«La Regia Ambasciata è stata incaricata di voler pregare il Ministero degli Affari Esteri del Reich affinché vengano annullati i provvedimenti erroneamente adottati e si provveda di conseguenza al ritorno alle rispettive residenze degli ebrei in questione che risultano deportati, al rintraccio degli smarriti, ed alla liberazione di quelli già internati in campi di concentramento». La nota dell’ambasciata italiana a Berlino porta la data del 14 maggio 1943 e segna l’inizio di un caso diplomatico tra il governo fascista e l’alleato nazista che per due mesi rimbalza tra Roma, Berlino e Atene e finisce pure sulla scrivania di Adolf Eichmann, «specialista» della Shoah, l’ Obersturmbannführer delle SS che da marzo aveva organizzato la deportazione ad Auschwitz e Treblinka di 55 mila ebrei greci. Succede che i tedeschi, per «errore», hanno deportato da Salonicco anche degli ebrei italiani e il regime che nel ’38 aveva approvato le leggi razziali non ci sta e protesta: li rivuole indietro, «in quanto il governo italiano si sente obbligato a proteggerli per motivi morali, patriottici o per interessi nazionali», informa la Regia ambasciata il 15 giugno ’43.
di Gian Guido Vecchi dal “Corriere della Sera” dell’8 giugno 2012
Un carteggio straordinario che la storica Sara Berger – ricercatrice del Museo della Shoah in via di costituzione a Roma – ha rintracciato nell’Archivio politico degli Affari esteri tedeschi di Berlino. La lista degli ebrei rivendicati dall’Italia comprende 75 persone anche se «gli italiani veri sono una trentina, gli altri non hanno nazionalità ma li si fa passare per tali: console a Salonicco era Guelfo Zamboni, che nel ’92 fu riconosciuto come Giusto delle nazioni dallo Yad Vashem», ricorda lo storico Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti della Shoah nonché direttore del Museo di Roma.
Ma tra i 75 c’è una persona intorno alla quale ruota tutto il caso. Ha settantatré anni, si chiama Doudoun Levi Venezia ed è la nonna di Shlomo Venezia, autore del libro Sonderkommando , uno degli ultimi sopravvissuti delle squadre di prigionieri costrette a lavorare tra forni e camere a gas di Birkenau per ripulire e portare via i cadaveri: i Sonderkommando venivano periodicamente gasati, i nazisti non volevano testimoni, Shlomo sopravvisse perché faceva parte dell’ultima squadra prima della liberazione di Auschwitz.
Non aveva mai saputo di preciso cosa fosse accaduto a sua nonna. Solo a Salonicco vivevano più di 45 mila ebrei e quelli greci erano stati chiusi dai nazisti nel quartiere-ghetto Baron Hirsch. Ogni notte partivano i treni verso i campi di sterminio. Dalla deportazione erano risparmiati gli ebrei di altre nazionalità, italiani, spagnoli, portoghesi, turchi. Shlomo, come italiano, abitava appena fuori dal ghetto, ma una parte della famiglia, che non aveva nazionalità italiana, era finita a Baron Hirsch: «Non so nemmeno quando partirono». Nel ghetto era finita anche la nonna, che pure era ufficialmente italiana. Quando nel libro scriveva dei tentativi falliti di portarla fuori, non poteva sapere che proprio il nome della signora Doudoun Levi Venezia sarebbe stato al centro della crisi diplomatica fra i due governi ancora per poco alleati.
Fino all’8 settembre gli ebrei italiani sono ancora «protetti». Così l’ambasciata italiana a Berlino pone il problema, anche se all’inizio sbaglia a trascrivere il nome e scambia il cognome per la provenienza: «È stato segnalato ad esempio il caso della signora Davran, originaria di Venezia, vedova Levi». È interessante come nella lettera del 14 maggio ’43 si legga che «è stata deportata in Polonia», fa notare Pezzetti: «In Polonia : il governo italiano sa di Auschwitz». Il console generale a Salonicco, Fritz Schönberg, si giustifica in un telegramma a Berlino del 28 maggio dicendo che la signora «non aveva potuto presentare alcun documento». Quando è arrivata la richiesta, scrive il 4 giugno all’ambasciata italiana il ministero degli Esteri tedesco, «la signora si trovava già nelle zone orientali». Le zone orientali : il luogo della Shoah. Ma l’ambasciata insiste e Eberhard von Thadden, del ministero degli Esteri tedesco, scrive il 19 giugno ad Eichmann: «In allegato troverà la lista finale, secondo quanto dicono, degli ebrei greci che sono richiesti dagli italiani… Gli italiani dimostrano, come noto, un grande interesse per la cittadina italiana indicata al numero 1 della lista, Dundun Venezia…».
Come si spiega tutto ciò? Pezzetti sospira: «Io credo che in generale la situazione sia questa: Mussolini, ogni volta che viene sollecitato da richieste tedesche di accelerare una “soluzione della questione ebraica”, concede qualcosa agli alleati. Addirittura, già nell’agosto del 1942, dà un vero e proprio nulla osta alla liquidazione degli ebrei in Croazia. Poi, però, i militari e i diplomatici fanno dei passi concreti in senso contrario: per umanità o senso dell’onore, ostacolano di fatto la politica antiebraica».
Le carte finiscono qui. Con il telegramma del 19 giugno, che chiede ad Eichmann di «rintracciare» e «mettere a disposizione degli italiani» le persone della lista. Ma è tardi. La signora Venezia, partita a marzo, è stata uccisa all’arrivo. Nel Krematorium II, la catena di montaggio dello sterminio aperta proprio nel marzo del ’43, il primo dei quattro grandi impianti con camere a gas e forni crematori oltre le baracche del «posto delle betulle»: Birkenau. Lo stesso Krematorium nel quale il nipote Shlomo Venezia, deportato a vent’anni dopo l’8 settembre, si sarebbe trovato a lavorare.
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Inserito su www.storiainrete.com il 13 giugno 2012