale della cultura del moderatismo sistemico, della rinuncia, del giaccacravattismo, dell’istruzione come arma di uniformazione di massa, dell’accettazione pavida del pensiero unico per la paura dell’uso del proprio intelletto e della propria coscienza. Questo, in senso kantiano, sarebbe un vero illuminismo, non quello spacciato con una bandiera del diritto omosessuale a mascherare la propria già mascherata foto profilo in un social network. Questo deve essere l’obiettivo instancabile e primario di chi ha capito il sistema nel quale siamo pienamente inseriti, un Matrix che dietro di sé non cela macchine da sfamare, ma che cela la desolante povertà di una società tutta umana che ormai ripudia pure il suo più grande e innato diritto, quello della libertà di servirsi del proprio intelletto, considerandolo degno di creare pensiero differente da quello imposto da altri.