L’omicidio Pasolini? Niente complotti, nessuna trama nera, nessun mistero: l’assassinio del poeta e scrittore friulano sarebbe maturato unicamente nell’ambiente omosessuale. Questa la tesi che Marco Belpoliti sostiene nel suo nuovo ”Pasolini in salsa piccante”, pamphlet che uscirà per Guanda il prossimo 4 novembre, a 35 anni esatti dalla morte del poeta. Un libro destinato a scatenare polemiche perché la presa di posizione di Belpoliti senza dubbio spiazzerà i tantissimi intellettuali, non solo di sinistra, che da decenni interpretano quello di Pasolini come un omicidio politico.
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di Gian Paolo Serino per Il Giornale del 26 ottobre 2010
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Per Belpoliti «Pasolini non è la vittima o addirittura il martire delle trame occulte che dal 1969, e anche prima, hanno intorpidito e manipolato la storia del nostro paese: Pasolini assassinato dai servizi segreti deviati; Pasolini che scopre le piste nere, gli autori degli attentati neofascisti e per questo viene eliminato».
Secondo Belpoliti questa dietrologia è «il sintomo, in senso psicoanalitico, della propensione della paranoia che attanaglia la sinistra italiana, o almeno alcuni intellettuali, scrittori, o persino giudici».
E senza tirarsi indietro continua: «Di Pasolini oggi ci viene offerto un santino quasi fosse – e per tanti magari lo è – il Padre Pio della sinistra, bisognosa, come i fedeli dello stigmatizzato di San Giovanni Rotondo, di uno sciamano che decifri in modo rabdomantico il presente, un sant’uomo cui rivolgersi con religioso stupore e abbandonata fiducia per conoscere il nostro futuro anteriore».
In ”Pasolini in salsa piccante” (la citazione è dal film Uccellacci e Uccellini quando il Corvo consigliava a Totò e Ninetto Davoli che «i maestri si mangiano in salsa piccante») Belpoliti scrive che è giunto il momento di liberarsi dal «complesso-Pasolini che blocca ancora molti, incapaci di sottrarsi alla forza medusea della sua innocenza relativa».
Nei quattro saggi compresi nel pamphlet, accompagnati da scatti di Ugo Mulas, sottolinea la forza di Pasolini come «sublime visionario», come «un uomo e un poeta che usava contraddirsi per restare vivo, per capire e farci capire, un esercizio che gli costava fatica e dolore ma che gli era inevitabile».
Pasolini ha sacrificato se stesso ben prima della propria morte. E per non perdersi, si è perso. Nelle sue notti, nei suoi amori mercenari e clandestini, in quelle sensazioni estreme di cui, una volta smesse le vesti di intellettuale corsaro, aveva bisogno come si ha bisogno di un’espiazione. Quella di Belpoliti non è certo una posizione originale: tanti, anche vicini allo scrittore (su tutti Nico Naldini, di professione poeta e cugino di Pasolini), pensano che la sua fine non sia un mistero.
Ma la posizione in «salsa piccante» non mancherà di bruciare nel «volto» di molti. Dalla critica Carla Benedetti, tra le ideatrici della rivista Primo Amore (che da tempo raccoglie firme on line per la riapertura del processo) ai molti redattori del blog letterario Nazione Indiana (dove è stato allevato, tra gli altri, Roberto Saviano e dove lo stesso Belpoliti ha iniziato a pubblicare i primi interventi piccanti), dagli «ammiratori di Pasolini» (come li chiama Belpoliti, distanziandoli dalla parola «lettori») ai tanti che dietro ogni morte vedono un complotto.
Belpoliti prende le distanze ma tiene a precisare: «Se è necessario si riapra anche il processo Pasolini, ma lo faccia chi per mestiere e per vocazione si è assunto il compito di giudicare, la magistratura, e anche chi, come i poliziotti, di investigare». «A noi», sottolinea, «ne tocca un altro: seppellire Pasolini, dare onore e definitiva pace al suo corpo martoriato che aspetta da oltre trent’anni, non la giustizia dei tribunali, ma il nostro amore incondizionato accompagnato da un altro assoluto dissenso».
Belpoliti esprime da tempo la sua opinione in modo «corsaro»: non all’arrembaggio, come fanno molti, ma dimostrando di aver raccolto più di altri la vera eredità di Pasolini, pur commisurato alla piccolezza del mondo contemporaneo. Per Belpoliti «la vera omissione» nei confronti dello scrittore e regista sta nella «omosessualità rimossa di Pasolini, sempre trattata come una sorta di vizietto, un elemento su cui sorvolare, mentre costituisce la radice vera della sua lettura della società italiana, l’elemento estetico su cui egli ha fondato la critica della società».
E questo sarà forse il passaggio che farà più discutere. Si può concordare o meno ma certo Belpoliti non le manda a dire. Non si nasconde dietro troppi intellettualismi e la sua chiave di lettura dell’omicidio e della «mitizzazione personale» di Pasolini è chiara e, almeno per questo, già vincente.
Lo stesso Pasolini, nello scritto inedito La Luce della Resistenza (che ho trovato nell’archivio di Giancarlo Vigorelli e pubblicato 2 anni fa sulla rivista Satisfiction ) appuntava: «L’equilibrio non va certo raggiunto cancellando uno dei termini del dilemma: ma vivendo il dilemma nel modo più rischioso, intellettualmente e sentimentalmente».
Ed è lo stesso Vigorelli, scopritore di Pier Paolo Pasolini sin da quand’era un poeta adolescente (come dimostrano molte lettere), che nelle sue Memorie (a oggi inedite) racconta forse per primo la sua «verità» sulla morte di Pasolini.
Anche per Vigorelli l’omicidio è maturato nell’ambiente omosessuale: «Ricordo», scrive pochi giorni dopo la morte del poeta, «di aver incontrato Pier Paolo nell’agosto di quello stesso anno. Dopo anni di litigi e incomprensioni mi aveva chiamato per dare voce ad uno dei personaggi del film Salò. Mi recai molte volte negli studi di doppiaggio in via Tuscolana, ma a metà del mio lavoro mi rifiutai di continuare. In quel film c’era una violenza che non conoscevo, quasi il testamento di un uomo e un artista che aveva l’urgenza di comunicare al mondo di essere votato al sangue».
«L’ho sempre considerato», continua Giancarlo Vigorelli, «un uomo ricco di contraddizioni. Non per la sua sessualità, ma per il modo bestiale in cui si consumava durante nottate di violenza che non comprendevo. Fino alle sette di sera era una persona, dopo era tutt’altra. Non ho mai conosciuto, malgrado abbia frequentato come amico i maggiori intellettuali del ‘900, un uomo capace di quelle trasformazioni. Sembrava che a nessuno importasse, a me gelava il sangue quando lo vedevo il giorno dopo le sue avventure notturne pieno di graffi e lividi. Non cercava il sesso occasionale ma la violenza. Era come se volesse essere volutamente picchiato».
«Un giorno», conclude Vigorelli, «a casa mia a Varese Giovanni Testori confidò a me e ad amici che nelle sue serate milanesi Pasolini cercava giovani accompagnatori e litigava sempre sul compenso stabilito in precedenza per cercare lo scontro fisico, in cui aveva sempre la peggio. Non l’ho mai giudicato come uomo, credo che ogni condotta possa essere immorale, ma mi faceva male saperlo così disperatamente solo. Era il senso di impotenza, non il giudizio, a lasciarmi a mia volta impotente. La peggiore sensazione che un essere umano possa provare per un altro».
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Inserito su www.storiainrete.com il 26 ottobre 2010