Tra i tanti record raggiunti dall’Italia nel 2021 ce n’è uno che è sfuggito ai più anche se colloca ancora una volta il nostro paese sul podio più alto. Non si tratta di un primato sportivo: questa volta l’alloro arriva grazie ad un libro. Infatti, da anni è in corso una silenziosa ma agguerrita gara internazionale che vede impegnati storici e giornalisti. L’obbiettivo è quello di riuscire a scrivere la peggiore biografia possibile di Clara Petacci: un’impresa evidentemente affascinante visto l’impegno e il numero dei concorrenti. Fino ai primi del 2021 il dominio della categoria sembrava saldamente in mano allo storico australiano Richard J. Bosworth autore nel 2017 di “Claretta, Mussolini’s last lover” (ed. italiana – non sia mai che ci facciamo sfuggire certe perle… – : “Claretta, l’ultima amante del Duce”, Leg 2018). Un volume di quasi 450 pagine che è stato segnalato con tutti i suoi limiti da Storia In Rete nel n. 167, ottobre 2019. Ma niente a questo mondo è eterno e così anche a Bosworth è toccato di dover cedere il primo posto che ora spetta a pieno titolo a Mirella Serri che pochi mesi fa ha mandato in libreria un ritratto i cui toni sobri e distaccati emergono fin dal titolo: “Claretta l’hitleriana – Storia della donna che non morì per amore di Mussolini” (Longanesi, pp. 300, € 19.00).
Non bisogna farsi ingannare però dalle apparenze: il limite di questo libro non sta nella tesi dichiarata fin dal titolo. Clara Petacci ebbe davvero simpatie, sia pure un po’ naif e poco meditate, per il Nazismo. Ma soprattutto dall’ottobre 1943 fino alla fine intrattenne, come vedremo, rapporti segreti con gli uomini del Terzo Reich in Italia. La tesi non è affatto nuova: tanto per dire “Storia In Rete” ha fatto una copertina su questo tema già nel 2007 (“Una spia chiamata Claretta”, n. 19, maggio 2007). Che poi Clara non sia morta “per amore di Mussolini” è vero e non è vero ad un tempo: non scelse di morire ma accettò di correre rischi mortali per stare dove nessuno – men che meno Mussolini – l’avrebbe voluta. Un po’, ovviamente, perché non si voleva farle correre pericoli e un po’ perché nel caos del crollo generale ci mancava pure, in quella colonna che faticosamente arrancava verso la Valtellina, una presenza ingombrante, fastidiosa, petulante come la sua. Alla fine però, come sappiamo, fu lei a spuntarla su tutto il fronte e così è nata, quasi per caso, la leggenda dell’amore estremo (che pure c’era) votato coscientemente al sacrificio totale.
Detto questo, perché allora “Claretta l’hitleriana” svetta nella particolare classifica delle peggiori biografie della Petacci? Per tre motivi almeno: il primo è la vera ragion d’essere del libro, che è politica più che storica; il secondo è rappresentato dai toni poco equilibrati che spesso ricordano quelli del giornalismo sensazionalista dei rotocalchi anni Cinquanta; il terzo è che ci sono molte, troppe imprecisioni e dimenticanze. Lacune, anche gravi in qualche caso, che una conoscenza un po’ più accurata del tema avrebbe sicuramente ridotto.
Cominciamo dalla vera tesi di fondo del libro che non è tanto la presunta rivelazione-choc del “filo-nazismo” della Petacci quanto l’affermazione, da parte dell’autrice, di una teoria ben precisa: se si lascia la figura di Claretta nell’aura della leggenda rosa che l’avvolge si finisce per fare un favore alla retorica neo-fascista e al tempo stesso si delegittima una volta di più la Resistenza che non solo l’ha uccisa ma l’ha uccisa in quel modo e con lo strascico immondo di Piazzale Loreto. Scrive Serri: «… una corretta interpretazione delle scelte della Petacci svelenisce l’odio, allontana la compassione nei confronti del fascismo martire e ridà dignità all’operato degli antifascisti. L’immagine di Clara vittima innocente rappresenta il pregiudizio degli storici sul destino femminile ma anche il permanere di un sentimento di attenuazione delle responsabilità del fascismo». Siamo quindi ad una variazione del solito tema che sembra ossessionare una fetta dell’intellighènzia ben pensante: il diffondersi inarrestabile di una supposta visione edulcorata del Fascismo (insieme causa ed effetto dell’avanzata elettorale di alcune forze politiche) che poggerebbe più su basi emotive e irrazionali (es. la rimozione o l’attenuarsi della memoria) che documentali. Questo, nonostante il dilagare su ogni media e nelle librerie di un profluvio di film, articoli, documentari, libri, convegni, iniziative per le scuole, trasmissioni tv ecc. ecc. (per non parlare di leggi e disposizioni amministrative anche a livello locale) che sostengono e ribadiscono la versione più politicamente corretta possibile. Insomma, una contraddizione insanabile tra la realtà e la sua percezione (non sempre innocente e sincera) che ricorda l’espressione napoletana, volgare ma efficace, del “Chiagne e fotti”.
Il modo in cui Serri ha deciso di manifestare i suoi timori per la salute e la prosperità dell’antifascismo e, allo stesso tempo, aggiungere il suo personale mattoncino alla Grande Muraglia della Memoria intangibile e immodificabile ci porta agli altri due motivi che spiegano l’arrivo di “Claretta l’hitleriana” in cima alla classifica dei peggiori biografie della Petacci. Si accennava ai toni. Ecco, nel libro non si gioca certo al risparmio con espressioni poco consone ad un saggio di storia che invece richiederebbe, soprattutto per la propria credibilità, l’uso di toni misurati: “tiranno”, “despota” e “despota crudele”, “feroce dittatore” sono altrettante espressioni usate spesso per indicare Mussolini. Di cui, oltretutto, a pagina 85 si scopre anche che Hitler era «il suo unico amico», cosa che lo avrebbe fatto imbestialire non poco sia perché non pensava di avere amici e men che meno lo poteva essere il dittatore tedesco di cui si sa quale opinione avesse in realtà il capo del Fascismo, al di fuori delle occasioni pubbliche. Ma ce n’è anche per Claretta ovviamente, nominata sul campo niente poco di meno che “la dominatrice di Salò” e colei che, in piena Repubblica Sociale, avrebbe preteso “le redini del comando”. Se le iperboli per Mussolini rientrano nell’ottica della demonizzazione a tutto tondo del Regime fascista quelle che riguardano Claretta hanno invece un altro scopo: enfatizzare il ruolo che Serri le vuole attribuire ma che non ebbe mai, ovviamente. Entriamo così nel campo del terzo e più importante aspetto di “Claretta l’hitleriana” e cioè gli errori, le dimenticanze e le imprecisioni. Tra questi difetti c’è infatti anche l’uso delle fonti: per sostenere che Claretta aveva quel ruolo che non ebbe ma che, secondo Serri, i partigiani che la uccisero in malo modo le attribuivano, l’autrice cita (dimenticando però di indicare i riferimenti temporali) ampi stralci delle lunghe e tortuose lettere che la donna scriveva a Mussolini anche più volte al giorno e dove dava libero sfogo, oltre che alla sua paranoica gelosia, anche alla sua irrefrenabile voglia di “consigliare” il suo Ben. Insomma, si confondono le sparate di una donna intrigante e poco equilibrata – che pure Serri definisce invece “molto intelligente” – con la realtà fattuale. Una realtà nella quale Clara, almeno fino a poco prima di Dongo, non influì su nulla se non nelle circostanze che lo stesso Mussolini le concesse. Del resto, anche Serri non può fare a meno di ricordare, lungo le 270 pagine effettive del suo saggio, le infinite volte in cui Mussolini “molla” Claretta, la tratta male, le rifiuta udienza, la invita alla prudenza, la tiene lontana per giorni, la rimprovera aspramente e, in ultimo, le consiglia di mettersi in salvo. Non è senza significato ciò che Serri riferisce a pagina 194 quando, a proposito, della liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso nel settembre 1943, osserva che una volta libero Mussolini per molti giorni non ebbe un pensiero o una parola per Claretta. Saranno i tedeschi a farli riavvicinare. Un favore non gratuito.
Dalle pagine del libro non emerge con chiarezze un elemento fondamentale: e cioè che Clara, in virtù della sua vicinanza a Mussolini, ha ritenuto a lungo di poter svolgere un ruolo ben superiore a quello che in effetti svolse e che oggi si chiama “traffico di influenze”, utile a far avere un incarico o una promozione ma certo non sufficiente ad influire sulla “grande politica”. Che quindi sognasse di essere ricevuta da Hitler per spingerlo ad aiutare maggiormente l’Italia o che immaginasse che Mussolini avrebbe lasciato Donna Rachele per ufficializzare il loro rapporto, dimostra solo il livello di autoesaltazione raggiunto da questa donna coinvolta in situazioni molto più grandi di lei. E riportando queste farneticazioni senza un’adeguata contestualizzazione non si rende un gran servizio né al personaggio – ma abbiamo già visto che all’autrice preme sottrarre Clara dall’aurea della leggenda rosa – né ai lettori. E questi ultimi debbono ingoiare anche altri rospi, ad esempio sotto forma di piccole e grandi imprecisioni. Qualche esempio in ordine sparso: i Petacci non abitavano a Roma nella popolare strada di via Tor de Cenci ma in un bel palazzo ottocentesco in Lungotevere de Cenci, a fianco della Sinagoga, in una zona quindi di bel altro prestigio e molto centrale; nel corso del primo incontro con Hitler, a Venezia nel 1934, Mussolini non indossava nessuna divisa nera come si può ben vedere da video e foto d’epoca; il supercitato – e super valutato come testimone anche se assente dalla bibliografia nonostante abbia scritto almeno 5 libri di ricordi – colonnello Eugen Dollmann non si fece mai vent’anni di galera a Spandau a guerra finita ma se la cavò con qualche mese di reclusione anche grazie all’aiuto dei servizi italiani; la liberazione di Mussolini non fu condotta ma solo ordinata e pianificata dal generale Kurt Student che diede incarico della sua organizzazione e condotta al maggiore Harold Mors mentre il famoso Otto Skorzeny se ne prese tutti i meriti; il generale Wolff non poteva viaggiare su una Kübelwagen con i vetri fumé semplicemente perché la Kübelwagen era una specie di Jeep senza vetri laterali e non una berlina; la Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia non era una sala di rappresentanza ma il celebre studio di Mussolini; contrariamente a quanto scrive Serri in più occasioni, il dittatore non cercò mai di riparare in Svizzera tra il 25 e il 27 aprile 1945 né contava di farlo nei giorni successivi se fosse rimasto libero; il questore di Roma Pietro Caruso, co-responsabile della rappresaglia delle Fosse Ardeatine del marzo 1944, non fu impiccato a fine guerra ma fucilato; l’irruzione di Donna Rachele a casa di Claretta a Gardone, sul Garda, non avviene nell’aprile 1944 ma sei mesi dopo, a fine ottobre. Quest’ultimo, in particolare, sembra un dettaglio ma non lo è.
La cosa più sorprendente di questo “Claretta l’hitleriana” è che non cita l’episodio più clamoroso a sostegno della propria tesi. Un episodio talmente esemplare da non essere sfuggito neanche a Bosworth. Siamo ai primi di ottobre 1944, a Villa Fiordaliso, a Gardone riviera: alle prime ore del mattino gli uomini della Presidenziale, il reparto di polizia addetto alla sicurezza del Capo del Governo, guidati dal questore Emilio Bigazzi Capanni, perquisiscono la residenza di Claretta su precisa indicazione di Mussolini. L’obbiettivo: trovare e sequestrare lettere del dittatore prima che siano consegnate ai tedeschi. L’azione ha successo e le lettere saltano fuori con conseguente crisi, passeggera, tra Ben e Clara. Dalla assenza di serie conseguenze nasce la successiva irruzione di Donna Rachele e inevitabile confronto vis-à-vis con l’amante del marito. Questo secondo episodio è riportato da Serri ma senza il primo la cosa perde un po’ di senso e non aiuta a porsi la vera domanda, a tutt’oggi senza una chiara risposta: a che gioco giocava Claretta? Che passasse ai tedeschi ogni lettera di Mussolini è pacifico (come del resto avveniva con le telefonate, tutte regolarmente intercettate). Ma perché la cosa andò avanti per tutta la RSI nonostante Mussolini sapesse perfettamente tutto? Un’ipotesi è che il dittatore “usasse” l’amante per far sapere ai suoi ingombranti alleati e controllori quello che voleva sapessero. Come osservò Renzo de Felice poco prima di morire, la storia della RSI è soprattutto una storia di servizi segreti e i sottili e occulti legami che collegano i personaggi di quella storia sono solo in parte venuti alla luce.
Si tratta di trame delle quali Serri mostra di non sospettare neanche l’esistenza come dimostra il fatto che rievocando il famoso colloquio tra Claretta e il comandante partigiano Pier Bellini delle Stelle a Dongo, poco dopo la cattura, il pomeriggio del 27 aprile 1945, si lascia andare ad allusioni sopra le righe. Clara avrebbe cercato quasi di sedurre il giovane partigiani per ottenere di essere ricongiunta con Mussolini. In realtà c’era ben altro visto che i due, almeno indirettamente, si conoscevano già visto che proprio Clara, poche settimane prima, aveva chiesto e ottenuto dalla autorità fasciste di Como la liberazione proprio della sorella e della fidanzata di Bellini delle Stelle. Cosa si dissero davvero la donna e il partigiano non lo sapremo mai anche perché lui (che aveva qualcosa da nascondere soprattutto ai suoi) tacque fino alla morte. Ma è certo che alla fine decisero qualcosa che a Mussolini non sarebbe andato a genio dopo la scenata che Claretta aveva fatto nella famosa autoblinda, poche ore prima e che Serri dimentica di raccontare anche se potrebbe portare acqua al suo mulino. Mentre la colonna italo-tedesca è ferma poco fuori Dongo, nel primo pomeriggio del 27 aprile 1945, Mussolini è indeciso se accettare o meno la proposta tedesca di indossare un cappotto della Wermacht e salire su un camion per passare il blocco partigiano: tra i tanti che tacciono e sperano che lui non lo faccia è solo lei a urlare istericamente “Duce salvatevi, Duce salvatevi” e così, tra gli sguardi torvi dei presenti, spinge il dittatore nella trappola che i tedeschi gli stanno preparando sul lungo lago di Dongo, dove aiuteranno con opportune segnalazioni e ammiccamenti, i partigiani ad individuarlo dopo vari tentativi.
Se i due vengono riuniti ci deve essere qualche spiegazione che esula dalla consueta narrazione di quelle ore finali: Claretta non era coinvolta negli affari della RSI come Serri sostiene per “giustificare” la sua esecuzione. Di sicuro però sapeva molte cose e altre, probabilmente, ne vide nei suoi ultimi minuti di vita e questo la condannò definitivamente. Le ultime pagine di “Claretta l’hitleriana” e una veloce scorsa alla bibliografia confermano che l’autrice ha poca dimestichezza con le complesse vicende che hanno segnato gli ultimi giorni di Mussolini e Claretta. Altrimenti come spiegare frasi come questa: «L’intensa collaborazione dell’amante del Duce con i politici e i militari del Reich e i vantaggi che ne trasse furono uno dei capi d’imputazione formulati dai partigiani quando le ordinarono di mettersi vicino al muro di Villa Belmonte a fianco di Mussolini»? Ormai una montagna di riscontri, logici e fattuali, ci dicono che nulla della versione classica sulla morte di Mussolini e della Petacci – cui si rifà serenamente Serri – ha un qualche fondamento. Ma la cosa che più colpisce è la sicurezza con cui si pensa che Claretta fosse così nota ai partigiani, specie a quelli dell’alto lago comasco. Ovviamente non era così: Clara era una perfetta sconosciuta che però aveva – oltre ad un filo diretto con Bellini delle Stelle – molte cose che potevano insospettire: documenti spagnoli anche se non parlava spagnolo, troppi gioielli e documenti riservati nel bagaglio, un’avvenenza e un abbigliamento che stonavano con la situazione. Abbastanza da fermarla, non sufficienti a condannarla a morte.
Quello che accadde nel giro di poche ore è per molti aspetti ancora oscuro ma è certo che da subito i partigiani dovettero allestire una versione di comodo che occultasse il vero svolgimento dei fatti che non poteva essere evidentemente rivelato. Ancora una volta Claretta era finita in una storia molto più grande di lei e ne era stata definitivamente stritolata. Ma andandosene ha lasciato dietro di se una montagna di punti di interrogativi e di questioni irrisolte. Il suo primo e più acuto biografo, Franco Bandini, ha osservato che intorno a Claretta si può intuire un “triplice mistero”: «Quello, tutto psicologico, del suo legame con Mussolini; l’altro, politico della sua influenza vera o presunta che lei e la sua famiglia ebbero sulle vicende del periodo che va dal 1934 al 1945; ed infine quello della sua morte, assieme all’uomo amato, in qualche luogo del basso Lago di Como». E, ad ogni modo, concludeva Bandini: tutto quello che oggi sappiamo non ci dice nulla circa il punto «maggiormente interessante per lo storico: e cioè del sentimento, variabile col tempo, che per lei Mussolini nutrì e per converso della reale influenza che Claretta ebbe, o poté illudersi di avere».
A lungo – cioè per oltre cinquant’anni – si è pensato che la soluzione a questi quesiti fosse tra le tante carte di Clara, nascoste prima dell’ultimo viaggio e sequestrate dai carabinieri e dai servizi segreti a inizio anni Cinquanta. Lettere e diari resi inaccessibili agli studiosi e alla stessa famiglia per decenni con motivazioni che richiamavano la sicurezza nazionale e il segreto di Stato in quanto – secondo la sentenza della Corte di Cassazione del 12 aprile 1956 – quei documenti contenevano «riferimenti alla politica estera e interna dell’Italia». Decisioni e valutazioni che cozzano palesemente, platealmente, con quanto finora pubblicato di quelle carte. Manca forse qualcosa? Ad esempio, all’inizio del nuovo millennio, il Sovrintende dell’Archivio Centrale dello Stato dove quella documentazione è conservata denunciò la scomparsa di oltre 150 fogli, del resto mai ritrovati e forse rubati. Si è trattato dell’unico ammanco verificatosi in cinquant’anni di secretazione? E’ una domanda legittima ma dell’intera questione delle carte di Claretta, nel libro di Serri non c’è traccia, quasi la cosa non abbia stretta attinenza la biografia del personaggio. In tante pagine piene di affermazioni apodittiche e giudizi definitivi non ci poteva essere spazio anche per i punti interrogativi.
(articolo pubblicato su Storia In Rete n. 186, gennaio 2022)