I criteri di assegnazione del più prestigioso riconoscimento culturale del mondo sono da oltre un secolo tutt’altro che limpidi. Come dimostrano le vicende che riguardano alcuni Nobel italiani quali Deledda, Pirandello o Quasimodo insieme al «quasi-Nobel» Ungaretti. Ecco i retroscena di decenni di storia culturale, una storia meschina anche se ricca: soprattutto di raccomandazioni, invidie, paure, illusioni, rabbia, pregiudizi…
di Enrico Tiozzo da Storia in Rete n. 152
Nella primavera 2018 anche la stampa italiana ha registrato, non senza qualche approssimazione, le notizie della profonda crisi che sta attraversando l’Accademia di Svezia, responsabile da 118 anni dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura. Premio che quest’anno, non a caso, non è stato assegnato. Questa scelta e le notizie che l’hanno motivata hanno sorpreso un pubblico di appassionati di letteratura che forse in realtà non ha mai veramente capito i complessi meccanismi del riconoscimento, le regole dell’Accademia e soprattutto il clima di sotterfugi, intrighi e misteri che da sempre ha caratterizzato «il premio più importante del mondo», come lo definì Alberto Moravia in una delle tante lettere di congratulazioni ricevute da Pirandello a novembre del 1934, subito dopo il conferimento del Nobel per la letteratura.
Molta della confusione va attribuita agli stessi concorrenti, premiati o respinti a Stoccolma, protagonisti di singolari episodi d’ingenuità, insospettabili in personaggi già famosi e assai ben introdotti negli ambienti letterarî internazionali durante gli anni della loro corsa al Nobel. Proprio Pirandello rappresenta un caso paradigmatico. Lo scrittore – come testimoniano anche le lettere pubblicate da Sarah Zappulla ed Enzo Muscarà in «Luigi Pirandello: il premio Nobel o della solitudine» (la Cantinella, 2002) – aveva cominciato a smaniare per il premio fin dagli anni Venti, mettendo in movimento chiunque sembrasse in grado di poterlo appoggiare. La sua fissazione per il Nobel è da ritenersi molto probabilmente la causa determinante della sua adesione ufficiale al Fascismo nel 1924, proprio nei drammatici giorni successivi al delitto Matteotti, un passo su cui continuano ad interrogarsi vanamente studiosi e giornalisti fino al punto di avanzare la singolare ipotesi – come nel libro di Marco Maugeri, «Le ceneri di Matteotti» (l’Ancora del Mediterraneo, 2004) – che il drammaturgo si fosse ammalato di mente. Ma Pirandello, sanissimo di mente, stava soltanto percorrendo la stessa strada di molti altri suoi colleghi aspiranti al massimo premio letterario mondiale e credeva di potersi giovare di appoggi che in realtà non esistevano o venivano falsamente offerti da personaggi anche influenti ma del tutto privi di contatti con l’Accademia di Svezia. Cosí nel 1926 il drammaturgo scriveva al figlio Stefano di avere saputo che la sua candidatura al premio era stata appoggiata da Telesio Interlandi, il direttore del giornale «Il Tevere», uomo in grado di riscuotere le simpatie di Mussolini. Proseguendo nelle sue fantasticherie, Pirandello vedeva nella presenza a Roma della regina di Svezia, un’occasione imperdibile affinché il Duce, parlando con la moglie di Gustavo V, si desse da fare per fargli ottenere il premio che temeva potesse altrimenti andare a Papini o alla Deledda, che infatti l’ottenne nel 1927. Zappulla e Muscarà vedono nel premio a Grazia Deledda la «prova certa di un progetto lungamente pensato, lucidamente condotto e fortemente caldeggiato dal governo italiano», affermazione però del tutto priva di sostegno documentale, a riprova di quanta siano ancora profonde la confusione e la mancanza di certezze sui misteri di Stoccolma.
Il premio alla Deledda in realtà – sulla base dei documenti conservati nell’archivio dell’Accademia di Svezia e desecretati nel 1977 – dimostra come il Nobel alla scrittrice sarda fosse sì frutto di intrighi, ma di sola matrice svedese, giacché a mescolare le carte e a servirsi di argomenti deboli o insostenibili a favore della Deledda fu l’accademico allora più potente, professore di storia della letteratura all’Università di Uppsala, Henrik Schück (1855-1947), preso da una rapinosa attrazione per le opere delle Deledda che gli ricordavano quelle della sua conterranea Selma Lagerlöf e del polacco Władisław Reymont, insigniti entrambi del Nobel rispettivamente nel 1909 e nel 1924. I verbali dell’Accademia non danno luogo al minimo sospetto di un’intromissione del governo italiano nel lungo e faticoso processo di avvicinamento della Deledda al premio che la scrittrice non avrebbe mai ottenuto senza l’intervento determinante di Schück, refrattario a pressioni di qualsiasi tipo. Ma Pirandello continuava a fantasticare e nel 1930 scriveva da Berlino a Marta Abba di aver appreso da un giornalista svedese come fosse noto che Mussolini era intervenuto per «impedire che il premio Nobel fosse dato» a lui, una circostanza che, a suo dire, «aveva fatto una pessima impressione in Svezia», cosa di cui però non esiste alcuna traccia nella stampa svedese del tempo.
Incapace quindi di staccarsi dall’ossessione per il premio e inguaribilmente credulone, Pirandello nel 1931 scriveva ancora a Marta Abba da Parigi di avere appreso dal gerarca fascista Giovanni Giuriati che il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, aveva scritto «di sua spontanea iniziativa […] a Stokolma [sic] perché sia assegnato a me il Nobel». I verbali degli archivi svelano impietosamente come non sia mai giunta all’Accademia di Svezia una candidatura di Rocco, né a favore di Pirandello né a favore di chiunque altro, anche perché il ministro non rientrava nel ristretto gruppo degli abilitati ad avanzare candidature al Nobel. Una candidatura ufficiale, avanzata da un ministro di Grazia e Giustizia, sarebbe peraltro servita soltanto a danneggiare in modo irreparabile le possibilità di vittoria di Pirandello agli occhi di una giuria, che ufficialmente – allora come oggi – si gloriava di essere refrattaria a qualsiasi sollecitazione dei governi stranieri. Gli Accademici non erano privi di simpatie politiche, ma erano ben attenti a non farle trapelare per quanto riguardava il processo di assegnazione del Nobel. Instancabile comunque nell’insistere sulla pista politica, Pirandello, il 1° dicembre del 1932, scriveva da Roma a Marta Abba di avere appreso «in gran segreto» che la sua candidatura al premio era «stata posta da parecchi mesi dal Circolo di coltura [sic] fascista presieduto da Giovanni Gentile» e che lo stesso Gentile aveva addirittura spedito in Svezia il germanista Giuseppe Gabetti per tenere un ciclo di conferenze sulla sua opera e per «intendersi con i membri dell’Accademia del Nobel, che son quelli che assegnano il premio». Con questa lettera Pirandello tocca il vertice della sua confusione nei confronti della procedura adottata per il premio, mescolando una sorprendente ingenuità con una traccia d’italica furbizia e di fiducia nel potere delle «raccomandazioni». Gentile (che non candidò mai Pirandello al Nobel) non avrebbe ottenuto alcun risultato, se non negativo, da una sua candidatura avanzata a nome del «Circolo di coltura fascista» e, quanto a Gabetti, che effettivamente era professore universitario a Roma, il suo nome sarebbe stato molto più utile alla causa del premio se il cattedratico di lingue e letterature, idoneo come tale ad avanzare candidature all’Accademia, avesse proposto Pirandello al Nobel con una lettera ufficiale basata su un’esposizione dei meriti letterarî del candidato, anziché presentarsi in Svezia per tenere una serie di conferenze. Imbarazzante poi l’allusione ad una «intesa» da trovarsi in loco tra Gabetti e i membri dell’Accademia di Svezia. Se si fosse azzardato a proporla il professore di Dogliani sarebbe stato preso per uno squilibrato o per un delinquente.
Dopo un decennio di brancolamenti nel buio più assoluto, il drammaturgo siciliano venne infine proposto veramente, per la prima e unica volta, al Nobel per la letteratura il 23 gennaio 1934 da parte di Guglielmo Marconi in qualità di presidente dell’Accademia d’Italia e, caso fino ad allora unico nella storia del premio – come documentano il verbale del 27 settembre e poi la votazione formale dell’8 novembre 1934 – venne insignito del Nobel lo stesso anno della sua prima candidatura. Pirandello intanto, dal canto suo, aveva continuato a vaneggiare sulla base di informazioni che riteneva riservatissime e privilegiate ma che in realtà erano soltanto l’ennesima presa in giro, giacché il 5 aprile del 1934 scriveva ancora a Marta Abba da Roma che «in gran segreto» Gabetti gli aveva confidato che «per il Premio Nobel su dieci [suo corsivo] votanti in primo scrutinio» aveva «avuto nove voti favorevoli, cioè la quasi unanimità». A parte il fatto che appare incomprensibile un «primo scrutinio» su Pirandello e che comunque Gabetti non avrebbe potuto in alcun caso conoscere il risultato esatto di una votazione, alla quale non si capisce perché avrebbero partecipato solo dieci Accademici su diciotto, i verbali della commissione Nobel mostrano come l’opera di Pirandello, periziata unitamente a molte altre a marzo di quell’anno, fosse stata sottoposta ad una critica severissima da parte del massimo responsabile, il potentissimo Per Hallström, che riuniva in sé le cariche di Segretario Permanente dell’Accademia, di presidente della commissione Nobel e di esperto ufficiale incaricato di stendere un resoconto sulla produzione di Pirandello. Hallström, nella sua relazione, fa polpette della produzione narrativa di Pirandello considerandola del tutto inadeguata al conferimento del Nobel, ma riabilita lo scrittore siciliano per quanto riguarda la sua produzione teatrale, peraltro già molto conosciuta e rappresentata in Svezia, in un periodo di popolarità per il teatro italiano, in cui non va dimenticato come anche Roberto Bracco, per la sua attività di drammaturgo, fosse stato a lungo valutato dagli Accademici come un possibile candidato alla vittoria. I nove voti su dieci apparirebbero quindi assai poco credibili. Che nella decisione il fattore politico abbia giocato (ma a livello psicologico e non certo ufficiale) un certo ruolo, non si può certamente escludere. Hallström era notoriamente un grande ammiratore del Nazionalsocialismo e di Hitler, al punto di disperarsi nelle fasi finali della guerra perché le sorti del suo beniamino volgevano al peggio. La candidatura avanzata da Marconi in nome della fascistissima Accademia d’Italia non poteva quindi essergli rimasta del tutto indifferente e, almeno in questo senso, Pirandello, nella sua lenta marcia di avvicinamento al premio, aveva intuito qualcosa di possibile, esagerandola però a dismisura.
Se la vittoria di Pirandello cela un retroscena finora sconosciuto, non meno densa di misteri è l’attribuzione del Nobel del 1959 a Salvatore Quasimodo, con particolari sorprendenti che sono stati rivelati solo grazie alla desecretazione del materiale ufficiale. Anche negli anni del premio al poeta siciliano, non sono mancati clamorosi abbagli italiani, in particolare da parte di Giuseppe Ungaretti che stava ripercorrendo, senza saperlo, la strada delle illusioni e delle libere fantasie, già affrontata avventatamente da Pirandello. Come si è infatti appreso dalla pubblicazione dello scambio di lettere tra Ungaretti e il suo traduttore francese Jean Lescure («Giuseppe Ungaretti – Jean Lescure. Carteggio (1951-1966)», Olschki, 2010) il poeta italiano aveva messo in movimento tutta un’intricata trama di contatti, di appoggi e di amicizie che riteneva seriamente in grado di condurlo al successo nelle votazioni degli Accademici di Svezia. Le lettere a Lescure rivelano come Ungaretti non avesse capito quasi niente della procedura ufficiale per venire candidati al Nobel e facesse confusione addirittura sulle date di scadenza per la presentazione delle proposte e sull’idoneità delle persone qualificate ad avanzarle.
Ungaretti, candidato comunque regolarmente al Nobel fin dal 1955, quando a proporlo fu l’autorevolissimo T.S. Eliot, con candidatura reiterata nel 1956 ad opera di Marcel Raymond dell’Università di Ginevra, e nel 1958 da Howard Marraro della Columbia University, credeva che ad appoggiarlo in modo decisivo per il premio fossero il suo editore Mondadori e il francese François Mauriac, i quali non solo non erano in grado di fare leva sull’Accademia di Svezia ma di fatto non alzarono un dito per sponsorizzare (anche se inutilmente) il poeta italiano. A tagliare le gambe ad Ungaretti in realtà fu la perizia sulla sua opera, commissionata sciaguratamente dall’Accademia di Svezia al suo «esperto» di letteratura italiana, il giornalista Ingemar Wizelius, vagamente infarinato di cose italiane in virtù della sua vicinanza geografica al nostro Paese in quanto corrispondente del suo giornale dalla Svizzera. Wizelius, che a malapena parlava l’italiano, stilò un rapporto demenziale nel quale affossava Ungaretti servendosi di una prospettiva politica, sulla base del fatto che il poeta aveva goduto dei favori di Mussolini per la prefazione alla sua prima silloge lirica. In quanto poeta «fascista» Ungaretti era perciò da ritenersi impresentabile per il Nobel sopratutto a così breve distanza dalla guerra.
A mescolare definitivamente le carte sul fronte della nuova poesia italiana al vaglio di Stoccolma contribuì la perizia che parallelamente Wizelius stilò su Salvatore Quasimodo, proposto al Nobel per la prima volta nel 1958 da Maurice Bowra, presidente della Accademia Britannica, da Carlo Bo e da Francesco Flora, con candidatura reiterata da Bo nel 1959. Il corrispondente da Zurigo Wizelius riferì infatti all’Accademia che Quasimodo si era distinto per il suo vibrante antifascismo durante gli anni della dittatura e che quindi, da un punto di vista etico, la sua candidatura era inattaccabile, ferma restando l’eccellenza poetica che egli condivideva con Ungaretti. Gli argomenti di Wizelius non convinsero comunque la commissione Nobel, presieduta da Anders Österling, che prescelse nel 1959 un quartetto di finalisti composto da Alberto Moravia, Saint-John Perse, Ivo Andrič e Karen Blixen, decidendo a maggioranza con tre voti sui quattro della Commissione Nobel di assegnare il premio alla scrittrice danese autrice de «La mia Africa». A riservarsi contro la decisione fu però il quarto componente della Commissione, Eyvind Johnson, il quale fece presente come il premio alla Blixen, pur meritato, sarebbe potuto apparire come un tributo alla Scandinavia rendendolo passibile di critiche dall’estero. Come alternativa egli propose di premiare invece uno scrittore italiano in un manipolo costituito, in ordine di graduatoria, da Quasimodo, Silone, Moravia e Ungaretti, e riuscì a convincere il resto dell’Accademia a seguire la sua proposta. La Blixen rimase cosí senza Nobel al pari di Moravia, mentre a Saint-John Perse e ad Andriç il premio sarebbe toccato in seguito.
Superfluo aggiungere che le reazioni di Ungaretti (quali si possono leggere nelle lettere a Lescure) furono feroci. Il poeta liquidò l’Accademia di Svezia e la sua commissione Nobel come un’accolita di personaggi corrotti e rimbambiti e ritirò quanto aveva scritto in precedenza al francese sull’«haute opinion» che avrebbe avuto di lui Anders Österling, presidente della commissione e, per di più, Segretario Permanente dell’Accademia di Svezia, accusato adesso apertamente di aver indebitamente favorito la vittoria di Quasimodo. Ufficialmente la corsa di Ungaretti al Nobel non era però finita perché egli venne ricandidato nel 1964 dal belga Georges Poulet, ordinario di letteratura francese prima alla John Hopkins e poi a Zurigo e a Nizza, e nel 1965 da Otis Edward Fellows, professore di lingue romanze alla Columbia University, ma ormai le sue speranze di vittoria erano tramontate, mentre già si affacciava tra i nuovi candidati italiani il nome di Eugenio Montale.
I retroscena sui premi concessi e negati ai candidati italiani sono solo un esempio di quanto si è costantemente svolto dietro le quinte nei 117 anni del premio, con molte contrapposizioni inconciliabili tra i diciotto Immortali, con numerosi compromessi raggiunti in uno snervante meccanismo di do ut des e con decisioni talora tanto peregrine da risultare del tutto inspiegabili, al punto da portare in tempi recentissimi ad una clamorosa spaccatura dell’Accademia, consumatasi tra gli ultimi mesi del 2017 e i primi quattro mesi del 2018, una sorta di scoperchiamento repentino del vaso di Pandora tenuto serrato per oltre un secolo nel nome di quella «cultura del silenzio», evocata con orgoglio dal Segretario Permanente Sara Danius per caratterizzare la discrezione degli accademici, ma in realtà leggibile, assai meno onorevolmente, come «omertà», in base a vetuste regole da società segreta, escogitate nel tempo dagli stessi accademici e utili soprattutto a salvaguadarli dalle critiche (per errori, carenze o forzature) che sarebbero piovute loro addosso se fossero stati adottati criteri di trasparenza. Come è noto tutta la documentazione relativa al Nobel è secretata per 50 anni, un lasso di tempo tale da garantire la sicura scomparsa dei soci responsabili delle decisioni sul premio. Nata da una questione di molestie sessuali, in realtà estranea al premio in quanto rappresentata da accuse contro il marito di un’accademica componente della commissione Nobel, la crisi più grave mai attraversata dall’Accademia di Svezia si è invece venuta poi svelando come una serie di interferenze operate sul premio, protrattasi per almeno tutto l’ultimo decennio ma probabilmente per un periodo ancora più lungo. L’accusato infatti (almeno secondo numerose testimonianze) in quanto francese si sarebbe attivamente e felicemente adoperato per favorire in tutti i modi la vittoria dei candidati francesi e, in questa luce, appaiono alquanto sospetti i premi assegnati a Jean-Marie Le Clezio nel 2008 e a Patrick Modiano nel 2014, due riconoscimenti, il cui annuncio aveva suscitato molte perplessità. Che siano state commesse delle illegalità o comunque che si siano verificate interferenze anche gravi, è implicitamente provato dalla richiesta di espulsione dall’Accademia della socia in questione, avanzata da alcuni suoi colleghi e discussa, per poi essere respinta dopo una votazione, nei primi mesi del 2018. Lo scontro ha però portato all’abbandono dei lavori in Accademia, in segno di protesta, da parte di ben sei dei diciotto Immortali riducendo cosí a soli dieci soci il totale dei componenti, dato che altre due accademiche da tempo e per altri motivi avevano deciso di rimanere inattive, e rendendo quindi impossibile l’assegnazione del Nobel del 2018. È la fine dell’epoca della «cultura del silenzio», che, se per oltre un secolo ha salvaguardato la tranquillità degli accademici, non ha certo giovato alla trasparenza e alla limpidezza dei verdetti di Stoccolma per l’attribuzione del premio letterario più importante del mondo.