I francesi hanno sempre avuto la tentazione di parlar male (a sproposito) dell’Italia e delle sue virtù militari. Alla fi ne del XIX secolo un erede dei decaduti Orleans si fece scappare qualche parola di troppo sul disastro di Adua, ottenendo così un cartello di sfida da un principe di Casa Savoia. E guadagnandosi una lunga degenza in ospedale…
Di Nicola Lancieri Neri da Storia in Rete n. 35
Il primo marzo 1896 una terribile calamità si abbatteva sulle truppe coloniali italiane impegnate nei territori attigui all’Eritrea. Fu una giornata destinata a rimanere impressa nella storia d’Italia e a cambiare quella dell’Abissinia. Fu la giornata di Adua. All’incirca un anno dopo il principe Enrico (Henri Philippe Maria) d’Orléans, (1867-1901) cadetto della famiglia pretendente al trono di Francia, inviava delle corrispondenze dall’Abissinia per il noto quotidiano «Le Figaro»: le corrispondenze avevano contenuti infamanti sul comportamento degli italiani impegnati nella battaglia di Adua e insultavano quelli ancora prigionieri di Menelik, che secondo il titolato francese, avrebbero brindato nel corso dei festeggiamenti per l’anniversario della battaglia, o che indossavano gemelli da polso con l’immagine del negus. Di più, se la prendeva in particolare con il generale Matteo Albertone – a suo dire rimasto inoperoso – il quale, levando il calice alla vittoria di Menelik, nel corso di un ricevimento ufficiale, gli avrebbe sussurrato all’orecchio, a titolo giustificativo: «E’ pura cortesia». Ora, se pure fu vero che il generale commise errori di valutazione, di certo si comportò da coraggioso, cercando anche una morte eroica a disfatta consumata. Naturalmente il principe francese taceva dei valorosi artiglieri italiani prigionieri degli abissini, che si erano rifiutati, perseverando anche se minacciati di morte, di sparare una salva con i cannoni italiani catturati ad Adua per festeggiare la festa nazionale francese il 14 luglio del 1897 [l’Abissinia in quel periodo coltivava rapporti particolarmente cordiali con la Francia, chiaramente in funzione anti–italiana NdR]. Naturalmente vien fatto di dubitare che un anno dopo la battaglia di Adua venissero già prodotti dei gemelli con l’effige di Menelik. Oltretutto, allorquando fosse esistita in quella plaga dell’Africa la tecnologia necessaria alla produzione dei gemelli da polso, è lecito supporre che camicie con i polsi alla moschettiera non rientrassero nella consuetudine… della moda abissina dell’epoca (e tantomeno negli abiti riservati ai prigionieri di guerra).
Il 6 luglio, da Alessandria d’Egitto, il principe d’Orléans divenne destinatario della lettera seguente: «Monsignore, leggo nel Figaro la lettera che voi avete diretto dall’Abissinia a questo giornale. «En taillant des bavettes» [chiacchierando a sproposito NdR] con i vostri compatrioti di Addis Abeba, la vostra buona fede è stata sorpresa e voi vi siete fatto eco di racconti calunniosi per gli sfortunati figli di quelli, fra i quali vostro padre ha ricevuta la sua educazione militare all’Accademia di Torino, e con i quali ha appreso a marciare in faccia al nemico. Giovane soldato anch’io, discendente di una stirpe di soldati, lungamente gloriosa, io non saprei ammettere simili calunnie, sapendole proclamate e sostenute da voi in faccia all’Europa. Poiché la verità deve vincere l’amor proprio di un uomo onesto, e che «noblesse oblige», voi, monsignore, non esiterete a ristabilire l’esattezza dei fatti. Voi mi obbligherete facendomi il più presto conoscere le vostre intenzioni al riguardo» Firmato: Vittorio Emanuele di Savoia Aosta, conte di Torino. Era costui il secondo figlio di Amedeo I di Spagna e tenente colonnello del Reggimento di cavalleria «Piemonte reale». Per tutta risposta il principe francese rifiutò di ritrattare quanto scritto, riconoscendo solo che quanto pubblicato gli era stato solamente riferito, ma che tuttavia era suo diritto di cronista renderlo di pubblico dominio. E’ da rilevare inoltre che le corrispondenze insultanti del principe francese soffiavano sul fuoco di cattive relazioni tra Italia e Francia che risalivano al conflitto franco-prussiano del 1870 con la concomitante presa di Roma da parte dei bersaglieri di La Marmora, proseguivano con lo «schiaffo di Tunisi» dell’81, col quale Parigi anticipò Roma nell’instaurare un protettorato sulla Tunisia dove viveva una colonia di ben 200 mila italiani, e che non sarebbero migliorate che con l’inizio del nuovo secolo. Per questa ragione le autorità politiche e diplomatiche dell’epoca cercarono di smorzare l’incidente per impedire che alimentasse le ombre di una relazione tra i due Paesi già di per sé delicata.
Il 10 luglio l’ambasciatore italiano a Parigi, Giuseppe Tornielli, veniva pregato dall’aiutante di campo del conte di Torino, il conte di Carpenetto, di recapitare una busta al principe fran-cese, ma si dichiarava impossibilitato a farlo poiché, ignorandone l’indirizzo, avrebbe dovuto richiederlo a suo padre, cosa che la sua condizione gli impediva. Scrivendo al ministero degli esteri Visconti Venosta, Giuseppe Tornielli, che intuiva che la busta racchiudesse il cartello di sfida al principe d’Orléans, dichiarava che l’intera faccenda era per lui una «seccatura», e che mai avrebbe consegnato la lettera senza precise istruzioni del Re. All’ambasciatore, peraltro, non sembrava ragionevole dar peso alle parole del principe francese che era notoriamente di «vanità smisurata e di scarso intelletto», caratteristiche, queste, che lo avevano messo in urto con la sua stessa famiglia, pur riconoscendo che, da un punto di vista strettamente personale, l’offesa arrecata agli ufficiali italiani era concreta e andava risolta. Tornielli riteneva pure che, sebbene la giurisprudenza francese in materia di duelli fosse larga, con l’eccezione di gravi mancanze alle regole della cavalleria, o in caso di conseguenze mortali, sarebbe stato auspicabile che il conte di Torino, dopo il duello, guadagnasse senza indugio la frontiera con il Belgio o si imbarcasse per l’Inghilterra.
Fu come fu, alla fine il cartello di sfida fu recapitato e accettato. Per evitare che la cosa si gonfiasse in un incidente internazionale, alla linea della prudenza si attenne anche il presidente del Consiglio Di Rudinì, dichiarando il carattere del tutto personale della vertenza, nonché le autorità francesi che, nelle loro relazioni con l’ambasciatore italiano ignoravano di proposito l’incidente. Gli ufficiali italiani – il tenente Pini e il generale Alberatone – invece prontamente raccoglievano la sfida proponendosi al posto del Savoia, ma il principe francese dichiarava con albagia di potersi e volersi battere solo con un rappresentante di sangue reale. Alla fine il re Umberto I autorizzò il nipote a sostenere lo scontro. I padrini del conte di Torino erano i colonnelli Felice Avogadro di Quinto e Francesco Vicino Pallavicino. Per il principe francese il conte russo Nicola Leontieff e l’amico Raoul Mourichon. Il giorno di ferragosto 1897 l’agenzia di stampa Havas pubblicava il seguente comunicato: «Lo scontro del principe Henri d’Orléans con il conte di Torino ha avuto luogo questa mattina alle cinque nel Bosco dei Marescialli a Vaucresson. I due avversari si sono battuti alla spada… Il combattimento… è stato accanito… è durato 26 minuti. Ha avuto cinque riprese e due corpo a corpo… Il principe d’Orléans ha ricevuto due ferite, una alla scapola destra, e l’altra al ventre a destra… è stato trasportato al domicilio di suo padre il duca di Chartres, dove ha dovuto essere curato». Oggi, nella sala «capitano Federigo Caprilli» del Museo della Cavalleria di Pinerolo sono custodite due spade. Sono quelle del duello tra il principe d’Orleans e il conte di Torino. Il vincitore.