di Gaetano Marabello per Storia in Rete – 20 giugno 2024
Bazzicando i mercatini dell’usato, capita talora d’imbattersi in qualche scritto ingiallito dal tempo e pressoché dimenticato da tutti. Spesso si tratta di vera paccottiglia, ma di recente m’è venuto tra le mani un pamphlet interessante del 1945 a firma di Alfredo Misuri. Edito quando ormai la seconda guerra mondiale in Italia stava per concludersi, s’intitolava “Giustizia o rappresaglia?”. Nel clima d’odio di quei tempi, destinato a persistere a lungo, aspirava ad essere un “Contributo alla pacificazione”.
L’autore vi riferiva di un suo tentativo, espletato nel luglio dell’anno precedente e mirante ad “influire sul Conte Sforza” che non aveva più visto dalla lontana estate del 1922 in concomitanza della crisi del governo Giolitti. Egli premetteva di sentirsi svincolato dal mantenere ulteriormente il riserbo sull’episodio, in quanto il decreto luogotenenziale del 27 luglio ’44 aveva vanificato ogni sua illusione d’evitare l’emanazione di norme epuratrici. Pubblicando quindi la corrispondenza intercorsa, mirava ad evidenziare gli sforzi che aveva profuso per evitare vendette contro quei fascisti che avevano appoggiato, in buona fede o per necessità, il regime. In particolare, egli difendeva coraggiosamente gli squadristi della prima ora, che non avevano “percorso una carriera” o “accumulato fortune” essendo stati scalzati dagli “squadristi di scarto”. Questi ultimi appartenevano a quella “infornata” di “centottantamila domande”, presentate a fascismo trionfante e miranti a procurarsi il relativo “fascio littorio rosso inquadrato nel distintivo a losanga sull’abito civile ovvero il galloncino rosso sulla manopola dell’uniforme”. Era l’immancabile schiera di profittatori, che concorreranno anche ai titoli di marciatori su Roma dopo il 1922 e infine di partigiani dopo il 25 aprile. Alfredo Misuri calcolava invece le schiere di tutti gli squadristi autentici “a sette o ottomila, a voler esser larghi”. Si trattava di gente, che spontaneamente aveva cominciato ad opporsi alle violenze socialcomuniste, senza possedere organizzazione di sorta e tanto meno “camicie nere o gradi”. Questa piccola “massa originariamente violenta, impreparata, ma pura” – secondo Misuri – in un secondo momento venne tenuta in rispetto dalle “squadracce, favorite e protette dai capi di Milano”.
Misuri parlava per conoscenza diretta dei fatti, essendo stato a Perugia uno dei primi ad opporsi ai “rossi”. In tale veste, aveva guidato nel ’21 alcune spedizioni, che riportarono la bandiera nazionale a sventolare sui comuni di Gubbio e Terni. Insomma, era uno di quei pochi fegatacci che avevano consentito al movimento fascista d’espandersi in una terra difficile come l’Umbria. Ne era stato però ripagato con l’ostracismo da parte dei tanti arrivisti o attaccabrighe del posto, che riuscirono a prevalere su di lui nella lotta interna per la conquista del potere locale. Queste opposizioni non gli impedirono tuttavia d’ottenere ben centodiecimila voti alle elezioni del 15 maggio 1921 e d’entrare così alla Camera come deputato del blocco di ”Alleanza Nazionale”. Le sue simpatie filo-monarchiche si manifestarono, quando si contrappose a viso aperto alla corrente fascista repubblicana, nel corso della vivace riunione del partito tenutasi da lì a un paio di settimane al teatro Lirico di Milano. Misuri rimase sempre fedele a questa linea di condotta, tanto da far apparire ben strano il dubbio che Mauro Canali lascia aperto sull’Enciclopedia Treccani circa una possibile sua adesione successiva alla RSI.
Comunque, che Misuri fosse un tipo davvero “tosto” se n’accorsero presto non solo i suoi avversari storici di sinistra. Nell’opuscolo da cui siamo partiti, è egli stesso a ricordare d’aver vinto un “duplice e clamoroso duello” contro due suoi oppositori interni umbri. Il 31 gennaio 1922 ferì appunto Felice Felicioni e Guido Pighetti, che – ricordiamo – furono rispettivamente ultimo Presidente della “Dante Alighieri” il primo e Prefetto di Cuneo, Siena e Padova il secondo. Il che non vuol dire che apprezzasse il clima di guerra civile, in cui era precipitata l’Italia dopo la fine della prima guerra mondiale Auspicava anzi che il confronto con i “rossi” venisse alla fine a comporsi nell’ambito della legalità, di cui riteneva garante la monarchia sabauda. Su di lui inevitabilmente s’addensarono le nubi dell’espulsione dal PNF, dove prevaleva ormai l’ala intransigente. Si convinse allora che, “per serbar fede alla idea prima del fascismo, per essere fascista, occorre(va) emigrare altrove”. Aderì allora al gruppo nazionalista, dove organizzò un raggruppamento di camicie blu per la fatidica marcia su Roma del 28 ottobre. Quando però questo gruppo confluì nel PNF, l’espulsione divenne inevitabile. Allora come “gesto di lealtà” preavvisò Mussolini che, in occasione dell’approvazione del bilancio provvisorio, avrebbe tenuto un discorso critico dal titolo “Per l’assetto interno”. Era il 29 maggio del ’23, quando tenne fede a questo proposito attaccando i “ras” fascisti, piccoli e grandi, che avevano fatto degenerare il fascismo originario. Secondo Paolo Valera, egli non volle ascoltare chi lo invitava a desistere dal suo proponimento, adducendo che lo Statuto glielo impediva. Sta di fatto che quella sera stessa, fu picchiato e ferito da un gruppo di facinorosi mentre stava in un vespasiano presso Montecitorio. Secondo la versione del segretario di Mussolini Arturo Fasciolo, l’ordine sarebbe partito da Giovanni Marinelli. Invece, a detta di Giorgio Candeloro e Peter Tompkins il mandante sarebbe stato lo stesso Mussolini. L’unico dato certo è che il futuro Duce il 3 gennaio 1925 definì l’agguato una “aggressione minore” rispetto al caso Matteotti.
A quel punto Misuri provò ad opporsi a quella che riteneva ormai una deriva, fondando il movimento “Patria e Libertà”. Questo raggruppamento però riuscì a mandare in Parlamento il solo Cesare Forni, che venne aggredito a sua volta. Una intervista alla “Voce repubblicana”, in cui Misuri diceva di voler evitare al fascismo di finir vittima del “fior fiore degli spostati”, e una raccolta di suoi scritti inseriti nel volume “Rivolta morale”, finito sotto sequestro, lo resero ancor più inviso agli estremisti.
Nel ’26 Misuri, che era libero docente di zoologia a Messina, fu dichiarato decaduto dall’insegnamento. In seguito, considerato pericoloso per la sicurezza dello Stato, trascorse oltre due anni al confino di Ustica e di Ponza. Rientrato a Perugia, se ne stette tranquillo, finché – come molti altri oppositori – si decise a scrivere al Duce per rassicurarlo sul suo “recupero”. Nel frattempo, subì altre ingiustizie da parte dei suoi oppositori locali, che gli intaccarono le sostanze di famiglia.
Quando nel giugno ’44 gli Alleati entrarono a Roma, Misuri si prodigò subito a costituire l’Unione Monarchica Italiana divenendone presidente. Tra i vari raggruppamenti filo sabaudi che spuntarono qua e là, l’UMI fu quello maggiormente gradito a corte. Per qualche momento Misuri s’illuse di poter assumere un posto di rilievo, a causa delle peripezie appena dette e delle sue frequentazioni col principe Umberto di quel periodo. Trovò però la strada sbarrata dall’ostilità del capo ufficio stampa del governo Nino Bolla. Va detto che Misuri non nutriva alcuna simpatia per Pietro Badoglio e, come suo solito, non aveva avuto peli sulla lingua mandandoglielo a dire. Fu forse questo il motivo per cui tentò poi un approccio con Carlo Sforza, che aveva appoggiato il trasferimento delle funzioni reali ad Umberto. Fu in quella occasione che ebbe lo scambio epistolare, sopra accennato e poi riprodotto nel libretto dal quale è partita questa ricostruzione.
Purtroppo per lui, come in passato, s’era fatto nemici dappertutto. Gli stessi partiti antifascisti non gli perdonavano la parentesi squadrista, nonostante quel che gli era capitato durante il Ventennio. Allorché ebbe i riferiti abboccamenti con Sforza, aveva persino rassegnato le dimissioni dalla carica di presidente dell’UMI, anche se poi le ritirò per nuovamente reiterarle poi. A quel punto, si candidò all’Assemblea costituente nel “Blocco Nazionale della Libertà”, senza riuscire ad essere eletto. Collaborò allora con Alfredo Covelli alla nascita del “Partito Nazionale Monarchico”, ma ormai era giunto al crepuscolo della sua avventura politica. Subìto un fiasco elettorale nelle elezioni del ’48, capì che era giunto il tempo di farsi da parte. Morì a Roma tre anni dopo, all’età di 65 anni. Di lui ci restano alcuni libri, editi in buona parte nello stesso anno cui risale “Giustizia o rappresaglia?”. Essi sono “Con la monarchia o verso la repubblica?” e “Antologia polemica: saggio di polemica cortese dedicato ai compagni Nenni e Togliatti”. Il più famoso di tutti rimane “Ad bestias!”, pubblicato nel ’44, che, superando cristianamente ogni spirito di vendetta, era “tutta un’invocazione al perdono reciproco”. Speranza vana, come purtroppo si vide subito dopo.