Giovani e nobili di cappa e spada, con uno smisurato senso dell’onore e in cerca del “beau geste”. Ecco chi erano i guerrieri metropolitani nella Parigi del Seicento.
di Stenio Solinas da il Giornale del 03 luglio 2014
I tre moschettieri, si sa, erano quattro e Alexandre Dumas lo fece presente al direttore del Siècle che gli suggeriva quel titolo. Quello da lui scelto era Athos, Porthos e Aramis, e come si vede era numericamente riduttivo quanto l’altro, però meno comprensibile: «Un gran numero di abbonati che non si raccapezzano con le desinenze greche di certi nomi ci hanno chiesto se era la storia delle tre Parche alla luce di nuovi documenti».
L’impasse venne comunque subito superato. Da bravo forzato della penna, Dumas badava al sodo, ovvero alla pubblicazione; da scrittore sicuro del fatto suo, non stava a cavillare sulla sacralità dell’opera d’arte: «Se ci tenete, cambiatelo, non importa! Si crederà che, per la forza del sentimento, il quarto moschettiere si è fuso negli altri tre».
Il vero Athos, Armand de Silègue d’Athos d’Autevielle, è sepolto nella chiesa di Saint Sulpice. Ebbe vita breve, meno di trent’anni, morì probabilmente in un duello: il corpo venne ritrovato lì dove di solito si andava per incrociare le lame delle spade, il parigino Pré aux Clercs.
Il vero Porthos si chiamava Isaac de Portau: non è certo che fosse moschettiere, di sicuro militò nella compagnie des Essart, quella in cui Dumas fa debuttare d’Artagnan. La sua fine è ignota, a differenza di quella del vero Aramis, Henri d’Aramitz, che rimase moschettiere sino alla fine, si sposò, ebbe quattro figli, morì cinquantenne nel proprio letto.
Erano tutti e tre di origine bearnese, erano tutti e tre imparentati (chi nipote, chi cugino, chi cognato) con il signore di Treville, il comandante del corpo d’élite del re, 200 uomini come effettivo massimo, un motto che era tutto un programma, Quo ruit et lethum, «dove si abbatte, uccide», la giovinezza come condizione esistenziale: vi si entrava adolescenti, intorno ai sedici anni.
E d’Artagnan? Si chiamava Charles Ogier de Batz, da moschettiere prese il nome della madre, Françoise Montesquiou d’Artagnan, e vi aggiunse un titolo di conte che non gli apparteneva, vi percorse tutti i gradi sino al comando, fu uomo di fiducia di Luigi XIV e suo braccio armato, morì veramente all’assedio di Maastricht, non maresciallo di Francia, come lo promosse Dumas, ma più semplicemente maresciallo di campo. Dei tre moschettieri, il più moschettiere fu lui, il quarto appunto: più che fondersi negli altri fece da vaso di fusione.
Diceva Dumas che la storia era un chiodo dove lo scrittore appende il proprio quadro, oppure una bella donna da violentare «a patto di farle fare dei bei figli»… A giudicare dalla mostra «Mousquetaires!», in scena al Musée de l’Armée (da ieri fino al 14 luglio), il chiodo era comunque ben piantato e i bambini messi al mondo furono splendidi. Dumas conosceva le fonti e, soprattutto, sapeva rendere lo spirito del tempo: uomo dell’Ottocento, si mosse lungo il Grand Siècle seicentesco come se fosse il suo.
Lungo le sale dell’esposizione, l’epopea storica dei moschettieri marcia di pari passo con quella romanzesca da lui creata e mette insieme un racconto affascinante. È il racconto di un’élite di giovani nobili, di cappa e di spada, educati all’equitazione, alla scherma e alla danza, a qualche rudimento di matematica e di metrica. Aristocrazia da un lato, obbedienza assoluta e esigenze del servizio dall’altro, sono alla base della miscela esplosiva che incessantemente li consuma: un senso dell’onore smisurato, una ricerca sempre e comunque del «beau geste» che li porti in primo piano e grazie al quale poter ottenere, un domani, un comando nell’esercito del re. I duelli sono le loro «guerre private», visto che addetti alla sicurezza e alla persona del monarca, combattono solo quando questi decide di recarsi sul campo di battaglia…
Il loro terreno privilegiato è dunque Parigi, meglio ancora i dintorni del Louvre, dove il monarca risiede, e dove sono chiamati a prestare servizio e/o prendere ordini. Vivono nel quadrilatero fra rue du Bac, rue de Beaune, rue de Bourbon e rue de Verneuil, ovvero nel Faubourg Saint-Germain, dapprima alloggiati gratis in case private, in seguito in un’apposita caserma. Richelieu e il cardinale Mazzarino stavano al Palais Royal, il signor di Treville in rue du Vieux Colombier, non lontano dai giardini del Lussemburgo.
Dumas vi farà abitare anche Porthos, mettendo Athos nella vicina rue Ferou, Aramis in rue de Vaugirard, d’Artagnan in quella che nel Seicento era rue de Fossoyeurs e in seguito diverrà rue Servandoni, poi in rue Tiquetonne, infine in rue du Bac, all’angolo con Quai Voltaire (una targa oggi lo ricorda). Malignamente, sempre Dumas metterà Milady de Winter, la sua eroina più nera, in Place Royal, ovvero place des Vosges, allo stesso indirizzo di Victor Hugo…
La mostra è interessante anche per una certa aria di italianità. Nel grande secolo francese, i maestri d’arme riconosciuti sono gli italiani: il più bel trattato sull’arte e l’uso della scherma lo scrive Ridolfo Capo Ferro nel 1610. Nel gran secolo francese, l’equitazione è di scuola italiana: l’accademia Grisone di Napoli, poi accademia Pignatelli… Del resto, anche Mazzarino è farina di casa nostra, così come Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV e madre di Luigi XIII. Douce France…