Dal 7 al’11 agosto 2006 la Universidad Complutense de Madrid ha dato vita ad un corso estivo dal titolo «Terrore e terrorismo nell’Antichità». “Storia in Rete” pubblica la relazione di chiusura dei lavori, intitolata “Considerazioni generali sul terrorismo nel mondo antico”. Dalla violenza protonazista di Sparta sugli iloti sottomessi, al terrorismo di stato e contro lo stato delle rivolte tirannicide, dei golpe politici, delle sollevazioni servili. L’Antichità innalzò i suoi monumenti sul sangue –
di Luciano Canfora da Storia in Rete n. 18
All’Università di Monaco di Baviera, per il 2 maggio 1945, era stata indetta, da Helmut Berve, professore di Storia antica nell’Università di Monaco, una grande conferenza pubblica su «Sparta», nella cornice dell’Università più nazista del Reich. Il progetto fallì perché nel frattempo il Reich – che pur doveva durare mille anni – crollò. Sparta, idealizzata a suo tempo, perché non ben conosciuta, dai protogiacobini come l’abate Mably, dominava, anzi galvanizzava, la fantasia del Führer. «Il più luminoso esempio, nella storia umana, di Stato a base razziale», così Hitler definiva Sparta. Di quel modello egli ammirava in particolare il modo «miracoloso» onde una minoranza aveva dominato e sfruttato masse di uomini razzialmente «inferiori». Un vero e proprio modello per il Terzo Reich alle prese con masse di slavi, latini, zingari etc. da dominare nell’ambito dell’incombente «Nuovo Ordine Europeo». Quel «miracolo» che affascinava il Führer s’era realizzato attraverso il terrore, un terrore si potrebbe dire «di Stato», del quale gli Spartiati – minoritaria casta «razzialmente pura» e «virtuosa» e votata al proprio interno all’«uguaglianza» – erano i protagonisti. Protagonisti attivi e omicidi, se si considera che una delle pratiche di «iniziazione» dei giovanissimi spartiati consisteva in un aspro addestramento nel corso del quale, narra Plutarco («Licurgo» 28), essi – tra le altre incombenze inerenti a tale tirocinio – massacravano qualunque ilota incontrassero. Gli iloti (cioè quanto sopravviveva di una preesistente popolazione ormai soggiogata) erano i loro schiavi. Le bande di giovani addestrati all’assassinio erano, dunque, nei confronti di quella massa succuba e ostile, un fattore potente di controllo sociale. Lo spartiata era armato, mostruosamente armato; i suoi iloti «scudieri» in guerra no. Che lo schiavo non debba nemmeno toccare le armi era un dogma anche a Roma dopo le spaventose rivolte di schiavi in Sicilia: una legge prevedeva che venisse passato per le armi lo schiavo scoperto «cum telo», cioè con un qualunque strumento somigliasse ad un’arma.
Molti assertori del terrorismo di Stato sono convinti che esso renda, immemori dell’ammonimento di Bismarck, secondo cui «tutto può farsi con le baionette fuorché sedercisi sopra». Nell’esercito romano la decimazione come punizione o addirittura come «tonico» veniva praticata per l’appunto alla luce di tale fiducia nell’effetto positivo del terrore. Lo stesso presupposto valeva anche nel governo della familia (cioè di quella comunità, soggetta al potere assoluto del pater familias, che comprendeva anche gli schiavi proprietà del pater). Nell’anno 61 d.C. – narra Tacito – «il prefetto della città, Pedanio Secondo, fu ucciso da uno schiavo», che amava lo stesso amasio del padrone. Vetere ex more («secondo l’antica consuetudine») si stava per procedere al supplizio di tutti gli schiavi viventi sotto lo stesso tetto, di qualunque sesso o età. La plebe si ribellò contro una tale ecatombe. Il problema fu portato davanti al senato, che fu spinto ad autorizzare la strage dall’intervento dell’autorevole giureconsulto Gaio Cassio, soprattutto con questo argomento: «Dacché abbiamo, tra gli schiavi domestici, gente di diversa origine, con usanze tra le più disparate, che praticano riti stranieri o addirittura nessun rito, la paura (metus) è l’unica possibilità di tenere a freno questa massa. Moriranno, certo, degli innocenti. Ma anche in un esercito che si sia dato alla fuga, quando si flagella a morte un soldato ogni dieci, la sorte può toccare anche a degli innocenti.
Ogni punizione esemplare ha in sé qualcosa di ingiusto, ma si riscatta, con danno di alcuni, nell’utilità generale» («Annali» XIV, 44). La plebe di Roma stava per insorgere, fu Nerone a bloccarla con un minaccioso editto e soprattutto accordando la protezione delle truppe agli incaricati dell’esecuzione capitale di tutti quegli schiavi. Dunque persino il principe-demagogo per eccellenza assunse in questo punto cruciale la linea di condotta caldeggiata dall’ala più tradizionalista del Senato. L’intima natura terroristica dello Stato romano si colse lucidamente in quella circostanza, non a torto reputata da Tacito degna di entrare nel suo racconto di solito incentrato sulla «grande» storia.
Senza cedere a tentazioni idealizzanti si deve tuttavia osservare che ad Atene nel quinto e quarto secolo a.C. – in regime di democrazia radicale che taluni moderni giudicano essere stata una «dittatura del proletariato» – vigeva un’idea diversa. Da una battuta di Aristofane («Nuvole», 6-7) apprendiamo che, con lo scoppio della grande guerra contro Sparta, passò una legge (o solo invalse una consuetudine) che raccomandava di «non picchiare gli schiavi». E più tardi, al tempo delle inarrestabili vittorie di Filippo di Macedonia, in un momento particolarmente disperato, ad Atene si pensò di affrancare masse (centinaia di migliaia) di schiavi per farne dei combattenti. E comunque gli schiavi che avevano combattuto sulle navi ateniesi alle Arginuse (406 a.C.) erano stati effettivamente affrancati; laddove a Sparta gli iloti cui fu fatto intendere che sarebbero stati liberi ove si fossero arruolati con Brasida (424 a.C.) furono tutti massacrati a tradimento. Non ha torto Crizia, feroce oligarca ateniese adoratore di Sparta, quando scrive, nella cosiddetta «Costituzione degli Ateniesi», che ad Atene (dal suo punto di vista) «la licenza degli schiavi è massima». Senza sciogliere inni all’humanitas (che in verità scarseggiava) bisogna tuttavia aver chiaro che c’era una differenza notevole tra Atene democratica e lo «Stato razziale perfetto» e terroristico di Sparta, per non parlare della repubblica oligarchica romana.
Ad Atene furono proprio gli oligarchi adoratori di Sparta a far ricorso al terrorismo politico, come strumento di lotta. Normalmente essi – che costituivano comunque una minoranza – non partecipavano alle sedute dell’assemblea popolare (non intendevano né soccombere né adeguarsi) e non tentavano la via «elettorale» verso la più alta magistratura militare (la «strateghía») perché sapevano di poter raccogliere solo scarsi consensi. Si mossero solo quando la Repubblica vacillò sotto il colpo della sconfitta militare in Sicilia (413 a.C.) e fu allora che passarono all’azione. Il loro problema era quello di conseguire, all’assemblea, la maggioranza. Ciò al fine di varare un paio di norme micidiali contro i pilastri (la remunerazione delle cariche, il processo per «illegalità», l’elezione a sorte dei buleuti [ovvero i rappresentanti della Bulè, il parlamento ateniese NdR]) della democrazia. Ma come può un gruppo, sia pure bene organizzato, di congiurati trascinare all’assenso, e al suicidio politico, una maggioranza? Certo una maggioranza scossa dal disastro militare ma pur sempre istintivamente poco incline a privarsi dei tradizionali vantaggi del suo regime politico. Lo strumento fu il terrore. Gli attentati terroristici furono l’arma che mise in ginocchio l’assemblea, l’«onnipotente» assemblea della più forte democrazia del mondo greco.
L’ateniese Tucidide, che vide lo snodarsi, il successo e infine il fallimento del Putsch del 411 ha concentrato la sua attenzione – nel racconto minuzioso di quei fatti – sulla psicologia di massa. Ciò che maggiormente lo colpisce è il silenzio del popolo e dei suoi riconosciuti leaders: narra, in quella sua «anatomia di un colpo di Stato», come abbia perso la parola la più loquace e rumorosa delle democrazie. «L’assemblea e il consiglio – scrive – continuavano regolarmente a riunirsi, ma si prendevano solo le decisioni gradite ai congiurati. Gli unici che prendevano la parola erano loro, e comunque ogni altro eventuale intervento era preventivamente autorizzato da loro». In preda al terrore, gli altri per lo più tacevano. «E se qualcuno levava una voce di dissenso subito veniva trovato morto», e per giunta – precisa Tucidide – la sua liquidazione avveniva «in un qualche modo appropriato» (frase sibillina) «e non si apriva nessuna inchiesta, anche quando si sapeva dove cercare». Qualche anno più tardi questi stessi uomini riebbero in mano il potere, insediati da Sparta al comando di una impossibile Atene oligarchica e «laconizzata». Durarono poco più di un anno e fu l’anno che non si cancellò mai dalla memoria degli Ateniesi. I «trenta tiranni», come furono detti, si ressero sul terrore e finirono, in un modo tragico, per un atto di terrorismo perpetrato, nei loro confronti, dalla democrazia ormai restaurata ma ancora insicura.
Quella violenta resa dei conti con quel che restava dei «Trenta» era, per così dire, un ritorno alle origini. Infatti, il racconto «sacro» e vulgato, fondativo della coscienza politica in Atene, narrava che la democrazia era nata (o era risorta), verso la fine del VI secolo a.C., grazie ad un atto di terrorismo: ad un attentato che aveva colpito in alto. Fu ucciso il fratello del «tiranno». Statue per gli attentatori, canti in loro onore, solenne e pubblica promessa di fare – se del caso – come loro, erano gli ingredienti di questa salda e semplicistica idea di sé. Il presupposto era, come sempre in tali circostanze, che la sproporzione delle forze rende legittimo lo strumento dell’attentato esemplare o mirato, ovvero del «terrorismo». La sproporzione delle forze e la volontà di non soccombere. Karl Schmitt nell’importante saggio «La teoria del partigiano» (1952) ha cercato di mettere un po’ di ordine in quell’universo frastagliato e dalle cento varianti che è la guerra «partigiana»: dagli «irregolari» che resero catastrofica la ritirata di Russia al Bonaparte ai partigiani spagnoli che resero stabilmente insicuro il predominio dei «napoleonidi» sulla Spagna. Ma l’esemplificazione che Schmitt adduce per riempire le caselle della tipologia che viene costruendo è carente, soprattutto per la totale assenza della fase più antica di questo imponente fenomeno. Le guerre o ribellioni degli schiavi nel mondo dominato da Roma sono l’episodio-matrice, il modello di ogni successiva guerra di irregolari. Pur tra molte specifiche varianti lo schema è costante. Bande di irregolari che con gli attentati e le rapine (di armi e di altro) si rafforzano, diventano eserciti e, nonostante il rifiuto del potere antagonista, cercano un riconoscimento: magari, come nel caso di Spartaco, in vista di un accordo onorevole. E qui falliscono perché su questo punto l’avversario è inconciliabile, contempla solo l’eventualità dell’annichilimento dei ribelli. Di modo che la lotta diventa mortale e non può concludersi che con la distruzione di una delle due parti.
Pensatori e storici lungimiranti capirono già allora che quei «banditi» non erano che la patologia di un sistema sbagliato. Posidonio di Apamea (135-50 a.C.), che era un contemporaneo più anziano di Cicerone e di Cesare ed aveva visto da vicino, in varie parti del Mediterraneo, fino alla Sicilia e alla Spagna, cos’era la condizione umana di coloro cui la società schiavistica classica non concedeva lo statuto di esseri umani, dedicò libri interi delle sue «Storie in continuazione di Polibio» alle rivolte servili, alla loro genesi remota, ai loro esordi, ai loro metodi di lotta. Ne è risultato un vasto affresco, a noi noto indirettamente grazie a fonti che risalgono in un modo o nell’altro a lui. Ciò che Posidonio vide in Sicilia, quando il dramma delle due rivolte si era ormai già consumato, lo portò ad intuire che vi era stata, tra servi e padroni, una circolarità di comportamenti delittuosi: a intuire (o immaginare) una iniziale complicità, nell’imboccare la via dell’illegalità, da parte dei grandi latifondisti italici, più che tolleranti nei confronti del banditismo attuato dai pastori-schiavi provenienti dalle loro tenute siciliane. Il resto della vicenda, come la racconta il siciliano Diodoro che da Posidonio dipende, va ben oltre il quadro di questa iniziale complicità. La violenza si rivolgerà, infatti, innanzi tutto contro i proprietarî.
Quando la guerra era ormai persa, e i ribelli stretti nella morsa dell’assedio di Enna, Euno, il loro capo (che aveva addirittura cercato di fondare in Sicilia un regno degli schiavi modellato su quello siriaco) faceva rappresentare «azioni sceniche con cui gli schiavi raffiguravano la loro ribellione e l’arroganza dei padroni, e la loro violenza che alla fine li aveva portati alla rovina». Questa forma, forse unica nel mondo antico, di teatro rivoluzionario ha un valore straordinario, per quanto scarno sia l’excerptum cui dobbiamo la salvezza di questo dato. Euno infliggeva in tal modo una pedagogia ai padroni, ora prigionieri, e costretti a vedere questo genere di teatro; ma soprattutto era quello un memento per i ribelli nel momento in cui la certezza della sconfitta poteva indurli al cedimento. Quel teatro serviva a riattizzare, nel loro ricordo ancora recente, l’odio contro gli artefici delle loro passate sofferenze: quell’odio che Posidonio additava come sintomo della «malattia» rivoluzionaria e che rappresentava invece per i ribelli – come lo stesso Posidonio si esprime – «la massima arma».
«La violenza che disintossica il colonizzato» secondo la dura definizione di Fanon. Nel nostro presente, il ritrovato, ormai impraticabile, di allontanare dalla vista, dallo sguardo sereno del pensatore illuminato, i «dannati della terra» ha fatto il suo tempo. Posidonio aveva avuto il coraggio intellettuale di andarli a cercare, nelle miniere di Spagna – dove si moriva mediamente a trent’anni – e forse anche nelle tenute, ormai «normalizzate» dalle armi romane, dei latifondisti di Sicilia.