Molto prima che Churchill si affacciasse sulla scena, Mussolini aveva già sviluppato rapporti confidenziali, fuori dai canali diplomatici ufficiali, con Londra. In particolare, negli anni Venti, ci furono vari incontri e messaggi riservati col ministro degli Esteri inglese Austen Chamberlain. Un aspetto poco conosciuto delle relazioni italo-britanniche durante il Fascismo che conferma come la diplomazia segreta ha caratterizzato quegli anni più di quanto si pensi. Una prassi consolidata arrivata magari fino alle soglie della Seconda guerra mondiale?
di Roberto Festorazzi da “Storia in Rete n. 167
La collaborazione, sotterranea e invisibile, tra Mussolini e gli inglesi, durante l’intero arco del Ventennio, rappresenta uno dei misteri soltanto in minima parte svelati, per la sottrazione e la sparizione dei documenti più schiaccianti che il Capo del fascismo aveva conservato gelosamente fino all’epilogo di Dongo. Ora, l’emergere di nuovi e significativi elementi probatori non fa che infittire l’enigma.
Com’è noto, per molti anni, il Duce mantenne per sé anche la titolarità di ministro degli Esteri [dal 31 ottobre 1922 al 12 settembre 1929, dal 20 luglio 1932 all’11 giugno 1936 e infine dal 6 febbraio 1943 al 25 luglio 1943, NdR], e ciò gli permise di gettare le fondamenta di una politica internazionale, azzardata e rischiosa, che avrebbe dovuto procedere per intese segrete frutto di contatti personali e diretti con gli esponenti dell’establishment britannico. La questione stessa dell’esistenza di un carteggio tra Mussolini e Winston Churchill, non può essere che inquadrata in un approccio e in una filosofia di lungo periodo, le cui fondamenta furono gettate dal Duce stesso fin dai suoi primi esordi in politica estera, dopo la conquista del potere, a seguito della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Chi scrive attinge per cominciare alla testimonianza di uno dei più assidui collaboratori di Mussolini, il giornalista Giorgio Pini, che tra la fine del 1936 e l’estate del ’43, mantenne l’incarico di redattore capo del «Popolo d’Italia», il quotidiano fondato da Benito Mussolini. Pini – in una serie di articoli scritti nel 1959 e destinati al settimanale «Candido» (ma rimasti inediti, fino alla scoperta da parte dell’autore di questo articolo) –, racconta che l’ossessione dominante nel Duce, fin da quell’autunno 1922, fu di imparare la lingua di Shakespeare, per poter scrivere ai suoi colleghi di Londra lettere top secret nel corretto idioma inglese. Qui è sottinteso un aspetto, che non può sfuggire: egli, infatti, non soltanto non desiderava che interpreti avessero ad assistere ai suoi colloqui con gli esponenti britannici, ma voleva impedire che i minutanti di Palazzo potessero intervenire, a redigere in bozze, a tradurre, e persino a dattilografare, una sua missiva riservata. Rivela il giornalista fascista, che Mussolini, «assunte le funzioni di ministro degli Esteri, volle subito affrontare l’inglese con l’assistenza del giovane diplomatico Mario Pansa, funzionario di Palazzo Chigi. Nel novembre 1922, nel lasciare la Conferenza di Losanna, e nel congedarsi da lord Curzon [George Curzon, titolare del Foreign Office ed esponente del Partito conservatore, NdR], disse alla moglie del ministro britannico di non essere ancora in grado di scrivere una lettera in inglese, ma si impegnò di giungere a poterlo fare entro breve tempo. Mantenne l’impegno dopo pochi mesi: scrisse la lettera promessa e si mise in condizione di leggere [in quella lingua] vari discorsi che doveva pronunciare alle inaugurazioni dei Congressi internazionali in Roma».
Questo retroscena è destinato ad assumere una valenza decisiva, se appena si consideri quanto emerge dai diari e dalla corrispondenza di sir Austen Chamberlain, conservatore, ministro degli Esteri del Regno Unito dal novembre del 1924 al giugno del ‘29, e premio Nobel per la Pace nel 1925. Gli scritti privati di Chamberlain non sono mai stati editi in Italia, e ciò ha contribuito a lasciare in ombra aspetti finora ignoti dei suoi rapporti con il Duce. Sir Austen, a quanto finora si è saputo, ebbe cinque incontri approfonditi con Mussolini: a Roma, il 7 dicembre 1924, a Locarno, il 15 ottobre 1925, a Rapallo, il 29 dicembre seguente, a Livorno, il 30 settembre del ’26 e, infine, a Firenze, il 2 aprile 1929. Ciò che emerge, a sorpresa, è un sesto colloquio, di un’ora, che Chamberlain ebbe, a Roma, con il Capo del Fascismo, la sera del 2 settembre 1933. A quel tempo, lo statista conservatore aveva lasciato ogni incarico di governo, ma rimaneva pur sempre una personalità di alto lignaggio e capace di esercitare grande influenza, sul piano internazionale. Suo fratellastro Neville, primo ministro dal 1937 al ’40, ereditò, in qualche modo, la sua centralità, nello scacchiere della politica britannica, inaugurando una nuova e intensa fase di strette relazioni con il dittatore italiano.
Come scrive sir Austen, in una lettera alla sorella Hilda, l’indomani del rendez-vous d’inizio settembre del ’33 con l’inquilino di Palazzo Venezia, quell’incontro, destinato a rimanere segreto, perché non figura neppure nel registro delle udienze di Mussolini, non era stato esclusivamente privato. Infatti, Chamberlain, giudicando il colloquio «estremamente amichevole e interessante», così lo commenta: «Sono stato molto lieto di avere avuto l’opportunità di rinnovare le nostre relazioni». Poi aggiunge di aver trovato il Duce «di ottimo umore e in eccellenti condizioni di salute». Questo sarebbe ancora poco, se gli scritti intimi di Austen Chamberlain non ci regalassero un altro retroscena nascosto. Il 22 gennaio 1927, all’altra sorella, Ida, svela infatti: «Mentre ero a Twitt [la sua residenza di campagna privata, nel Sussex orientale, NdR] ho scritto, nel mio miglior francese (due errori corretti da Tyrrell!), una lettera piuttosto lunga a Mussolini, racchiudendovi il mio indirizzo di rettore [all’Università di Glasgow, NdR]. L’ho considerata in parte come gesto di amicizia nei suoi riguardi, al fine di mantenere le nostre piacevoli relazioni, ma l’ho intesa anche come un appello a non sottovalutare la Lega [la Società delle Nazioni di Ginevra, NdR] o a non consentire che la politica italiana possa essere guidata dalle visioni anti-Lega dei fascisti estremisti». Anzitutto, il Tyrrell citato nella lettera, è William Tyrrell, figura di diplomatico che fu sottosegretario di Chamberlain al Foreign Office, e si collocò al centro delle trame occulte tra Italia e Gran Bretagna. Ciò che è sorprendente, è però il seguito della lettera. Sir Austen rivela, infatti, alla congiunta, un passo compiuto da Mussolini per dimostrare tutta la sua buona volontà, alla luce del richiamo del collega britannico. La missiva in francese, viene inoltrata al Duce nella seconda decade di febbraio di quel 1927, dopo il rientro di Chamberlain a Londra. Da osservare anzitutto che questa comunicazione segue, di poco, la visita resa dal cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill, al Capo del Governo italiano, il 15 gennaio precedente, a Roma.
Il 19 febbraio 1927, il barone Giacomo Paulucci di Calboli, capo di gabinetto di Mussolini, chiama sir Ronald Graham, l’ambasciatore del Regno Unito in Italia, per un’importante informativa. Il diplomatico Bernardo Attolico è stato richiamato dall’incarico di vicesegretario generale della Società delle Nazioni, per essere mandato quale ambasciatore del Regno d’Italia in Brasile. Il Capo del Fascismo ha un colpo d’ingegno: approfittare della circostanza per concordare con il governo di Londra la successione ad Attolico, a Ginevra, nella persona dello stesso Paulucci. Scrive infatti Chamberlain che, sulle rive del Lemano, da parte italiana, venne sollecitato un parere del primo segretario generale della Società delle Nazioni, l’inglese Eric Drummond (futuro ambasciatore a Roma), per riscuoterne il gradimento sul nome di Paulucci. Sir Austen così riferisce un passo della comunicazione giuntagli, per vie diplomatiche riservate, da Drummond: «Nel suggerire questa nomina, il signor Mussolini aveva desiderato porre l’accento sull’interesse e sull’importanza che egli annetteva alla Lega e il marchese Paulucci [barone, NdR] disse che io potrei considerare (così telegrafò l’ambasciatore) l’azione di Sua Eccellenza [il Duce, NdR] come i primi frutti della recente comunicazione privata che gli avete fatto sull’argomento». La consultazione bilaterale generò i suoi effetti, perché Paulucci fu subito designato a ricoprire l’incarico di sottosegretario generale della Società delle Nazioni.
Il 1° aprile di quello stesso 1927, l’ambasciatore inglese a Roma consegnò al Duce un memorandum di Chamberlain. L’episodio dimostra che, da parte britannica, vi era la precisa volontà di ricorrere allo strumento dei messaggi informali, per esercitare, in modo discreto ma efficace, forme di pressione in grado di orientare, e di correggere, se necessario, la politica estera fascista, su punti qualificanti. In questa tecnica di approccio, se così si può dire, era compresa anche la non recondita finalità di vellicare l’ego di Mussolini, lusingato di poter intrattenere una corrispondenza segreta con gli statisti d’Oltremanica. Si ha notizia che lo stesso Austen Chamberlain sia rimasto impressionato dai messaggi del dittatore italiano. Come apprendiamo del resto dalla stessa comunicazione privata diretta alla sorella Ida, al dispaccio di Drummond, era unita «una cordiale lettera di Mussolini». Anche di questa missiva mussoliniana, ovviamente, non è rimasta traccia: essa non figura, come del resto quella di Chamberlain che l’aveva preceduta, nel repertorio dei documenti diplomatici italiani pubblicati.
Austen Chamberlain morì il 16 marzo 1937. La sua vedova, lady Ivy, venne mandata dal cognato Neville, nel frattempo divenuto premier, a svolgere una lunga e delicata missione presso il Duce, che durò dal novembre del ’37 al febbraio dell’anno successivo. Un’iniziativa diplomatica che servì a spianare la strada a inedite intese. È evidente che la famiglia Chamberlain custodì tali e tanti misteri che forse sono destinati a rimanere per sempre sotto chiave, insieme a tutti gli arcana degli intrighi sotterranei di quegli anni tra Roma e Londra. Ma i retroscena che abbiamo ricostruito aprono un ulteriore squarcio nelle vicende, oscure e tenacemente negate da alcuni storici cari al mainstream, della lunga e ancora inesplorata collaborazione tra il Duce e l’Inghilterra.
Roberto Festorazzi