Il muro di Berlino fu lo sbocco finale di un confronto tra due mondi, due sistemi di vita, due ideologie. Seconda parte del racconto di Pierluigi Mennitti.
di Pierluigi Mennitti da StartMag del 13 agosto 2023
Nei primi mesi del 1961 la tensione a Berlino era tornata ai massimi livelli. Per molti versi sembrava di rivivere i drammatici giorni del giugno 1948, quelli del primo blocco sovietico, superato dall’epopea del ponte aereo organizzato dagli americani e dai britannici, che per un anno trasportarono ogni giorno, a bordo dei C-47, circa 6.400 tonnellate di materiale all’aeroporto di Tempelhof. O quelli del giugno 1953, quando la rivolta operaia contro il regime comunista di Berlino Est venne repressa nel sangue dall’intervento dei carri armati sovietici. Si tornava a respirare l’aria dei momenti più duri, nei quali il confronto tra gli ex alleati – americani, britannici e francesi da un lato e sovietici dall’altro – si concentrava ancora una volta su questa città da sempre simbolo di qualcosa: del militarismo prussiano degli Hohenzollern, dell’eccentricità weimariana, dell’incubo nazista. Infine, ridotta ad un cumulo di macerie morali e architettoniche, simbolo della guerra fredda.
Da quando nel 1945 i tre Grandi (Roosevelt, Churchill e Stalin) stabilirono a Yalta la divisione della Germania e quella di Berlino in tre zone di influenza (che diventeranno poi quattro, con l’inclusione della Francia tra le potenze vincitrici), la storia dell’ex capitale tedesca percorrerà binari del tutto nuovi. Divisa in quattro settori e retta nei mesi immediatamente seguenti alla capitolazione del Terzo Reich da una Kommandatura quadripartita, Berlino sconterà molto presto l’incrinarsi dei rapporti tra gli Alleati, la successiva rottura tra sovietici e occidentali e la sua nuova e speciale collocazione geografica all’interno della zona di occupazione sovietica che diventerà la Ddr, la Repubblica democratica tedesca.
Coordinate geografiche che è necessario rammentare per inserire la storia del Muro nel contesto degli equilibri internazionali postbellici e della guerra fredda che, di lì a qualche anno, si dispiegherà in tutta la sua virulenza.
Il muro, dunque, fu solo lo sbocco finale di un confronto tra due mondi, due sistemi di vita, due ideologie e fu la reazione di una parte, quella comunista, alla capacità di attrazione e di fascino che l’altra metà del mondo, quella liberale, democratica e capitalista riuscì ad esercitare fin dai primi anni del dopoguerra.
Anno difficile il 1961. Il confronto con l’Occidente, la fuga dei cittadini dalla Ddr, gli equilibri fragili di un sistema – quello delle democrazie popolari dell’Europa orientale cementificatosi militarmente nel Patto di Varsavia ed economicamente nel Comecom – che aveva da sei anni superato il trauma della rivolta di Budapest e che tentava con fatica di impostare solidi sistemi economici, sociali e politici in grado di reggere la competizione con il mondo capitalista. Nel mese di marzo, il presidente del Consiglio di Stato della Ddr (l’equivalente del presidente della Repubblica), Walter Ulbricht, avanzò la proposta di costruire una grande barriera di filo spinato lungo il confine tra le due Berlino. Il veto di Krusciov bloccò temporaneamente questa iniziativa.
Ma la dirigenza tedesco-orientale aveva già delineato tre ipotesi di intervento per bloccare l’emorragia di cittadini e riprendere il controllo della situazione interna: la chiusura dei corridoi aerei utilizzati dagli Alleati occidentali, la costruzione di un muro, l’isolamento dell’intera Berlino dal resto della Ddr.
L’ipotesi di una barriera fisica fra le due parti dell’ex capitale cominciò a serpeggiare nell’opinione pubblica. Il 15 giugno, durante una conferenza stampa internazionale a Lipsia, la corrispondente del quotidiano occidentale Frankfurter Rundschau chiese ad Ulbricht se la posizione sovietica su Berlino comportasse la fissazione di un confine di Stato alla Porta di Brandeburgo. La risposta, rimasta famosa, fu: “Nessuno ha intenzione di costruire un muro”. Non dovette essere troppo convincente se, nei giorni successivi alla conferenza di Lipsia, il flusso dei profughi subì un’ulteriore impennata.
Il 25 luglio, in risposta a un bellicoso memorandum di Krusciov sulla questione di Berlino, il nuovo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, annunciò i tre punti essenziali per gli americani: il diritto degli Alleati occidentali a una presenza militare a Berlino Ovest, il diritto di accesso dalla Repubblica federale al settore occidentale della città, il diritto degli abitanti di Berlino Ovest all’autodeterminazione e alla libertà. Nessuno di questi tre punti “essenziali” servirà da deterrente alla costruzione del Muro perché nessuno di essi sarà messo in discussione.
(2.continua; la prima parte si può leggere qui)