Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione di Boni Castellane al saggio “Cancel Culture”, di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, appena uscito per i tipi di Signs Publishing (pp. 392, € 20,00).
di Boni Castellane per Storia in Rete del 23 dicembre 2025
L’Ultimo uomo di Nietzsche è l’uomo che vive nell’eterno presente, è l’uomo più indifeso della storia, è quello più manipolabile, quello che si arrende al mondo come volontà perché non si rende conto che la condizione nella quale viene indotto non è l’inevitabile che vogliono fargli credere ma è il preciso e predisposto cammino che il Nichilismo attua nella storia dell’Essere. Essere gettati in questa esistenza ci rende tutti «ultimi uomini» e assistiamo sgomenti a quel carnevale del pensiero che ha preso il nome di woke culture e che altro non e se non l’ultimo frutto deforme e avvelenato dei francofortesi che fanno surf a San Francisco.

Abbiamo vissuto gli ultimi dieci anni di conflitto ad alta intensità, combattuto su piu fronti e con una forza specifica mai raggiunta prima, cercando almeno di riconoscere, se non di contrastare, la dichiarata volontà di dissoluzione delle radici finalizzata all’imposizione di un nuovo ordine. Si sono cosi instaurati due mondi polarizzati: in uno di questi i valori sono definiti come rischi e non esistono i «buoni» ma soltanto i «cattivi» (noi) e le «vittime» (loro). I «buoni» sono esterni e sono i capi occulti che hanno orchestrato, e tuttora stanno utilizzando, la strategia che deve condurre al Nichilismo instaurato. Il woke dunque non è solo un’ideologia politica ma una vera e propria ontologia del vuoto, un capovolgimento orwelliano dove i sentimenti soggettivi schiacciano i fatti oggettivi, dove la bestia del ressentiment devasta il raccolto senza piu freni.
Appare dunque corretto, come si fa in questo saggio, tracciare una genealogia foucaultiana dell’iconoclastia, non come semplice distruzione, ma come esercizio di potere che cancella la memoria per ridefinire il presente, e pare inevitabile rifarsi alla secolare storia dell’iconoclastia per evocare un parallelismo con l’attuale cancel culture la quale non rovescia idoli per sostituirli ma li annienta in nome del nulla. Riecheggia Roger Scruton e la sua oicofobia, l’odio per la propria casa culturale: l’iconoclastia woke non è mera rivolta ma autodistruzione, un «suicidio della civilta» epifenomeno del declino dell’Essere dove l’arte, da finestra sull’Assoluto, diventa bersaglio di un fanatismo acefalo, come ai tempi delle purghe maoiste, che «hanno fatto della cultura della cancellazione e della cancellazione della cultura un instrumentum regni».

La Sinistra che abbandona la lotta di classe per i «nuovi diritti» utilizza la cancel culture come distrazione dalle disuguaglianze reali innescando un processo gramsciano di egemonia culturale invertito: non più per il proletariato ma per atomizzare la società in minoranze intersezionali, eco della «matrice di oppressione» di Crenshaw. Tuttavia la guerra culturale woke non è quasi nemmeno più una rivoluzione postmarxiana ma un’attuazione pedissequa della decostruzione di Derrida, dove i «diritti» woke diventano armi di distrazione per privatizzare settori strategici, un capovolgimento hobbesiano dove il Leviatano si nutre di divisioni artificiali.
Il caso woke «Abramo Lincoln» diventa paradigma di questa prassi: l’emancipatore degli schiavi, icona antirazzista, viene ribaltato nel simbolo del razzismo per «non aver fatto abbastanza». E non è forse questo il ressentiment da manuale? Ogni vittimismo inteso come sistema è sempre e comunque un’inversione etica che riduce l’uomo a «risorsa» da rimodellare.
In questi anni il «nichilismo emotivo» di Herbert Marcuse ha incontrato il consumismo hi-tech, riducendo ogni forma simbolica, l’arte in particolare, a strumento di rivendicazione vittimistica, eco del «falso evento» baudrillardiano. Ed è stato forse il canto del cigno della Scuola di Francoforte, il tentativo finale di traslazione del marxismo dall’economia alla cultura, per risolvere la grande questione che finalmente smaschera il vecchio accordo del 1848: «Lo spettacolo di masse operaie la cui aspirazione non è piu una rivoluzione». E se «solo chi appartiene a una minoranza oppressa ha diritto a narrare la propria realtà» allora siamo al contemporaneo trionfo sia del solipsismo, sia della piu evidente accettazione della Volontà di potenza: non piu cogito ergo sum ma sentio ergo est, in un’epistemologia del sentimento che dissolve la ragione, come Adorno e Horkheimer mostravano in «Dialettica dell’Illuminismo», e dove la scorciatoia per il totalitarismo viene invocata come necessario risarcimento.
Eccoci dunque al woke imperium dove l’intersezionalismo atomizza l’identità, fondendosi con l’«ideologia californiana» di Barbrook e Cameron – sintesi di hippie e yuppies tech – e rimodella la vecchia Silicon Valley amica di Bill Clinton sulle dinamiche onnipervasive dei social: il nuovo terreno politico di coltivazione del consenso. Siamo dunque all’impero woke come estensione dell’eccezionalismo americano, un «destino manifesto» nichilista che polarizza la società in «oppressori» e «oppressi» basando le sue forze «rivoluzionarie» su un contesto politico tutto favorevole e su un contesto finanziario fatto di sostegni illimitati. Se il «contesto» woke e strumento di potere per reinterpretare il passato, se il decostruzionismo che annulla la storia viene consacrato come strumento di normalità politica, ciò può avvenire perché il potere sta già dalla loro parte, perché le forze oppressive sono in realtà mere proiezioni paranoiche di masse annoiate.
L’Europa, colonia inevitabile, accoglie tra gli applausi tutto ciò e lo rimodella in un autogenocidio tra leggi orwelliane e scorie della gestione pandemica dichiaratamente pensata come avanguardia del controllo totale. E così l’odio per la propria casa dissolve l’identità, un «ripudio dell’eredità» che implica l’idea di woke come dittatura soft, eco del totalitarismo arendtiano ma con in piu la spinta della biopolitica di Foucault.
Una nuova Kulturkampf si dispiega oggi negli Stati Uniti che hanno segnato, con la seconda vittoria di Donald Trump, la fine del Novecento. E la base di tale controffensiva sta nel riconoscere proprio nel woke e nelle sue filiazioni un’arma di «genocidio culturale» – per citare Milan Kundera – non piu solo metaforica ma, a causa della torsione terroristica che si registra oggi negli Usa, reale a tutti gli effetti, fatta di morti sul campo, dove resistere significa riaffermare la memoria contro l’oblio imposto. E anche per gli autori del presente saggio la risposta deve dunque essere totale, di piena e inevitabile difesa di radici e valori. Contro il nichilismo woke occorre riaffermare la Tradizione, unico baluardo contro l’Ultimo uomo nietzschiano, combattendo non con le armi del nemico, ma con la verità oggettiva, per un Occidente che non sia piu terra ostile, ma aspiri a farsi dimora dell’Essere.
[immagine d’apertura creata con l’IA]


