80 anni fa le bombe americane massacrarono quasi settecento cittadini inermi di Milano, in un insensato attacco aereo. Di questi 184 erano bambini della scuola elementare “Francesco Crispi” di Gorla, centrata in pieno da una pioggia d’ordigni. Riproponiamo ai lettori di Storia in Rete l’articolo di Luciano Garibaldi scritto per lo speciale “Bombe sull’Italia” nel 2019. [SiR]
Che si fa quando si sbaglia rotta, l’obbiettivo è ormai irraggiungibile e la stiva è piena di bombe già innescate? Semplice, si bombarda dove capita e poi si torna tranquilli a casa. È quello che molte volte hanno fatto gli aviatori inglesi e americani durante la Seconda guerra mondiale. E nell’ottobre ’44 l’indifferenza per le vittime civili portò i bombardieri Usa del colonnello Knapp a sganciare quintali di bombe su alcuni quartieri di Milano, centrando una scuola e massacrando quasi 200 bambini. Un episodio imbarazzante anche per l’Italia del dopoguerra (e di oggi), decisa a non ricordare i crimini dei «liberatori»
di Luciano Garibaldi da Storia in Rete speciale “Bombe sull’Italia” (2019)
Il 20 ottobre 1944 una formazione di aerei anglo-americani B-24 e B-17 è in missione per bombardare le officine Breda e la stazione ferroviaria di Greco in prossimità di Milano. La giornata èsoleggiata, priva di foschia e di nubi, ma per un errore di calcoli gran parte degli aerei si trova nell’impossibilità di colpire i bersagli strategici prefissati. Nonostante la consapevolezza di ciò, alle ore 11,24 gli aerei, prima di rientrare, sganciano comunque le bombe in una zona abitata e priva di ogni obiettivo militare. La formazione, al comando del colonnello James Knapp, era composta da due stormi che avrebbero dovuto lanciare le bombe da un’altezza di circa 10 mila metri. L’azione della prima ondata non ebbe successo, a causa di un corto circuito al comando di lancio del B-24 capo formazione. Il corto circuito aveva attivato prematuramente la procedura di lancio. Le bombe, fortunatamente, finirono in aperta campagna senza provocare vittime. La seconda ondata, una volta raggiunto il punto iniziale sopra Milano, virò per 22° a destra invece che a sinistra. Quando l’errore venne rilevato, era ormai troppo tardi per cambiare direzione. Il carico di bombe, ormai tutte innescate, impediva, per ragioni di sicurezza, l’atterraggio del bombardiere alla base. Il comandante Knapp, invece di liberarsi del carico sganciando le 342 bombe da 500 libbre durante il viaggio di ritorno sulla campagna cremonese o sull’Adriatico, decise di disfarsene immediatamente, facendole cadere sul centro abitato sottostante. Fu così che, alle ore 11,30 di quel tragico 20 ottobre, i quartieri milanesi di Gorla e Precotto furono investiti da quasi 80 tonnellate di esplosivo.
«Non sappiamo» – come riferisce il sito internet www.piccolimartiri.it, dedicato ai bambini di Gorla – «e probabilmente non sapremo mai se la soluzione che scelse il colonnello fu frutto di una sua decisione o se era prevista dal suo piano operativo; sappiamo però che in quel momento si concretizzò quello che possiamo definire uno dei peggiori crimini contro l’umanità nella guerra aerea di quegli anni, perché egli ordinò agli altri velivoli di sganciare le bombe subito, sulla città, anche se sotto di lui non c’erano obiettivi militari ma solo abitazioni civili che egli poteva perfettamente vedere date le favorevoli condizioni meteorologiche». È un fatto che il colonnello Knapp non pagò mai per quel crimine. Tre minuti dopo l’avvenuto sgancio, l’abitato di Gorla, raggiunto da oltre 37 tonnellate di esplosivo, divenne un inferno. Furono colpite case, negozi, officine. Ma una bomba, più delle altre, provocò una strage che avrebbe cambiato la vita del quartiere per sempre: quella che centrò la scuola elementare «Francesco Crispi». Era un ordigno del peso di 500 chilogrammi e colpì la scuola mentre gli alunni stavano scendendo di corsa nel rifugio. Ci fu un’esplosione devastante che sventrò completamente l’edificio scolastico seppellendo sotto le macerie 184bambini di età compresa tra i sei e gli 11 anni, la direttrice, 14insegnanti, quattro bidelli e un’assistente sanitaria. A questa ecatombe dovettero aggiungersi altre 480 persone, civili abitanti a Gorla, uccise durante il bombardamento.
Della orribile strage di va detto che mai, fino ad oggi, i poteri pubblici italiani hanno mostrato di volerne fare un capitolo fondante della malvagità della guerra. Basta considerare che né il Comune di Milano, né la Regione Lombardia, né lo Stato sono mai intervenuti per commemorare solennemente l’evento, al punto che la stessa costruzione del monumento e della cripta che raccoglie i resti dei piccoli martiri dovette essere realizzata a spese delle loro famiglie. Tutto ciò è dovuto ad un senso di inferiorità e di timidezza verso la potenza responsabile del vergognoso massacro, cioè gli Stati Uniti, che, a loro volta, non punirono mai, nemmeno con un richiamo, i loro piloti che, per incapacità, superficialità e indifferenza, scaricarono le loro bombe, anziché sugli obiettivi militari (fabbriche, ponti, eccetera), sui quartieri di Turro, Gorla e Precotto, nella zona di Milano Nord. Va riconosciuto al «Comitato Piccoli Martiri» il merito di avere promosso e continuato a sostenere il ricordo e il culto di quelle vittime innocenti. Il Comitato fu costituito all’indomani della strage dai genitori dei bambini massacrati, con il preciso scopo di realizzare un monumento-ossario dedicato alle loro creature. Si mobilitarono istituzioni e aziende come il Teatro alla Scala, la Rinascente, le Acciaierie Falck, mentre lo scultore Remo Brioschi realizzò lo splendido monumento della mamma piangente sulle cui braccia è adagiato il figlioletto ucciso. Il monumento fu inaugurato il 20 ottobre 1947 e da quel momento, negli anni successivi, i resti delle piccole vittime, unitamente a quelli dei loro insegnanti, furono traslati dai vari cimiteri dove avevano trovato sepoltura al loculo che sorge in piazza Piccoli Martiri. Non va dimenticato che i promotori del benemerito Comitato, in un primo tempo, non trovarono collaborazione da parte delle autorità locali, influenzate dalla pressione dei vincitori della guerra, che giunsero ad offrire una forte somma purché il monumento venisse demolito. Ma per fortuna l’offerta venne respinta.
L’azione del «Comitato Piccoli Martiri» è particolarmente apprezzata dall’ANVCG (Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra), che tutela gli interessi e i diritti della marea di persone che hanno subito gravi danni dovuti alla guerra. Basti ricordare che le vittime civili (ossia i caduti non militari) della Seconda guerra mondiale, in Italia, furono 153 mila, di cui almeno oltre 64 mila a causa dei bombardamenti aerei anglo-americani. Per l’esattezza, 25 mila fino all’8 settembre 1943, e 39 mila dal settembre ’43 all’aprile ’45. Cifre spaventose, ancorché inferiori alla carneficina dei soldati che persero la vita durante il conflitto: 319.207 (fonti: Istituto centrale di statistica e Ufficio storico SME). Sorta il 26 marzo 1943, in piena guerra, l’ANVCG divenne ente pubblico il 23 ottobre 1956, con funzioni di «rappresentanza e tutela degli interessi morali e materiali dei mutilati e degli invalidi civili e delle famiglie dei caduti civili per fatto di guerra». Numerosi i riconoscimenti ottenuti in questi decenni nel corso dei quali ha rappresentato e tutelato 120 mila tra mutilati e invalidi civili di guerra, vedove e orfani di civili Caduti. «Oltre ai tradizionali compiti di tutela», dice la professoressa Rossana Mondoni, che presiede la sezione di Milano dell’Associazione, «intendiamo essere particolarmente attivi nella promozione della cultura della pace: compito quanto mai opportuno, se si pensa che ogni anno, nel mondo, circa 500 mila civili muoiono, vittime della violenza bellica».
Naturalmente, non si può parlare di Gorla senza ricordare gli eroici aviatori italiani che cercarono in tutti i modi, privi di mezzi, forti soltanto del loro coraggio, di contrastare le orde assassine arrivate dal cielo per portare la morte a Milano. È giusto e doveroso, in particolar modo, riportare l’attenzione su una grande ed eroica figura della storia militare italiana, ingiustamente dimenticata: il comandante del gruppo caccia «Asso di Bastoni», Maggiore Adriano Visconti. Nato a Tripoli l’11 novembre 1915, figlio di un impiegato del ministero della Guerra, il 21 ottobre 1936 Adriano Visconti entra nel corso Rex della Regia Accademia Aeronautica di Caserta. L’11 agosto 1939 è sottotenente in servizio permanente effettivo, dapprima assegnato alla caccia (difesa), poi, per sua scelta, al gruppo piloti assaltatori. Fino all’estate del 1943 combatte nei cieli dell’Africa settentrionale guadagnando quattro Medaglie d’argento al Valor Militare e una Medaglia di bronzo nonché i gradi di tenente e poi di capitano. L’8 settembre lo coglie a Decimomannu (Cagliari), da dove – rimasto senza ordini – decide di partire con tre Macchi, seguìto da un pugno di ufficiali e avieri e raggiunge Guidonia, presso Roma. «Ciò che lo spinse a riprendere a combattere», ha scritto Mario Montano, uno dei suoi piloti, attivo a Genova nel dopoguerra come scrittore di libri di storia dell’aeronautica, «non fu l’ideale fascista ma i bombardamenti indiscriminati degli anglo-americani». Anche gli ufficiali che si riunirono attorno a Visconti aderirono alla RSI per reagire ai violenti raid che falcidiavano la popolazione civile dell’Italia Settentrionale, in particolare di Milano. Nominato comandante del 1° Gruppo caccia, con base a Campoformido (Veneto), Visconti sostenne, nei soli primi sei mesi di attività, durissimi combattimenti totalizzando 38 vittorie, con l’abbattimento di quattro Fortezze volanti e 22 bimotori, e meritandosi anche più d’una copertina di Achille Beltrame sulla «Domenica del Corriere». Purtroppo, il trasferimento del 1° Gruppo Caccia da Campoformido a Lonate Pozzolo avvenne dopo la tragedia di Gorla. Altrimenti, di sicuro i nostri aviatori si sarebbero levati in volo per contrastare i bombardieri americani. Il bilancio del 1° Gruppo caccia, che aveva iniziato con una dotazione di 39 Macchi C 205 Veltro, fu di 113 aerei nemici abbattuti, 49 piloti caduti, 55 aerei perduti in combattimento. Il medagliere personale di Adriano Visconti, dall’inizio della guerra, fu di 26 aerei abbattuti in 600 missioni, per un totale di 1.400 ore di volo bellico.
Dopo la resa ai partigiani siglata il 28 aprile 1945 a Gallarate, sottufficiali e avieri furono rimessi in libertà, mentre Visconti, con 60 ufficiali e due Ausiliarie, fu portato alla caserma di via Vincenzo Monti, a Milano. Qui, alle ore 14 del 29 aprile, Visconti fu fatto uscire per essere interrogato. Volle seguirlo il suo aiutante, sottotenente Valerio Stefanini. Mentre attraversavano il cortile, i due eroi vennero abbattuti a raffiche di mitra e due colpi ciascuno alla nuca. Ricordiamo, a perenne onta dei partigiani comunisti suoi assassini, che il Maggiore Visconti si era consegnato, con regolare atto di resa, ai partigiani, ed era stato tradotto, con i suoi uomini, da Gallarate a Milano, nella caserma di via Vincenzo Monti. Era dunque un regolare prigioniero di guerra, cui andava applicata la Convenzione di Ginevra. In Italia, Visconti è stato completamente dimenticato. Gli Stati Uniti, invece, riconoscendolo «asso dell’Aeronautica italiana» per le 26 vittorie riportate durante la Seconda guerra mondiale, lo hanno immortalato con una foto nel «Museo dell’Aria e dello Spazio» di Washington unitamente al capitano Franco Bordoni Bisleri e, per la Prima guerra mondiale, a Francesco Baracca.