Oggi, domenica 28 ottobre 2012, è il novantesimo anniversario della Marcia su Roma, primo atto del regime fascista. È la data che ritroviamo sui manuali di storia, insieme alle fotografie di Benito Mussolini e del re Vittorio Emanuele III, protagonisti di un cambio d’epoca destinato a durare vent’anni. In realtà la marcia comincia subito dopo la fine della guerra mondiale del 1915-1918.
di Giampaolo Pansa da “Libero” del 28 ottobre 2012
Tra il marzo e il novembre 1919 vengono congedate undici classi di leva. Un fiume immenso di uomini, molto diversi per età e condizioni sociali, ritornano a casa, ma non si sentono in pace. I soldati sopravvissuti al mattatoio delle trincee sono carichi di rabbia. Nella grande maggioranza si tratta di contadini senza terra che si ritrovano più poveri di prima.
Anche gli ufficiali di complemento, quasi tutti della piccola borghesia, hanno molti motivi per ribellarsi. Vengono sfottuti e sputacchiati. Una circolare del governo li obbliga a vestire in borghese e gli vieta di portare la pistola. I loro redditi sono mangiati dall’inflazione. Si accorgono che operai, salariati e braccianti vivono meglio e possono contare su molti difensori: le leghe, il sindacato e il Partito socialista, sempre più potente.
Il 16 novembre 1919 si tengono le elezioni per la Camera dei deputati. La campagna elettorale svela l’aggressività dei socialisti. Per chi non sventola la bandiera rossa è molto difficile tenere un comizio. Nell’area che prenderò in esame, il territorio della Lomellina, in provincia di Pavia, vengono messi a tacere liberali, popolari, agrari, combattenti.
I socialisti li bollano come lerciume borghese, clericale, guerrafondaio. La piazza rossa li obbliga al silenzio e alla fuga. La borghesia comincia a temere di perdere la libertà. Dice: i socialisti vogliono fare come nella Russia di Lenin. Dunque il bolscevismo va fermato prima che trasformi l’Italia in un soviet. Ma i socialisti diventano il primo partito: 32,4 per cento dei voti e 156 deputati. La lista dei Fasci di combattimento guidata da Mussolini non ottiene neppure un seggio.
Il trionfo del Psi moltiplica gli iscritti al partito: erano 23 mila nel 1918, adesso sono 87 mila. Spettacolare è la crescita dei tesserati alla Confederazione generale del lavoro: da 220 mila diventano un milione e 250 mila. Sembrano truppe pronte all’attacco dello Stato monarchico. Il 20 novembre 1919, l’Avanti! grida: «L’Italia della rivoluzione è nata». Il giornale socialista lomellino, Il Proletario, scrive: «La rivoluzione sarà a breve scadenza. Avverrà come un fenomeno naturale, come avviene una burrasca».
Nel 1920 la previsione sembra avverarsi. Nelle campagne padane emerge lo strapotere dispotico delle Leghe rosse, associazioni sindacali di mestiere che reggono le Camere del lavoro. Chi non obbedisce alla Lega, padrone o bracciante che sia, è punito con il boicottaggio e non campa più. A volte gli ordini della Lega rossa rasentano la follia: «Il socio X.Y. sa ben poco del socialismo. Dovrà imparare a memoria questi dieci articoli dell’Avanti! e poi verrà a farsi interrogare nella sede della lega».
Nel marzo 1920 il sindacato rosso prepara il ko per la borghesia agraria. È il nuovo concordato agricolo, un contratto con tre richieste. La prima impone alle aziende l’assunzione di un uomo e una donna ogni tante pertiche di terreno coltivato. La seconda stabilisce che gli agricoltori, quando hanno bisogno di braccianti o salariati, devono rivolgersi soltanto alle leghe della Federterra. La terza richiesta è di istituire in ogni cascina il fiduciario d’azienda, un controllore del sindacato che vigili sull’applicazione del nuovo contratto.
Gli agricoltori dicono di no. Sono pronti a trattare sugli aumenti di paga, ma non accettano di veder limitati il diritto di proprietà e la libertà d’impresa. La replica della Federterra e delle leghe è immediata: un grande sciopero agricolo dal 5 marzo 1920, nell’area di Pavia, Vercelli, Novara e del Monferrato casalese. Migliaia di braccianti e salariati sospendono di colpo il lavoro. S’inizia una lunga fase di violenze, devastazioni, assalti alle cascine, bastonature di padroni e fittavoli, incendi dolosi, pestaggi di crumiri, blocchi stradali per impedire i trasporti di foraggio destinato al bestiame.
Dopo un mese, per piegare la resistenza delle aziende, il sindacato rosso ingiunge ai bovari di non occuparsi più del bestiame. Devono smettere di governarlo, di nutrirlo e, soprattutto, di mungere le mucche da latte. Il divieto scatta dal 5 aprile e ha una conseguenza estrema: lasciar morire stalle intere di buoi e di vacche. Ogni sera le leghe timbrano le mani dei bovari. E ogni mattina il capolega controlla le palme dei mungitori per accertarsi che non abbiamo lavorato di nascosto durante la notte.
La decisione di non mungere le vacche si rivelerà un boomerang. Il 21 aprile 1920, gli agricoltori sono obbligati ad accettare tutte le richieste e firmano il nuovo concordato. Ma lo sciopero agrario, con i suoi eccessi, provoca un odio di classe potente. Sarà questo il concime che, neppure un anno dopo, farà spuntare la pianta dello squadrismo.
A rendere più rovente il clima delle campagne, il 9 ottobre 1920 è un altro sciopero indetto per ottenere l’aumento dei salari. Le cascine ritornano sotto assedio. Ci sono sparatorie, un agricoltore è soppresso a rivoltellate. Subito dopo, fra l’ottobre e il novembre 1920, le elezioni amministrative vedono un trionfo delle giunte comunali socialiste.
Tutto congiura per il ripetersi di una vecchia legge naturale: a ogni azione corrisponde una reazione. Il 20 novembre 1920 nasce il fascio di combattimento della mia città, Casale Monferrato. Gli iscritti sono appena tredici, a guidarli c’è un giovanotto di 25 anni, Giovanni Passerone, ex ardito nella guerra mondiale. Sarà lui il capo di una guerriglia che manderà al tappeto il potente socialismo casalese.
Il fascio di Mortara viene fondato il 13 febbraio 1921. Sotto gli sguardi increduli dei socialisti locali che sei giorni prima si vantavano sul Proletario: «Il fascismo non si è ancora impiantato in Lomellina». Anche qui sembrano «quattro gatti spelacchiati» come scrive il giornale Bandiera rossa. In realtà si tratta di gatti infuriati che nel volgere di pochi mesi distruggono l’apparato massiccio del Partito socialista e della Federterra della provincia, forte di 41 mila braccianti e salariati.
Accade quello che nessuno aveva previsto: i pochi in camicia nera hanno la meglio sui tanti in camicia rossa. Gli squadristi sono piccoli reparti a più strati. Uomini chiamati da fuori, di solito ex arditi ed ex bersaglieri. Giovani di destra che sono stati ufficiali nella guerra mondiale. E infine i giovanissimi: studenti, operai, contadini, tutti al di sotto dei vent’anni, con una determinazione quasi feroce.
È una massa d’urto di proporzioni ridotte che presto trova due capi: il colonnello Silvio Magnaghi e soprattutto Cesare Forni, 30 anni. Figlio di una grande famiglia di fittavoli, è destinato a diventare il leader delle squadre padane, l’uomo che conquisterà Palazzo Marino, il municipio di Milano. Le camicie nere ai suoi ordini non sono molte: meno di quattrocento uomini tra il 1921 e il 1922.
Magnaghi e poi Forni fanno terra bruciata attorno agli avversari. I capilega, i sindaci, i dirigenti socialisti sono costretti a nascondersi o a fuggire. Del resto non hanno alleati. Chiedono di essere protetti da uno Stato che volevano abbattere. E dalla polizia e dai carabinieri che avevano sempre considerato una guardia bianca, al servizio della borghesia, degli industriali, degli agrari.
La sinistra si è uccisa da sola, con i propri errori. È accaduto all’inizio degli anni Venti, prima della marcia su Roma. Un suicidio che potrebbe anche ripetersi oggi, se a prevalere fosse l’estremismo.
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Inserito su www.storiainrete.com il 29 ottobre 2012