Crepuscolo e resurrezione del sogno ottomano da Abdülmecid I a Erdogan

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di Eugenio Di Rienzo da Nuova Rivista Storica del 20 settembre 2024

Il 9 gennaio 1853, John Russell, già Primo ministro del Regno Unito dal 1846 al 1852, riportò nel suo diario che durante un colloquio lo Czar Nicola I, questi aveva definito il «Sublime Stato ottomano» (Devlet-i ʿAlīye-i ʿOsmānīye) come «il Grande malato d’Europa». A Russel che gli ribatteva «che è dovere dell’uomo generoso e forte curare l’uomo infermo e debole», Nicola I, dopo aver scrollato il capo, citando un antico proverbio russo: «se durante la caccia un orso sta morendo, dilaniato dai morsi dei tuoi cani, è inutile curare le sue ferite tamponandole con il muschio perché quel medicamento non lo manterrà a lungo in vita».

In effetti, il Devlet-i Ebed müddet (il «Dominio eterno»), la cui esistenza si era protratta per più di cinque secoli, era alla vigilia della Guerra di Crimea un moribondo che sopravviveva stentatamente solo grazie all’interessata protezione di Londra e Parigi. Lo sterminato Impero euroasiatico, mosaico di etnie e di religioni, che nel 1683 abbracciava il Grande Spazio balcanico-danubiano dall’Albania alle coste del Mar Nero, buona parte dell’Ucraina e del Caucaso, tutta l’Asia occidentale, l’intera Africa settentrionale, e che con le sue propaggini insulari e i suoi possedimenti nel Corno d’Africa e nella Penisola arabica, controllava l’Egeo, il Mediterraneo orientale, il Mar Rosso, non era che l’ombra di sé stesso.

Il suo immenso territorio era stato progressivamente amputato dalla reconquista dell’Impero asburgico, della Serbia dei Karađorđević, del Montenegro dei Petrović-Njegoš, dall’erezione della Grecia in Stato indipendente promossa dalle Grandi Potenze europee nel febbraio 1830, dall’Egitto rimasto solo nominalmente provincia ottomana, a norma della Convenzione di Londra del 15 aprile 1840, dopo l’ascesa al potere di Muhammad ʿAli Pascià, autoproclamatosi Chedivè delle province egiziane, sudanesi e dell’eyalet di Acri che nel 1840 aveva mossa guerra all’Impero di Abdülmecid I per rivendicare il governo della Siria e di Creta. Ma la disgregazione dell’Impero ottomano era stato soprattutto causata dalla ininterrotta pressione militare della Russia, protrattasi dal 1686 al 1829, con la quale la dinastia dei Romanov strappò alla Casa di Osman il Caucaso settentrionale, l’Ucraina meridionale, la Crimea, il litorale orientale del Mar Nero, la foce del Danubio, la Bessarabia, una parte del territorio armeno, il controllo, di fatto, della Georgia, della Moldavia e della Valacchia e il libero passaggio per la Voenno-morskoj Flot attraverso i Dardanelli e i Bosforo in direzione del Mediterraneo.

Si trattò di una vera e propria Endless War, come è stata definita dalla storiografia anglosassone. Durante la quale, lo Czar Alessandro II, dopo l’ennesima vittoria delle sue armate, nell’undicesimo confronto bellico russo-ottomano (1877-1888), che avevano goduto del sostegno di una Brigata di fucilieri finlandesi, di un Corpo di volontari bulgari e montenegrini, di contingenti dei Principati Uniti di Moldavia e Valacchia, della Serbia e del Montenegro, impose alla «Sublime Porta» la cessione delle circoscrizioni caucasiche di Kars e Batumi, il riconoscimento de iure della sovranità di Romania, Serbia, Montenegro e dell’indipendenza della Bulgaria che dopo il 1396 era stata incorporata nel Devlet-i Ebed-müddet.

L’invasione francese di Algeri del 1830, quella italiana della Libia del 1911, la “vendita” nel 1878 di Cipro al Regno Unito, in cambio della benevola assistenza fornita alla Potenza ottomana durante il Congresso di Berlino, l’imposizione da parte di Parigi del forzato patto di protezione al Bey di Tunisi nel 1881, e nel 1882 l’occupazione dell’Egitto da parte del British Army, che pure rimase formalmente inquadrato nell’Impero ottomano sino al 1914, divenendo solo allora protettorato britannico, privarono, poi, Istanbul della supremazia sull’Africa del nord e su ampie zone del Mediterraneo.

Infine, la sconfitta ottomana prima Guerra balcanica (ottobre 1912 – maggio 1913) e nel primo conflitto mondiale fecero il resto. Con il Trattato di Londra del 30 maggio 1913, il «Divano» fu spossessato del Sangiaccato di Novi Pazar, dell’Albania, della Tracia, della Macedonia, della provincia di Trebisonda da annettere alla cosiddetta Prima Repubblica di Armenia. E, con quello di Sèvres del 10 agosto 1920, il Padiscià Mehmed VI, pagando il prezzo dell’alleanza contratta da Istanbul con le Potenze centrali, dovette rinunciare a tutti i suoi domini nell’Asia occidentale, con il risultato di ridurre l’estensione dell’Impero di Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, alla sola Penisola anatolica. Decurtata, però, di Smirne assegnata all’amministrazione dello Stato ellenico e di alcune zone economicamente strategiche, come la provincia di Antalya dove era stata individuata la presenza di un ricco bacino carbonifero, che fu occupata nel marzo del 1919 dal Regio Esercito, e, secondo il disatteso dettato del Patto di Londra, sarebbe dovuta restare sotto l’influenza del Governo di Roma, quasi come un’exclave del Regno d’Italia.

Su tutta questa complessa tematica interviene ora Fabio L. Grassi, che dopo avere biografato l’eversore della dinastia ottomana, il fondatore della Repubblica di Turchia e il suo padre-padrone fino alla morte (Atatürk. Il fondatore della Turchia moderna, Roma, Salerno, 2008, nuovamente edito nel 2020), punta ora la sua attenzione sui vinti con La fine del potere ottomano. L’ultimo Sultano, l’ultimo Califfo, gli ultimi Gran Visir, pubblicato da Marietti 1820. E una volta ancora, con le sue solide competenze linguistiche e filologiche, arricchisce la storiografia italiana di un contributo valido e imprescindibile, trattando e illuminando l’operato di personalità sulle quali la letteratura scientifica è molto scarsa, non solo in Occidente ma –  pour cause – nella stessa Turchia.

Il titolo del libro non è casuale: da parte del parlamento di Ankara l’Impero Ottomano fu dichiarato defunto il 1° novembre 1922, ma per decisione della stessa assemblea fino al 3 marzo 1924 ci fu ancora un Califfo ottomano, Mehmed VI, deprivato di formale potere politico e tuttavia in teoria ancora detentore di un grande potere morale di natura religiosa. In questo modo si realizzò beffardamente, per meno di un anno e mezzo, ciò che molti occidentali avevano sempre pensato e che invece la giurisprudenza islamica aveva sempre negato, ossia che il Califfo fosse una omologo del Pontefice romano. Tanto intricata e insidiosa è la questione che ad essa è opportunamente dedicata, nel saggio di Grassi, un’appendice, in cui sono citati e discussi recenti e importanti contributi italiani e stranieri.

Introdotta da un’intensa e utile sinossi, quella mostrata da Grassi è una storia né di loschi traditori della patria né di eroi senza macchia e senza paura. Piuttosto, è una storia che conferma come massime nemiche delle grandi ragioni siano non tanto i palesi torti ma le piccole ragioni. Dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale e dopo avere constatato che gli obiettivi del Regno Unito erano ben altra cosa che gli “equi” propositi di Thomas Woodrow Wilson, il penultimo ultimo erede della Casa di Osman da una parte sperò invano in un “ravvedimento” degli Inglesi dall’altro, avallò inizialmente, se non addirittura promosse, nel maggio 1919, la ribellione anatolica guidata da Mustafa Kemal, il futuro Atatürk, analizzata nel capitolo, dall’appropriato titolo, “Le misteriose giornate di maggio” che, denso di nuovi e importanti apporti, è il cuore del libro.

In seguito, tuttavia, il debole Sultano, una sorta di roi fainéant di merovingia memoria, ebbe paura delle conseguenze e nei confronti delle imposizioni alleate esercitò non più che una blanda resistenza passiva. Ciò che lo paralizzò fu il timore che anche Istanbul potesse essere sottratta a quel poco che restava dell’Impero. Questo timore non era irragionevole, ma lo portò a un’acquiescenza che i suoi sudditi musulmani non gli perdonarono e a un disonore che si riverberò anche su membri della famiglia meno remissivi. La defenestrazione sua e poi del cugino, Abdülmecid II, fine artista di idee liberali, che restò nominalmente al potere fino all’abolizione del Sultanato, il 1° novembre 1922, mantenendo, comunque, per circa due anni il titolo di Califfo, avvenne infatti senza alcuna manifestazione di contrarietà popolare. Tra i Gran Visir di quel periodo, uno solo, infatti, si distinse per un atteggiamento particolarmente arrendevole nei confronti degli inglesi, mentre gli altri furono in varia misura benevoli o perfino simpatizzanti nei confronti del movimento politico-militare guidato da Atatürk, che si opponeva con le armi al diktat di Sèvres.

Con la consueta vivacità e leggerezza di scrittura, Grassi tiene insieme i fili di una vicenda complessa e piena di ambiguità, di cui sono parte i confliggenti appetiti delle Potenze Alleate (amaramente divertenti certe pagine relative alle ambizioni economiche italiane!), e in cui risuona di tanto in tanto, come un tuono lontano, il passo chiodato del «pericolo rosso del bolscevismo» che, dalla prospettiva del Bosforo, molto preoccupava le classi dirigenti europee e asiatiche.

Eppure, «il Grande malato d’Europa» era destinato nel breve e nel lungo periodo, come un individuo colto dalla sindrome della morte apparente, a sopravvivere e anche a tentare di rinascere dalle sue ceneri. Come, contro ogni interpretazione «occidentalista», ci spiega il penetrante volume di M. Şükrü Hanioğlu, docente presso l’Università di Princeton, A brief history of the Late Ottoman Empire, meritoriamente pubblicato in traduzione italiana da Sellerio Editore, la rivoluzione dei Giovani Turchi, iniziata nel luglio del 1908, non contro l’Impero ottomano ma col proposito di adeguarne le istituzioni alla nuova congiuntura creatasi nel fronte estero e in quello domestico, non si limitò a costringere il Sultano Abdul-Hamid II, poi deposto, nell’anno successivo, a favore di Mehmed VI, a ripristinare la costituzione del 1876 e a modificarla, esaltando la centralità della Camera dei Deputati eletta dal popolo, a spese del Senato di nomina imperiale e delle troppe estese prerogative dell’ospite del Palazzo di Yıldız e del folto stuolo dei suoi funzionari.

Il Sultanato, infatti, nella stagione della Tanzimât (il complesso delle riforme susseguitesi dal 1839-1876), si era impegnato a rinsaldare la tenuta interna dell’Impero, ad arrestare il suo progressivo declino internazionale, ad osteggiare le molteplici e contrastanti spinte centrifughe delle diverse etnie e delle diverse confessioni, a integrare i non-musulmani e i non-turchi nella società ottomana e a tutelare i loro diritti mediante l’applicazione del principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, puntando sulla diffusione del paradigma ideologico dell’Ottomanismo (Osmanlıcılık). Contraddittoriamente, però, tutto questo avvenne senza rinunciare all’antica filosofia di riferimento della centralizzazione, alla quale furono asserviti i nuovi strumenti tecnologici di derivazione europea per raffinare i meccanismi di controllo sulla periferia del «Sublime Stato ottomano». E mantenendo inalterata la struttura di un apparato burocratico bulimico, oppressivo, corrotto, al quale, in una lunga durata secolare, era stato consentito di agire come un corpo separato, legibus solutus, non responsabile nei confronti del Padiscià e dei suoi Visir.

Al contrario, la cosiddetta «Seconda era costituzionale» (İkinci Meşrûtiyyet Devri), promossa, tra 1908 e 1913, dal Partito dei Giovani Turchi, denominato «Comitato Unione e Progresso» (CUP), ebbe come primo obiettivo una riorganizzazione dell’Impero in chiave nettamente decentralizzazione, attenta alle rivendicazioni autonomistiche di tutte le minoranze etnico-religiose, che investì tutti i rami dell’amministrazione sia militare sia civile. E che ancora nel dopoguerra avrebbe costituito la struttura profonda dell’apparato istituzionale, nei territori dell’Asia centrale ex ottomana Libano, Siria, Iraq, Transgiordania, affidati dalla Società delle Nazioni a Francia e Inghilterra attraverso il «sistema dei mandati», un ipocrita eufemismo adottato per non utilizzare il politicamente scorretto termine di colonie.

Quella sfida alla modernità fu comunque partita persa per i Giovani Turchi proprio riguardo al mantenimento in vita dell’Impero. Quando nel novembre del 1914 il triumvirato composto da tre dei maggiori leaders del CUP, il ministro degli Interni Mehmed Talat, quello della Guerra, Ismail Enver e il responsabile del Dicastero della Marina militare Ahmed Cemal, ancora alla ricerca di una soluzione alle richieste dei gruppi riformisti arabi e armeni, accondiscesero alle istanze di una frazione del loro partito e siglarono un protocollo segreto di mutua assistenza con la Germania che portò il Devlet-i Ebed-müddet a entrare in guerra contro l’Intesa, il 29 ottobre 1914. Quella scelta di fronte fu, secondo Şükrü Hanioğlu, fatale per il destino del Sultanato perché non furono le sue dinamiche interne ma il nuovo ordine internazionale, figlio della prima guerra mondiale, a suonare la campana a morto del «Grande malato d’Europa». Sebbene, l’organismo politico ottomano non avesse tutte la capacità di trasformarsi in un nuovo tipo d’Impero meglio attrezzato ad affrontare le insidiose congiunture del Novecento, i suoi dirigenti avrebbero potuto, infatti, prolungarne l’esistenza, se dopo il rombo dei cannoni di agosto avessero optato per la neutralità.

E, invece, nelle ultime settimane dell’inverno del 1924, con l’abolizione del Califfato deliberata dalla Grande Assemblea Nazionale Turca, quel malato diede il suo ultimo respiro. Tuttavia, dopo poco meno di un ventennio dall’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan, sono partiti da Ankara inequivocabili segnali nella volontà di trasformare la Turchia in Repubblica imperiale, approfittando del magmatico ribollire del disordine mondiale che ha contraddistinto l’alba del Terzo millennio.

In un contesto internazionale segnato dal Decline and Fall of the American Empire, all’esterno e all’interno dei suoi confini, dal confronto assertivo tra Pechino e Washington dell’Indopacifico, dall’imperversare di due conflitti quasi mondiali in Ucraina e in Palestina, dall’auto-marginalizzazione dell’Unione Europea nello scenario diplomatico globale, dalla costituzione di un’alleanza jihadista che sotto la guida e grazie al finanziamento di Teheran ha demolito la secolare contrapposizione tra Sunniti e Sciti, la Nazione governata col pugno di ferro di Erdoğan appare decisa a giocare, in tutta autonomia e a tutto campo, la sua partita neottomana e panislamica anche al di là dei confini del Devlet-i ʿAlīye-i ʿOsmānīye.  E di proiettare la sua egemonia in alcuni Stati dell’Europa sud-orientale, nel Caucaso, in Asia occidentale, in Africa settentrionale, estendendo la sua longa manus, per usare le parole del dodicesimo Presidente della Repubblica turca «dai Balcani al Danubio, dal Mar Egeo, al Mar Nero, al Mar Rosso fino alla frontiera nord-orientale dell’India e all’interno della Cina».

Indubbiamente questo «vasto programma» può apparire soltanto «voce del sen fuggita» e essere valutato al pari di una sbiadita cianografia del velleitario progetto che Francisco Franco enunciò, dopo la guerra civile, nel discorso pronunciato a Madrid, al termine della della sfilata della vittoria. Quando il Caudillo prospettò la possibilità di far risorgere, sotto mutata forma, l’Imperio espiritual della Spagna di Filippo II che avrebbe ricongiunto l’etnia ispanica della madrepatria a quella delle Nazioni subentrate al Reino de Tierra Firme dell’America latina centrale e meridionale.

Eppure, la stessa collocazione geopolitica della Turchia, posizionata in un’ubicazione altamente strategica negli attuali bacini di crisi (il Medio Oriente e la costa ucraina dell’antico Mare Pontico che, se non sarà più probabilmente un lago russo, non diventerà mai una lago dominato da Kiev o da Bucarest) potrebbe dare ad Ankara l’opportunità di esercitare un’influenza crescente non solo nello spazio compreso dalla foce del Danubio, al Mediterraneo orientale, alla Mezzaluna fertile, al Mar Rosso, al Maghreb, incuneandosi nell’alleanza di fatto tra Iran, Federazione Russa, Cina, Corea del Nord e gli Emerging Countries dell’America latina.

Certo, Erdoğan, che pur provenendo da una famiglia stabilitasi a Beyoğlu, un degradato distretto   della capitale, dopo esser emigrata dalla Georgia, incarna e rappresenta a pieno i valori e le tradizioni dell’Anatolia profonda, islamista ancor più che islamica, del «popolo della lupa grigia» che fornì il nerbo dell’Esercito ottomano, dopo la dissoluzione del corpo dei Giannizzeri decretata nel 1826 dal Sultano Mahmud II, a prima vista non sembra l’uomo in grado di raggiungere questo napoleonico obiettivo. Ma, nella sua spregiudicata capacità di oscillare tra i vari fronti in lotta per il predominio mondiale, di essere, allo stesso tempo socio dell’Alleanza Atlantica e critico della posizioni assunte dagli Stati Uniti e del comitato d’affari di Bruxelles, rivive in lui, l’abilità impastata da sapiente doppiezza che consentì, nel corso dei secoli, ai Gran Visir stanbulioti di confrontarsi, ad armi pari e non di rado con successo, con la grande diplomazia della Serenissima, della Francia, dell’Inghilterra, dell’Impero asburgico e della Rossijskaja Imperija.

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