Aldo Ricci: «Ecco uomini e fatti della lunga storia d’Italia nel “Secolo breve”»

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E’ in libreria il nuovo libro di Aldo Giovanni Ricci “Elogio della Storia – L’Italia nella Guerra civile europea 1914-1953”. Ricci è un collaboratore storico di “Storia In Rete”, sia rivista che sito (dove gestisce un seguito blog) ma è anche, anzi soprattutto, un amico prezioso perché unisce qualità umane e intellettuali non comuni. Le prime ce le teniamo per noi mentre delle seconde le prove pubbliche non mancano. E non sono mancate neanche in passato come dimostra questa affascinante carrellata sulla storia italiana che Ricci ci propone con una selezione di suoi articoli e saggi prodotti negli anni e che valeva davvero la pena di riunire per permettere loro di sfidare una volta di più, e al meglio, il tempo inesorabile. Il volume ha una doppia introduzione: una prefazione di Ernesto Galli della Loggia e un intervento dello stesso Ricci che spiega i motivi delle scelte fatte. Il risultato è una bella lezione di Storia per tutti noi che proponiamo con piacere d’intesa con l’Autore e l’Editore (Fabio Andriola)

di Aldo G. Ricci (da “Elogio della Storia”, Oaks editrice, 2024)

Negli anni giovanili la mia passione era la politica, vissuta, come per molti giovani della mia generazione, liceali e poi universitari nei favolosi anni Sessanta, in una prospettiva ‘rivoluzionaria’. Da qui il molto tempo passato anche in seguito sui sacri testi del marxismo, più o meno ortodosso, fino a concludere, come tanti compagni di viaggio, che, al di là delle molte analisi economiche innovative, non si trattava di scienza, quanto piuttosto di una filosofia della storia, di derivazione giudaico-cristiana. A quel punto ho ritenuto più opportuno occuparmi direttamente di studiare la Storia, togliendomi, o quasi, gli occhiali filosofici.

Si può acquistare “Elogio della Storia” di Aldo G. Riccii su “Libreria di Storia” cliccando qui

Ho scritto ‘quasi’ per un motivo. Infatti quegli occhiali sono stati in qualche modo ancora necessari per lo studio del 900, secolo di contrasti ideologici radicali, perché, come ha scritto Augusto Del Noce, “senza la chiave filosofica la storia contemporanea non s’intende”.    

I testi che seguono in questa raccolta sono una parte degli studi e degli interventi che ho avuto occasione di effettuare in questi ultimi anni, relativi al periodo più drammatico e convulso dell’età contemporanea nella nostra Nazione, compreso tra l’inizio del primo conflitto mondiale e il secondo dopoguerra: un periodo che, secondo le interpretazioni ormai prevalenti, rappresenta il vero incipit della contemporaneità. Sono gli anni della prima metà del cosiddetto ‘secolo breve’, dominato dalla Grande Storia e caratterizzato da una ‘guerra civile europea’  trentennale, come ha scritto Ernst Nolte, che ha coinvolto tutto il Vecchio Continente, e alla cui conclusione l’Europa è praticamente scomparsa dalla scena mondiale come insieme di potenze di prima grandezza.  Si è trattato di un vero e proprio sconvolgimento dell’ordine internazionale, da cui l’Italia, Nazione che vanta radici storiche e culturali millenarie, ma una breve vita come Stato unitario, è uscita vincitrice a fatica nella prima fase, ma travolta da una catastrofe distruttrice nella fase conclusiva.

I saggi e gli articoli qui presentati sono appunto relativi a questo periodo drammatico della storia della nostra Nazione, legati tra loro da un filo interpretativo che mi sembra aver conservato nel tempo una sua coerenza. Da qui la decisione, forse un po’ immodesta, di riproporne una scelta in ordine tematico-cronologico.

La Storia, denominatore comune a tutti i testi che seguono, non si ripete mai due volte allo stesso modo (anche se a volte fa rima con sé stessa, come diceva Mark Twain), eppure è solo attraverso il suo studio che possiamo acquisire conoscenze e strumenti d’indagine per tentare di leggere gli avvenimenti presenti. La storia contemporanea, in particolare, è quella alla quale più frequentemente ci rivolgiamo in cerca di risposte circa l’evoluzione del nostro presente verso il futuro.

L’incipit della contemporaneità veniva collocato comunemente, nei manuali del secolo scorso,  all’indomani della sconfitta di Napoleone e con l’avvio della Restaurazione, ovverosia di quel tentativo delle grandi potenze europee, al Congresso di Vienna (1815), di riportare, entro i limiti del possibile, la struttura dell’ordine europeo alla condizione precedente il 1789, vale a dire allo scoppio della Rivoluzione francese.

In realtà è proprio a quella data che andrebbe collocato l’inizio della contemporaneità, nel senso di rottura irreversibile della Tradizione,  perché la frattura del 1789, con la proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino da parte dei rivoluzionari francesi, poi esportata in Europa sulle baionette delle armate della Francia e in seguito di Napoleone, rappresentò uno spartiacque che non sarebbe mai stato cancellato e che ancora rappresenta una discriminante tra i paesi occidentali e gran parte del resto del Pianeta. In Italia in particolare le armate rivoluzionarie avviarono una reazione a catena che minò alla base i vecchi equilibri settecenteschi.

Conoscere la contemporaneità, nell’accezione oggi corrente, significa, nel caso dell’Italia, ripercorrere gli avvenimenti, politici e culturali dai prodromi della Grande Guerra all’indomani della Seconda guerra mondiale (e poi oltre), quando la nostra Nazione, uscita sconfitta dal conflitto, dovette affrontare le difficoltà della ricostruzione e del ritorno alla democrazia in un mondo diviso in due blocchi: quello totalitario comunista,  egemonizzato dall’Unione Sovietica e in misura minore dalla Cina, fortemente aggressivo ed espansionista, e quello democratico occidentale, egemonizzato dagli Stati Uniti e sostenuto dall’Europa occidentale, progressivamente riunita nell’Unione Europea. Un quadro poi sconvolto dagli avvenimenti successivi al 1989, con il crollo dell’URSS e dei suoi satelliti, e, nel nuovo secolo, da una serie di avvenimenti e di conflitti che stanno cambiando il sistema mondiale, ben lontano dal trovare un equilibrio, sia pure ‘del terrore’, simile a quello dominante nella seconda metà del secolo scorso.

Riflettere sulla contemporaneità non significa quindi soltanto conoscere fatti, personaggi e dinamiche di quegli anni, ma anche, e forse soprattutto, acquisire progressivamente la capacità di leggere gli avvenimenti in una prospettiva più ampia. Recuperare la dimensione temporale della ‘lunga durata’, per usare una espressione coniata dalla Scuola storiografica francese delle “Annales”; recuperare la dimensione complessiva della Storia come quadro entro cui vanno collocati i ‘fatti degli uomini’, connettendo storia politica e storia culturale, come è stato giustamente raccomandato da Augusto Del Noce.  

La nostra è la civiltà del ‘tempo reale’. Questa formula, originariamente giornalistica, accompagna sempre più spesso la quotidiana dose d’informazioni che ciascuno di noi assorbe attraverso i diversi canali come un elemento aggiuntivo, presunto o reale che sia, un di più che sembra rendere la notizia più viva, importante, esauriente.

Vivere gli avvenimenti planetari ‘in diretta’, grazie a tv e web, ha modificato il nostro rapporto con la realtà, abituandoci a un assorbimento dei fatti privo di prospettiva, sempre più schiacciato su un presente in cui il presunto reale, l’instant, ha annullato il tratto più specifico della dimensione storica, il ‘tempo’, vale a dire la durata, l’arco entro cui il presente s’inscrive, e che solo può dargli il suo significato complessivo.

Naturalmente, nulla contro gli sviluppi della tecnologia o il moltiplicarsi dei canali d’informazione! Sarebbe quanto di più anacronistico (e perdente) si possa immaginare. Si tratta invece di una sollecitazione a riflettere sui cambiamenti che le nuove tecnologie comportano rispetto al rapporto che ciascuno di noi stabilisce con la massa di informazioni che lo raggiungono quotidianamente sempre più abbondanti e invasive.

La situazione in cui ci troviamo è paradossale: la sovrabbondanza di notizie, unita alle modalità e ai tempi della loro acquisizione, ne soffoca la comprensione complessiva; l’ instant sommerge senza creare conoscenza, senza che l’avvenimento assuma i contorni che solo la prospettiva della lunga durata, con l’eredità e il peso insopprimibili del suo passato, può conferirgli.

Cadute le ideologie rivoluzionarie del secolo scorso che promettevano la realizzazione del Paradiso in terra o la creazione di un Mondo Nuovo, ideologie che tanto sanguinosamente e dolorosamente hanno segnato la storia del Novecento, è venuta meno, forse proprio per tali esperienze, la fede nel Progresso che ci era stata tramandata dall’età dei Lumi e dalla filosofia della storia ottocentesca. L’uomo occidentale, alla fine del secolo scorso, si è trovato improvvisamente, ma solo all’apparenza, ‘orfano’ di nemici epocali. Ha vissuto così, per alcuni anni, nell’illusione, utilizzando una formula fortunata, di avere davanti a sé un futuro caratterizzato dalla ‘fine della Storia’, almeno intesa nei tratti drammatici e conflittuali del secolo passato.

Questa illusione è rapidamente svanita e la Grande Storia ha rioccupato rapidamente e prepotentemente la scena con il moltiplicarsi di conflitti di varia natura, determinati, in una prima fase, prevalentemente dalla crescita dell’integralismo islamista e poi dalla ripresa su larga scala dell’aggressività dell’imperialismo russo, secondo comportamenti tradizionali di lunga data, che ha portato la guerra alle porte dell’Europa, mentre il Medio Oriente continua a lacerarsi in preda a convulsioni senza tregua.  .

Lo scontro di civiltà, diagnosticato e pronosticato in un saggio fortunato del 1996 da Samuel P. Huntington (rapidamente archiviato come una profezia pessimistica priva di fondamenta scientifiche), si ripropone oggi su scala planetaria con la forma di un ‘disordine diffuso’ in cui la crisi economica di questi ultimi anni introduce un ulteriore e imprevisto elemento d’incertezza e di preoccupazione. La sensazione diffusa, anche se non articolata in una diagnosi precisa, è che si sia alla vigilia di un ‘tornante della Storia’ di cui non si intravvede ancora la direzione di marcia.  

 L’uomo occidentale, reduce da un secolo ‘breve’ e lunghissimo allo stesso tempo, è schiacciato tra una sensazione faustiana di onnipotenza e di onniscienza, sostenuto da una vorticosa crescita tecnologica (che convive con larghe aree di povertà e arretratezza) e un malessere profondo legato a una altrettanto forte sensazione di contingenza infinita, che annulla progressivamente ogni gerarchia di valori, e rischia di annichilire la capacità di guardare oltre l’instant.

Questa situazione, nel breve periodo, può rappresentare la forza di un pensiero laico, legato all’operare nel mondo, ma può diventarne la debolezza, ove lo si privi degli strumenti per riflettere criticamente e storicamente su se stesso. In questa crisi d’identità del mondo occidentale, l’uomo europeo rappresenta l’anello più debole, schiacciato dal senso di inessenzialità della sua presenza su una scena planetaria nella quale ha sempre maggiori difficoltà a individuare il suo ruolo. 

Ecco perché è di vitale importanza recuperare la dimensione storica degli avvenimenti e saperli inserire nella loro prospettiva. Studiare la Storia serve proprio a questo. In particolare la Storia contemporanea che, parlandoci del passato prossimo, aiuta a leggerlo criticamente per favorire una comprensione del presente e delle sue prospettive.

Di conseguenza, è ancora più incredibile che lo studio della storia si trovi oggi, in particolare nelle nostre scuole superiori e nelle nostre università, sempre più emarginato e ridotto a nozioni telegrafiche prive di senso. Si tratta di una tendenza in atto ormai da diversi anni e certo non limitata al nostro paese. Ne ha scritto recentemente con lucidità e amarezza Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio 2019).

Il ritorno prepotente della Grande Storia sulla scena mondiale si incaricherà presto di rendere indispensabile un ripensamento di queste scelte scellerate, pena, altrimenti, rassegnarsi a essere guidati da una classe dirigente strutturalmente e culturalmente disarmata di fronte alle scelte epocali che il futuro ci riserva. Con tutte le conseguenze disastrose che questo comporta.

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