L’Italia rischia di perdere il primato UNESCO scalzata dalla Cina, ma potrebbe rivelarsi un’opportunità per svegliarsi dal torpore in cui versa, togliendosi dal volto quel ghigno da “prima della classe” che non le spetta di sicuro in materia di politica culturale.
di Alfonso Casalini da Tafter del 7 gennaio 2015
La recente affermazione del presidente della Commissione Italiana per l’Unesco, ha suscitato una forte sorpresa: in un’intervista rilasciata a Klaus Davi, Giovanni Puglisi infatti sostiene che “Con le ultime incredibili vicende di Pompei, non escludiamo che la Cina potrebbe sorpassare prossimamente l’Italia per numero di siti riconosciuti dall’Unesco.”
Se questo dovesse accadere sarebbe sicuramente la fine di un’era, ma non necessariamente questo sarebbe un evento negativo.
Potrebbe anzi essere una sveglia che desti da una retorica stantia e nociva per il nostro Paese, in cui ai policy makersembra sufficiente dichiarare che “l’Italia è il Paese con più beni culturali al mondo” o che la “cultura è il petrolio della nostra Nazione” per poter credere di avere assolto il loro compito nei confronti di questo tema così difficile da gestire, e così difficile da valorizzare.
Perché al di là delle recenti polemiche su Pompei, lo stato di salute del nostro Paese è del tutto confermato dallo stato di salute della nostra cultura, prodotta ed esperita, in cui i consumi scendono costantemente, e ad una visita al museo si preferisce una visita al centro commerciale, in cui le riforme cambiano ben poco, o come già approfondito, insistono su un gattopardismo imperante dal quale non riusciamo a liberarci.
A quest’Italia non farebbe assolutamente male cedere un primato ereditato e acquisire un atteggiamento più simile ai nostri “rivali” in questa inusuale competizione. Comprendere che dalla crisi economica e culturale si esce soltanto grazie ad un lavoro serio e continuativo, che vede la Politica e i Cittadini coinvolti nella realizzazione di un progetto di medio periodo, in cui i Privati non devono scontrarsi con una burocrazia statalista.
Smettere l’arroganza dei primi della classe, direbbe Guccini, e liberarsi del pregiudizio che l’Italia sia l’unico luogo al mondo dove poter ammirare l’arte e la cultura, e magari perdere anche il vizio di considerare la Repubblica Popolare Cinese come il luogo delle contraffazioni, delle vendite a buon mercato, del kitsch dei negozi all’angolo, e ricordare che la Cina investe nel nostro Paese notevoli flussi di capitali e che negli ultimi due anni è stata la nazione a maggior tasso di privatizzazione a livello globale.
Soprattutto bisogna considerare che la Cina vive in questo momento uno dei quinquenni programmatici (2011-2015) più positivi sotto l’aspetto culturale, e che le cifre del biennio 2011-2012 hanno mostrato notevoli tassi di crescita per il comparto delle Industrie Culturali e Creative.
Per meglio comprendere la natura di questo comparto nella repubblica popolare è sufficiente considerare le maggiori categorie di industrie culturali e creative e valutarne sommariamente le performance: così se il numero di schermi cinematografici ha conosciuto nel periododal 2002 al 2012 un aumento del 700%, l’industria editoriale ha aumentato i propri “profitti” dal 2009 al 2012 in misura pari al 32%, e l’export dell’industria del Copyright ha avuto un incremento del 500% in cinque anni. Le entrate relative all’esportazioni di prodotti audiovisivi (tv dramas e progammi) in tre anni sono aumentati del 247%.
Il settore dell’animazione e del gaming ha prodotto rispettivamente nel 2012 il 54% e l’81% in più di quanto fatto nel 2010, mentre l’online industry ha raggiunto 1.2 trilioni di euro (8.1 trilioni di CNY).
Non è soltanto con il Colosseo che si fa Cultura, né con Pompei e i suoi cancelli chiusi, e questi numeri, non fanno altro che dimostrarlo, e magari l’Italia di fronte ad un “nemico” comune, potrebbe anche iniziare ad adottare politiche serie, e “gestire” il proprio patrimonio culturale mobile, immobile ed immaginario.