Valorizzare i beni e le attività culturali per generare indotto e occupazione è una delle sfide che l’Italia ha davanti nei prossimi anni. Un’Italia post-industriale può e deve ripartire da una nuova definizione di economia della cultura. I beni culturali possono diventare un motore economico? Diversi paesi europei ci stanno provando. L’Italia ha 51.693 immobili, pari a circa 55 mila chilometri quadrati, ovvero il 18% della superficie del Paese, vincolati per interesse storico (dati MIBAC) e il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante ciò, il ritorno economico degli assets culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, ci sia un ritorno commerciale pari a 16 volte quello del Belpaese; gli assets culturali di Francia e Regno Unito rappresentano un valore aggiunto tra 4 e 7 volte il nostro con circa due punti percentuali di PIL in più derivanti dal settore.
di Alessandro Ingafù del Monaco da Tafter del 4 dicembre 2012
Il lancio di un piano nazionale che individui ed organizzi le potenzialità territoriali al fine d’incentivare e sviluppare il settore turistico e culturale (che ormai ci vede sorpassati dalla Francia) è ormai un’esigenza inderogabile per dare nuovo slancio all’economia. Intraprendere tale percorso significa dotarsi degli strumenti per avviare un sistema produttivo centrato sulla creatività e l’innovazione e costruire una filiera tecnologicamente avanzata in grado di offrire servizi di qualità. Una efficiente gestione manageriale delle materie prime italiane (patrimonio storico e ambientale) accompagnate ad un’adeguata attenzione al territorio attraverso il lancio di manifestazioni come festival, riproposizioni tradizionali o centri culturali, rappresentano la scintilla per far partire lo sviluppo di una vera e propria industria creativa con un suo indotto in grado di dare fiato all’economia e che sappia rispondere alla domanda di lavoro crescente. Last but not least, è necessario individuare e attrarre i nuovi potenziali stakeholders, pubblici e privati.
A tal fine strumenti quali il marketing territoriale, la progettazione integrata con gli enti locali e la valorizzazione delle potenzialità individuate nel contesto identitario di un territorio potrebbero tradursi in creazione di marchi di “qualità”, una forma di made in Italy intangibile capace di generare ricchezza. Festival e appuntamenti culturali di diverso genere, hanno la potenzialità di attrarre pubblico nazionale e internazionale e generare indotto in territori privi di tessuto industriale ma con potenzialità legate all’industria culturale. È dunque necessario valorizzare: per farlo servono investimenti e una visione politica che definisca risorse e rapporti fra pubblico e privato; infine serve attrarre audience che per partecipare e spendere ha bisogno di lavoro.
Sul tema del lavoro va evidenziato come il mercato della cultura in Europa, composto da oltre 41.000 imprese, impieghi direttamente più di 220.500 persone generando un indotto significativo. Tra il 2007 e il 2011 i posti di lavoro creati nell’industria culturale in Italia sono stati 55mila (fonte: Excelsior), un buon segno che ci dice come lo sviluppo del nostro patrimonio culturale può e deve contribuire alla creazione di posti di lavoro. Per confermare il trend positivo dell’industria culturale, l’Italia ha bisogno di un Ministero dei Beni e delle Attività Culturali che venga subito dopo quello dell’Economia, capace di stabilire una linea di sviluppo e la strategia per attuarlo e che non si faccia carico della sola manutenzione dell’enorme patrimonio del Paese. Cercheremo di capire cosa ha in mente il Governo quando parla di liberalizzazione del settore culturale: se si tratterà di una legittima apertura di nuovi spazi alle iniziative e alla gestione dei private o della solita dismissione (Vedi caso Tod’s – Colosseo).
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Inserito su www.storiainrete.com il 6 dicembre 2012