Quella sporca guerra: il secondo conflitto mondiale riscritto (senza buoni e cattivi) da Paul Thomas Chamberlin

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Al di là della Normandia, di Auschwitz o di Hiroshima, ci troviamo di fronte a una guerra «imperiale, razziale e coloniale», come spiega Paul Thomas Chamberlin in modo implacabile in «Tierra quemada» (Terra bruciata),

Toni Montesinos da La Razon del 14 ottobre 2025 (traduzione SiR)

Ai margini di un’Europa devastata, quando le rovine di Berlino fumavano ancora, gli alti comandi britannici discutevano in segreto se aprire un nuovo fronte, questa volta contro l’Unione Sovietica. Il piano si chiamava “Operazione Impensabile” e prevedeva un’offensiva occidentale appena sei settimane dopo la sconfitta di Hitler. L’operazione fu archiviata, ma per Paul Thomas Chamberlin quell’episodio la dice lunga sul vero volto della Seconda Guerra Mondiale più di tutti i film di guerra messi insieme. Fin dalle prime pagine del suo libro “Terra bruciata” (traduzione di Noemí Sobregués), si propone di dinamitare la narrazione ortodossa del conflitto: “Una crociata contro il fascismo e una battaglia del mondo libero e democratico contro coloro che volevano distruggerlo”.

Stando così le cose, Chamberlin, storico e professore alla Columbia University, scrive con l’intenzione di smontare quella che considera una versione compiacente, eurocentrica e profondamente parziale della guerra. Al suo posto, offre una panoramica incisiva e globale del conflitto, in cui gli Alleati non emergono necessariamente come eroi e dove l’imperialismo – prima e dopo il 1945 – è il vero sfondo. «La Seconda Guerra Mondiale è stata un’immensa guerra razziale e coloniale segnata da atrocità selvagge in cui imperi rivali hanno combattuto in vaste aree dell’Asia e dell’Europa», scrive l’autore; ai suoi occhi, la narrativa tradizionale ha trasformato questo episodio in «una favola del XX secolo», dimenticando le cause profonde e le conseguenze reali: una lotta per il controllo del mondo in cui le democrazie occidentali non hanno esitato a ricorrere a tattiche coloniali, strategie di sterminio e tecnologie di distruzione.

Il libro, che supera le 700 pagine, riscrive non solo la mappa del conflitto, ma anche i suoi protagonisti. La storia non ruota attorno a Churchill, Roosevelt o De Gaulle, ma alle potenze imperiali in Asia, ai margini coloniali, alle vittime dimenticate dei bombardamenti e delle pulizie etniche che non figurano nei manuali su questi argomenti. «La nostra amnesia collettiva riguardo alle origini coloniali della guerra e alle sue conseguenze imperiali ha privato il conflitto del suo significato», avverte. La sua tesi è che il vero motore della guerra non fu la difesa della libertà, ma la violenta spartizione del pianeta tra vecchi e nuovi imperi.

Oltre i nazisti

In questo lavoro va inoltre sottolineato il suo approccio geografico. A differenza della maggior parte degli studi incentrati sull’Europa occidentale e sul fronte atlantico, Chamberlin punta l’attenzione sull’Europa orientale, il Sud-Est asiatico e il Nord Africa, dove si sono verificati alcuni dei massacri più sistematici del conflitto. In quelle zone, la distinzione tra civili e combattenti è stata completamente cancellata. Le campagne giapponesi in Cina, i bombardamenti britannici su intere popolazioni, i massacri sovietici in Polonia o i crimini coloniali francesi e inglesi nei loro domini sono presentati come il nucleo di questa tragedia chiamata IIGM.

«Terra bruciata» non minimizza certo la barbarie nazista, né il carattere genocida dell’Olocausto, ma insiste sul fatto che, per comprendere la violenza del XX secolo, bisogna guardare oltre i nazionalsocialisti. «La guerra totale non fu sviluppata a Berlino, ma nelle colonie», afferma. La pratica dei campi di concentramento non è nata con Hitler, ma in Sudafrica, durante le campagne britanniche contro i boeri. I bombardamenti aerei contro la popolazione civile furono sperimentati per la prima volta in Iraq, negli anni ’20, dalla Royal Air Force. E le guerre di annientamento furono provate in Africa, decenni prima di arrivare in Ucraina o Bielorussia.

In questo senso, Chamberlin interpreta la Seconda Guerra Mondiale come il culmine di una lunga storia di violenza imperiale: il culmine di secoli di colonizzazione, razzismo istituzionalizzato e conflitti per il controllo delle risorse e dei territori. Quando le potenze europee persero il monopolio della forza, le loro tecniche si globalizzarono. Il Giappone imitò il modello britannico di espansione territoriale; la Germania adottò la logica del Lebensraum (letteralmente, «spazio vitale», ovvero che il popolo tedesco aveva bisogno di più territorio per vivere, crescere e svilupparsi a spese di Polonia, Ucraina e Russia) come versione continentale dell’imperialismo d’oltremare. E gli Stati Uniti, appena ascesi al rango di potenza globale, non esitarono ad applicare tutta la potenza della loro macchina bellica per consolidare la loro egemonia.

Un aspetto centrale del libro è la critica alla narrazione costruita durante la Guerra Fredda. Negli anni Cinquanta, sottolinea Chamberlin, gli storici delle democrazie liberali consolidarono una narrazione eroica della guerra, utile per consolidare la legittimità morale dell’Occidente di fronte al blocco sovietico. Si esaltò il ruolo delle democrazie, si caricaturizzò il comunismo come un nemico equivalente al nazismo e si taceva sul ruolo ambiguo, se non complice, delle potenze coloniali. Si creò così una memoria selettiva in cui Hiroshima era una vittoria della pace e le atrocità commesse dagli alleati erano relegate a note a piè di pagina.

«La seconda guerra mondiale è stata il catalizzatore della riscrittura dell’imperialismo sotto l’egida della geopolitica della Guerra Fredda», scrive l’autore. E sottolinea qualcosa di ancora più inquietante: che la pace del dopoguerra è stata, in molti casi, una riorganizzazione degli stessi meccanismi di controllo coloniale, con nuovi nomi. Le antiche metropoli tornarono ai loro domini asiatici sotto la protezione dell’anticomunismo, collaborando persino con regimi autoritari o con ex collaborazionisti dell’Asse. E le nuove superpotenze – Stati Uniti e Unione Sovietica – imposero le loro sfere di influenza non con la libertà, ma con carri armati, colpi di Stato e corse agli armamenti.

Strutture del vecchio ordine

D’altra parte, Chamberlin dedica gran parte del libro a mostrare come le strutture del vecchio ordine siano state utilizzate per consolidare quello nuovo. Gli ingegneri nazisti furono assorbiti dai programmi spaziali degli Stati Uniti e dell’URSS. Le nuove frontiere furono tracciate non secondo la volontà dei popoli, ma con mappe strategiche che anticipavano i blocchi della Guerra Fredda. Le guerre per la decolonizzazione incontrarono una reazione furiosa da parte delle potenze occidentali, che utilizzarono, ancora una volta, tutto il peso della loro tecnologia militare per mantenere l’ordine imperiale.

Il libro evita, tuttavia, di cadere in una denuncia moralista. Non propone di sostituire i buoni con i cattivi. Ciò che offre è una storia senza redenzione, senza miti né salvatori. “Non esistono guerre pulite”, sembra dire in ogni capitolo. E la Seconda Guerra Mondiale, per quanto sia stata elevata al rango di epopea giusta, è stata una guerra profondamente sporca, in cui il diritto internazionale, i diritti umani e la vita civile sono stati sacrificati in nome di imperi, interessi e supremazie. Forse per questo l’autore non offre conclusioni rassicuranti. Il suo sguardo arriva fino al presente, quando molti dei meccanismi creati nel 1945 continuano a funzionare sotto altre forme: interventi militari, strutture di dominio economico, gerarchie razziali ancora attive. Il glorioso ricordo del D-Day convive con le macerie di Kabul, le rovine di Gaza, i campi profughi dell’Africa o le cicatrici di Nagasaki. E dietro ogni bandiera vittoriosa, ci ricorda Chamberlin, può esserci una storia che nessuno ha voluto raccontare.

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