Chi erano gli schiavi ribelli? I più privilegiati, colti e non sempre i più ben disposti verso la libertà (altrui)…

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Su Aporia Magazine dell’8 ottobre 2025, Lipton Matthews, ricercatore professionista e YouTuber, ha analizzato i motivi delle rivolte servili nel mondo moderno. Matthews collabora col Mises Institute e Chronicles. È autore di The Corporate Myth.

Le ribellioni degli schiavi sono spesso descritte come esplosioni di sentimenti nati da una miseria insopportabile, come se le masse schiavizzate si fossero sollevate dalle profondità della sofferenza in una sfida collettiva – spiega Matthews. Tuttavia, questa descrizione può forviare. Le rivolte degli schiavi più significative non furono avviate dai più oppressi, ma da coloro che occupavano posizioni relativamente privilegiate all’interno della gerarchia schiavista: autisti, domestici, artigiani, predicatori e persino ex nobili africani. L’influenza limitata a cui questi individui avevano accesso non placò il loro desiderio di libertà. Anzi, alimentò la convinzione che potessero ottenere qualcosa di meglio. E ciò che cercarono di ottenere era spesso piuttosto inegualitario.

Secondo Matthews questa dinamica rispecchia altri modelli rivoluzionari. La Rivoluzione francese si svolse in un momento di crescenti aspettative, non di assoluta privazione. Lo stesso vale per la Rivoluzione russa, alla vigilia della quale la disuguaglianza misurata era solo “media” secondo gli standard dell’epoca. Le rivoluzioni non si verificano tipicamente al culmine della sofferenza, ma piuttosto quando c’è attrito tra le condizioni attuali e il futuro immaginato.

Uno studio dettagliato su St. Croix nei Caraibi offre prove convincenti. Esso rivela che i lavoratori agricoli di status inferiore non costituivano la gran massa dei i ribelli mentre gli schiavi che ricoprivano posizioni più qualificate erano altrettanto ribelli nonostante vivessero in condizioni materiali migliori. Secondo Matthews i privilegi di cui godevano supervisori e schiavi specializzati anziché instillare lealtà accentuavano il contrasto tra la loro servitù e la libertà che desideravano. L’accesso a modi di vita alternativi generava irritazione per le restrizioni piuttosto che soddisfazione per il relativo comfort rispetto agli schiavi meno fortunati

La rivolta di Tacky del 1760 illustra chiaramente questo concetto. Il suo leader, Tacky, era stato un capo dell’Africa occidentale prima di essere ridotto in schiavitù, venduto e trasferito in Giamaica. I resoconti contemporanei suggeriscono però che la sua intenzione non era quella di abolire la gerarchia, ma di prenderne il controllo.

Anche in Brasile – continua Matthews – gli annunci per gli schiavi fuggitivi rivelano che costoro provenivano in modo sproporzionato dai ranghi dei lavoratori qualificati e istruiti rispetto ai braccianti non qualificati.

La ribellione natalizia della Giamaica del 1831, guidata da Sam Sharpe, fornisce un altro esempio. Si svolse durante un periodo di miglioramento, quando la politica britannica obbligava i piantatori a migliorare le condizioni dei loro schiavi. Paradossalmente, il miglioramento del trattamento non placò coloro che erano in schiavitù. Al contrario, stimolò l’agitazione. Sam Sharpe era istruito e attivo nella vita religiosa battista. Seguiva i dibattiti pubblici sull’abolizione e arrivò a credere che la libertà fosse già stata concessa in linea di principio. Secondo lui, i piantatori stavano negando ciò che era loro dovuto di diritto. Secondo un afroamericano libero testimone dei fatti, era diventato comune per gli schiavi dichiarare che la libertà era loro dovuta e che non avrebbero più lavorato senza di essa.

Tuttavia, molte ribellioni di schiavi non perseguivano gli alati principi dell’illuminismo… La rivolta di St. John del 1733, organizzata dagli schiavi Akwamu, mirava a sterminare la popolazione bianca mantenendo il controllo sugli altri neri. Nella rivolta di Berbice del 1763, Cuffy, un bottaio e domestico, propose di dividere la colonia in due sezioni. Intendeva governare una parte come leader di una federazione di gruppi africani, mentre l’altra sarebbe rimasta un’economia di piantagioni sotto il controllo dei bianchi. Un altro leader, Atta, immaginava un regno modellato sulle strutture politiche Akan in cui alcuni gruppi africani sarebbero rimasti sottomessi.

Un complotto sventato ad Antigua metteva in luce i disaccordi tra gli schiavi di origine africana e quelli creoli. Gli africani sembravano intenzionati a sterminare i bianchi e a instaurare un ordine autoritario a loro familiare. Tuttavia, i creoli espressero riserve su una rottura totale e potrebbero aver persino considerato di mantenere la schiavitù degli africani sotto una leadership modificata.

Anche la rivoluzione haitiana, spesso celebrata come un faro di ispirazione per altre popolazioni di schiavi, sembra aver avuto un impatto maggiore sui liberi di colore che sui lavoratori delle piantagioni stessi. Coloro che erano in posizione di ascesa sociale la vedevano come un precedente, mentre i più vulnerabili ne riconoscevano i costi.

Le ribellioni degli schiavi non erano solo esplosioni spontanee di dolore, conclude Matthews. Spesso si trattava di iniziative intraprese da individui che possedevano uno status sufficiente per giudicare la loro condizione e che presumevano di essere capaci di più di quanto la loro posizione consentisse. Le loro lotte non erano solo contro la schiavitù, ma anche per ottenere una posizione sociale migliore. Secondo Matthews, comprendere i meccanismi di queste rivolte non significa sminuire l’ingiustizia della schiavitù, “tuttavia – conclude – non dovremmo travisarle per motivi di correttezza politica”.

Lipton Matthews è può essere contattato all’indirizzo: lo_matthews@yahoo.com

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