Il prossimo 23 aprile, la chiesa armeno-ortodossa proclamerà un milione e mezzo di nuovi santi. Lo ha annunciato pochi giorni fa, con una lettera enciclica, il patriarca Karekine II, che ha così aperto ufficialmente le celebrazioni per i cento anni dal “Metz Yeghérn”, il Grande Male, termine con il quale è ricordata la strage degli armeni in Turchia avvenuta negli anni del primo conflitto mondiale.
di Nicoletta Tiliacos da Il Foglio del 3 gennaio 2015
I nuovi santi – santi e martiri, ai quali sarà dedicata una Giornata della memoria il 24 aprile – sono tutti coloro che trovarono la morte in quell’immane operazione di pulizia etnico- religiosa che avrebbe ispirato all’avvocato russo-polacco Raphael Lemkin il termine inedito di “genocidio”. Lemkin, ebreo fuggito in Svezia nel 1939 dopo l’invasione nazista della Polonia, lo coniò proprio per descrivere lo sterminio degli armeni, alla ricostruzione del quale si era a lungo dedicato. Non poteva sapere che quella triste parola sarebbe stata poi per sempre associata al destino di sei milioni di ebrei nell’Europa del Novecento. “Il centenario del Genocidio degli armeni è davanti a noi, e le nostre anime risuonano di una potente richiesta di verità e giustizia che non sarà messa a tacere”, scrive il patriarca Karekine II (la traduzione integrale della sua lettera è sul sito Asianews). Il riferimento è all’attuale governo turco che, in linea con tutti quelli che lo hanno preceduto, non accetta di riconoscere né l’entità né la premeditazione del Grande Male.
Di conseguenza, non ha mai accettato e non accetta di chiamarlo “genocidio” e nemmeno “strage” degli armeni. Eppure, è difficile negare che almeno su una cosa – la volontà di far fuori la componente armena in Turchia, circa due milioni di persone – ci fu piena continuità e sintonia tra il morente impero ottomano, il movimento dei Giovani Turchi e la nuova nazione laica e modernizzante di Kemal Atatürk, da cui ha origine la Turchia contemporanea. Cristiani in terra musulmana, in genere istruiti, donne comprese, intraprendenti e ben radicati nelle professioni e nel commercio, gli armeni non erano certo nuovi alle persecuzioni, visto che già dal 1894 al 1896 il sultano Abdul Hamid II aveva condotto una dura campagna di repressione contro di loro, per soffocarne ogni remota velleità autonomista. Ma il Grande Male vero e proprio esplose con la deportazione e l’eliminazione violenta della minoranza armena nel corso della Prima guerra mondiale, ed ebbe il suo culmine quando il controllo del governo della Sublime porta passò nelle mani dei Giovani Turchi. Laici, modernisti e fieramente nazionalisti, i Giovani Turchi non ci avrebbero messo molto a deludere tutti coloro che speravano in una nuova èra di libertà e tolleranza per le minoranze dell’impero. Per loro la priorità rimase, insieme con la modernizzazione economica e sociale, l’uniformizzazione del paese su base etnica e religiosa, secondo quell’ideologia panturanica che attribuiva alla nazione turca confini ben più vasti di quelli anatolici (il massimo teorico del movimento panturanico moderno, l’ungherese Arminius Vámbéry, sosteneva che “i popoli turchi avrebbero avuto diritto di formare una grande entità politica compresa tra i monti Altai e il Bosforo”). Già dal gennaio 1913, un triumvirato di Giovani Turchi formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal aveva cominciato a pianificare nei dettagli la persecuzione delle minoranze dell’impero, prima tra tutte quella armena. Dal 1914, con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi centrali, ci fu un’accelerazione. “Tra l’aprile e il maggio 1915 – spiega Alberto Rosselli, autore del libro ‘L’olocausto armeno’, di cui a fine gennaio uscirà per Mattioli 1885 una quarta edizione ampliata – i turchi concentrarono i loro sforzi nell’eliminazione dell’élite economico-culturale e dei militari armeni. E il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, circa cinquecento esponenti di quell’élite furono incarcerati e uccisi”. In quella che sarebbe diventata la data sombolo del genocidio fu dato inizio a un massacro indiscriminato. Tra il maggio e il luglio del 1915, gli ottomani, spalleggiati da bande curde e formate da ex detenuti, batterono le province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, allo scopo di distruggere e disperdere le comunità armene. Annunciata da un ordine di deportazione che non era altro che una condanna a morte differita, la pulizia etnica non risparmiò donne, vecchi, bambini, sacerdoti. “Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi… ”, si raccomanderà il ministro Taalat Pascià in un dispaccio al governatore turco di Aleppo, il 15 settembre 1915.
Corollari delle deportazioni furono la distruzione sistematica di chiese, monasteri e scuole e la confisca di tutti gli averi delle comunità, considerati senza ombra di ironia “beni abbandonati” da coloro che erano stati uccisi o strappati con le armi alle loro terre (il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter calcolò all’epoca che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”). Di uno di quegli episodi di persecuzione – uno dei pochi in cui ci fu un atto di disobbedienza da parte armena – parlò lo scrittore ebreo praghese Franz Werfel nel romanzo “I quaranta giorni del Mussa Dagh” (Corbaccio). Fu pubblicato nel 1933, dopo essere stato concepito sull’onda della compassione provata da Werfel a Damasco, nel 1929, di fronte a ragazzini armeni “profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti”: quella visione lo aveva convinto che fosse necessario “strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno”. Le deportazioni di massa erano organizzate come viaggi verso il nulla, la cui meta finale non poteva che essere la morte. Quei pochi governatori turchi che tentarono di eludere gli ordini in arrivo da Costantinopoli pagarono con la destituzione. Nel luglio 1915, il governatore di Ankara, che si era opposto allo sterminio indiscriminato, fu rapidamente sostituito da un funzionario più sollecito, che seppe meritarsi pienamente la carica quando, nell’estate di quello stesso anno, nella città di Siirt fece uccidere più di diecimila cristiani, tra armeni, nestoriani e greci del Ponto. Ma la soluzione del “problema armeno” procedeva ancora troppo a rilento, a giudizio del governo turco, rispetto ai piani iniziali. “Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”, si lamentava in una relazione, nel gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey. Per questo, spiega ancora Rosselli in un articolo sull’ultimo numero del trimestrale Storia Verità, in quell’anno “Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal ordinarono a governatori e capi di polizia di ‘eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici’”.
Nel 1918, alla fine della guerra, quando la Turchia dovette capitolare, i dirigenti del partito dei Giovani Turchi furono arrestati dagli inglesi. Un processo-farsa a loro carico fu poi tenuto l’anno successivo a Costantinopoli, con la supervisione del nuovo premier turco, Damad Ferid Pascià, che pure alla Conferenza di pace di Parigi, nel 1920, aveva dovuto riconoscere i crimini perpetrati ai danni degli armeni (fu, di fatto, l’unica volta che un’ammissione del genere arrivò dalle autorità turche). Le condanne – alcune mai scontate, perché i capi dei Giovani Turchi avevano in gran parte trovato riparo all’estero – furono rapidamente archiviate e alcune perfino cancellate. Come aveva intuito anche Werfel, sul popolo armeno fu sperimentata, per la prima volta nel Novecento, un’efficienza del tutto moderna, di tipo “industriale”, nell’organizzazione dello sterminio. Sul tema, un importante lavoro pubblicato in Italia è quello di Marcello Flores, “Il genocidio degli armeni”, uscito nel 2006 per il Mulino, nel quale l’autore conclude che “il genocidio degli armeni è ormai entrato a pieno titolo nella storia del Novecento”. Flores fa parte, con Rosselli, del gruppo di studiosi – gli altri sono Martina Corgnati, che è anche coordinatrice del progetto, David Meghnagi, Patrizia Violi, Emanuele Aliprandi, Ugo Volli, Matteo Miele, Manuela Fraire, Federica Mormando, Peppino Ortoleva – che pubblicherà, nel marzo di quest’anno, “Il genocidio infinito” (Guerini), dedicato al centenario della strage degli armeni. Per la Turchia contemporanea come per quella kemalista, lo sterminio degli armeni fu qualcosa di fatalmente legato alle turbolenze politiche di un periodo massimamente cruento della storia. La versione turca sostiene che i massacri ai danni di quella minoranza nacquero dalla necessità di reprimere moti indipendentisti, e che la cifra dei morti non superò le trecentomila persone, contro il milione e mezzo denunciato da chi parla di genocidio.
Chi osi associare questa parola a ciò che accadde agli armeni tra il 1915 e il 1916 rischia tuttora, in Turchia, da sei mesi a due anni di prigione, in nome dell’articolo 301 del codice penale che prevede il reato di “vilipendio dell’identità nazionale”. Una legge alacremente applicata, che non ha risparmiato Orhan Pamuk, lo scrittore turco vincitore del Nobel per la Letteratura nel 2006, tuttora sotto processo per aver parlato nel corso di un’intervista a un giornale svizzero dello sterminio degli armeni. Ma soprattutto va ricordato Hrant Dink, il giornalista turco di origine armena assassinato nel gennaio del 2007, dopo che nel 2005 era stato condannato a sei mesi di galera per i suoi articoli dedicati alla memoria del Grande Male. A questo centenario del genocidio si arriva con una ventina i paesi che lo riconoscono esplicitamente. In Francia, paese con una consistente quota di discendenti dei sopravvissuti al Metz Yeghérn, nel 2012 è stata bocciata come incostituzionale, in quanto lesiva della libertà di espressione, una legge votata dall’Assemblea nazionale che stabiliva, per chi negasse il genocidio, ammende fino a 45.000 euro e un anno di detenzione. Il cantante Charles Aznavour (probabilmente l’armeno più famoso di Francia), tre anni fa fece sensazione con la sua polemica proposta di rinunciare a quella parola indigeribile da parte turca, capace da sola, con il suo potere evocativo, di impedire qualsiasi possibilità di rapporto tra Turchia e Repubblica di Armenia, lo stato indipendente sorto nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss. Poteva bastare, disse, una chiara ammissione di responsabilità: “Hanno ucciso e volevano uccidere. Questo è l’importante”, disse il cantante nel corso di un’intervista televisiva, nella quale spiegava il suo timore di vedere la giovane nazione armena ogni giorno più svuotata, impoverita, assediata dalle nuove ambizioni kemaliste del presidente turco Erdogan: “Tutto questo mi preoccupa molto. Nel frattempo rimaniamo paralizzati sulla parola ‘genocidio’ e i turchi ne traggono vantaggio”.
Dall’epoca di queste dichiarazioni, la realtà di quella parte del mondo è molto cambiata, in peggio. Se nel 2011 ancora era all’ordine del giorno la volontà della Turchia di entrare in Europa – e il riconoscimento dei massacri degli armeni, almeno sulla carta, fa tuttora parte delle richieste dell’Unione per dar corso alla pratica – oggi quella non sembra più una vera priorità per Ankara. E se nel 2009, anche sull’onda dell’emozione provocata due anni prima dalla morte di Dink, circa duecento intellettuali turchi avevano lanciato una petizione nella quale si chiedeva al governo di formulare scuse ufficiali da parte del popolo turco a quello armeno, in relazione ai fatti del 1915, e in trentamila l’avevano firmata, oggi chissà se un’iniziativa del genere avrebbe lo stesso seguito. Non di scuse ma di “condoglianze” e di “dolore condiviso” “per le violenze subite dagli armeni da parte dell’impero ottomano negli anni della Prima guerra mondiale” ha tuttavia parlato il presidente turco Erdogan in un comunicato diffuso alla vigilia dello scorso 24 aprile. Un fatto comunque senza precedenti, ma insufficiente per addolcire chi chiede il riconoscimento del genocidio. Il presidente armeno Serzh Sargsyan ha ricordato che la Turchia in questo 2015 può cogliere l’opportunità di liberarsi di un “pesante fardello”, aprendo il confine e avviando normali relazioni diplomatiche, come pure è stabilito in un accordo firmato nel 2009, rimasto inattuato. “Ma nel 2015 nulla cambierà – prevede Alberto Rosselli – perché a Erdogan dell’Europa non importa più molto, in linea con quanto pensa la stragrande maggioranza dei suoi governati.
Ormai la Turchia guarda all’Asia centrale: all’Uzbekistan, al Kirghizistan, al Kazakistan, l’ultimo Eldorado petrolifero del mondo. E non dimentichiamo la recrudescenza di persecuzioni anticristiane legata ai fatti siriani. La Turchia ha scelto una posizione ambigua. Rimane a guardare (basta vedere quello che accade intorno a Kobane) mentre l’Is se la vede con i curdi e fa piazza pulita dei cristiano caldei. Inoltre, è cronaca di questi giorni, nuovi arresti di giornalisti dimostrano quanto sia fragile l’illusione di una Turchia democratica, laica e rivolta all’Europa”. Rosselli ricorda anche l’occasione volutamente perduta dall’Amministrazione Obama poco più di un anno fa, alla fine del 2013, “per portare al voto in Aula, al Congresso, una risoluzione di condanna della Turchia per il genocidio armeno, già passata a maggioranza nella commissione Esteri nel 2009. In quell’occasione, Erdogan aveva richiamato per un mese il suo ambasciatore, e quattro anni dopo Obama non ha voluto rischiare di irritare di nuovo quello che considera un alleato, ma che appare sempre più lontano e inaffidabile”. Con un tempismo che ha del simbolico, il 28 gennaio prossimo la Grande Chambre della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo si pronuncerà sul caso che oppone il politico turco Dogu Perinçek alla Svizzera. Nel 2005, Perinçek aveva definito “menzogna internazionale” la tesi del genocidio, nel corso di una manifestazione appositamente convocata a Losanna, ed era stato condannato a un’ammenda per “violazione consapevole delle leggi svizzere contro la negazione del genocidio con motivazioni razziste”. Nel dicembre del 2013, dopo il ricorso di Perinçek, la Corte di Strasburgo aveva condannato la Svizzera per violazione della libera espressione del pensiero, e ora, dopo l’appello elvetico, si attende la decisione definitiva. A intervenire come parte nel giudizio, stavolta, ci sarà anche la Repubblica di Armenia, che si avvale di una rappresentanza legale di cui fa parte anche la fresca sposa di George Clooney, Amal Alamuddin, avvocatessa anglo-libanese specializzata in diritto internazionale. Ma la vera partita per far entrare il genocidio degli armeni “a pieno titolo nella storia del Novecento”, come ha scritto Marcello Flores, si gioca, più che nelle aule di giustizia, sul piano culturale.
Lo sa bene la scrittrice Antonia Arslan, italiana discendente di armeni sopravvissuti al Grande Male, che con i suoi libri ispirati alle vicende avvenute cent’anni fa – primo tra tutti “La masseria delle allodole” (Rizzoli), ma anche “La strada di Smirne” e “Il libro di Mush” (Skira) – ha contribuito in modo decisivo a cambiare lo sguardo verso quegli eventi in tanta parte dell’opinione pubblica, non solo in Italia. Da questo centenario, ci dice Antonia Arslan, “mi aspetto che nasca una visione più serena e più vasta su quel terribile evento, che ha determinato la possibilità del motiplicarsi dei genocidi nel Novecento. Legami fra il genocidio degli armeni e la Shoah sono emersi e continuano a emergere in modo costante e inequivocabile. A questo proposito, a metà gennaio la casa editrice di cultura ebraica Giuntina pubblicherà, a cura di Francesco Berti e Fulvio Cortese, un libro che raccoglie le testimonianze di ebrei sul Metz Yeghérn. Si intitola ‘Pro Armenia. Testimonianze ebraiche al genocidio degli armeni’. E quel legame tra genocidio armeno e Shoa lo racconta benissimo, in un documentario del 2010, anche il regista tedesco Eric Fiedler. E’ intitolato ‘Aghét’, la catastrofe, che è l’altro nome che gli armeni danno al genocidio. Fiedler ha messo insieme voci di tedeschi che furono testimoni oculari della persecuzione e che scrivevano a casa, oppure alle autorità o ai giornali. Tutti si chiedevano come potesse la Germania essere alleata di un paese che perpetrava quegli orrori”. Che tutto questo non sia diventato parte della coscienza comune, aggiunge Antonia Arslan, “e che continui a non essere riconosciuto, lo rende sempre attuale. Il nipote del sopravvissuto ancora si chiede perché non può andare in Turchia a piangere i propri morti o perché deve vedere scuole turche intitolate agli assassini del suo popolo”.